“Donazione assoluta”. La trinità secondo Raimon Panikkar

Può il mistero centrale del Cristianesimo, la Trinità, essere letto in modo innovativo, con categorie “orientali”, che divergono da quelle dogmatiche classiche, senza per questo necessariamente contraddire o smentire queste ultime? Il filosofo e teologo Raimon Panikkar (1918-2010) pensa di sì. Le pagine centrali di uno dei suoi libri più noti, Visione trinitaria e cosmoteandrica: Dio-Uomo-Cosmo, sono per l’appunto dedicate a un’originale rilettura in chiave buddhista e induista del mistero trinitario.

Per Panikkar «la Trinità non è solamente la pietra miliare del cristianesimo da un punto di vista teorico, ma anche la base esistenziale, pratica e corretta della vita cristiana». Ma è altrettanto vero che «l’interpretazione classica della Trinità non è l’unica possibile», e questo perché il mistero trinitario è presente non solo nel Cristianesimo, ma anche in altre religioni. La Trinità, tiene a chiarire Panikkar, «non [è] un monopolio cristiano», ma piuttosto «una specie di “invariante” [= una “costante”, un “archetipo”] culturale e pertanto umano. […] Nella Trinità», continua il filosofo e teologo spagnolo, «si realizza un vero incontro delle religioni, che equivale non a una fusione vaga o a una mutua diluizione, ma a un’autentica promozione di tutti gli elementi religiosi e anche culturali contenuti in ciascuna di esse».

Com’è possibile concepire un Dio che è contemporaneamente uno e trino? L’«inadeguatezza» della logica di cui noi occidentali usualmente ci serviamo quando ragioniamo, ammette Panikkar, mai si rende evidente come in questo caso. La teologia “classica” ha cercato di risolvere questo problema distinguendo i concetti di “natura” e “persona”: in Dio non esistono tre “nature” o tre “sostanze”, cioè tre “dèi”; una sola è la “natura” divina (uno solo è Dio), ma l’unica sostanza divina è comune a più persone (“una sostanza in tre persone”, dice il dogma). Una soluzione senz’altro interessante, ma che ha fatto e tutt’ora fa molto discutere. D’altronde già Dante, nella Divina Commedia, scriveva che «Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone» (Purgatorio, canto III, vv. 34-36).

Paradossalmente, un aiuto per comprendere il mistero trinitario può giungere proprio dalle religioni orientali. «Forse le profonde intuizioni dell’induismo e del buddhismo, che procedono da un universo di discorso differente da quello greco, ci possono aiutare a penetrare più profondamente il mistero trinitario», scrive Panikkar, che tuttavia incomincia le proprie riflessioni proprio partendo da ciò che la «tradizione patristica greca» e «la scolastica latina di San Bonaventura» dicono sulla Trinità, e cioè che «tutto ciò che il Padre è lo trasmette al Figlio». Il Padre è «donazione assoluta», che «non lascia niente dentro di sé».

Ma se il Padre «ha dato tutto, per così dire, nel generare il Figlio», e si è dunque “spogliato” di tutto ciò che lo costituiva per darlo in dono al Figlio fino ad annichilire se stesso, come non vedere in questo “svuotamento” (κένωσις, kénōsis), in questo “auto-annientamento”, in questa «immolazione integrale» di Dio Padre qualcosa di simile all’«esperienza buddhista del nirvāna» e del «sūnyatā (vacuità)»?

Osserviamo ora meglio la seconda persona della Trinità. Per Panikkar è senz’altro vero che Gesù è il Figlio, il Cristo, l’“Unto del Signore”, il Mediatore fra Cielo e Terra. Ma se vale questa prima equazione, non vale però la seconda: Cristo infatti, per Panikkar, non è (solo) Gesù, e questo perché Cristo è anche Gesù, ma non si esaurisce in Gesù. Secondo Panikkar, «i cristiani non hanno nessun diritto di monopolizzare» la figura di Cristo, dato che essa è presente anche «in altre tradizioni religiose», sebbene «con diversi nomi e titoli», come Iśvara nell’induismo e Tathāgata nel buddhismo. Fenomenologicamente, anche Iśvara e Tathāgata presentano infatti, proprio come Cristo (e Gesù) «le caratteristiche fondamentali di mediatore fra divino e cosmico, fra eterno e temporale, ecc.».

Resta da analizzare la figura dello “Spirito Santo”. Per Panikkar «il Padre può “continuare” a generare il Figlio, poiché egli “riceve indietro” la Divinità che gli ha dato». Proprio questo “dare e ricevere indietro” è lo Spirito Santo, che spira dal Padre al Figlio e dal Figlio al Padre. Spiega Panikkar: «proprio come il Padre non trattiene niente nella comunicazione che di sé fa al Figlio, così il Figlio non trattiene niente per sé di ciò che il Padre gli ha dato. Non vi è nulla che egli non restituisca al Padre». Ebbene, secondo Panikkar, «non vi è dubbio che il pensiero hindū sia particolarmente preparato a contribuire all’elaborazione di una più profonda “teosofia” dello Spirito». Infatti, «che cosa è lo Spirito se non l’ātman delle Upaniṣad, che è detto identico a Brahman […]“In principio era il Logos”, afferma il Nuovo Testamento. “Alla fine sarà l’ātman”, aggiunge la saggezza di questo testamento cosmico, il cui canone non è ancora stato chiuso».

Panikkar offre ulteriori spunti di riflessione quando afferma che se il Cristianesimo può essere illuminato dal Buddhismo e dall’Induismo, è d’altronde vero anche il contrario. La sentenza che afferma che “alla fine di tutto vi è l’ātman”, ad esempio, dopo che sia stata posta l’equivalenza tra l’ātman delle Upaniad e lo Spirito Santo di cui parlano i Vangeli, può essere letta così: «lo Spirito viene dopo la Croce, dopo la Morte. Opera in noi la resurrezione e ci fa passare all’altra riva» – alla riva in cui risiede quel porto accogliente costituito dal “Noi” trinitario, una comunione d’amore che «abbraccia anche la totalità dell’universo in modo peculiare».

In definitiva, possiamo dire che in queste importanti pagine di Visione trinitaria e cosmoteandrica – a cui peraltro abbiamo dato solo una rapidissima occhiata – Panikkar offra un esempio altissimo della “mutua fecondazione” che secondo lui è possibile instaurare tra le varie tradizioni religiose. Il tentativo da lui compiuto è senz’altro un’operazione intelligente: al posto di contrapporre le diverse religioni, sottolineandone le incompatibilità, le mette in dialogo, aprendo sentieri che a prima vista potevano sembrare impercorribili.
Si può credere o meno al contenuto rivelato dalle religioni a cui Panikkar si rivolge, ma bisogna senz’altro riconoscere a questo filosofo e teologo di essere stato un maestro del dialogo interculturale e interreligioso. Il nostro tempo, che molto spesso tende a demonizzare il “diverso” e a innalzare muri e barriere per evitare di accogliere l’alterità o confrontarsi con essa, ha senz’altro bisogno di pensatori che sappiano mostrare che le differenze non devono necessariamente essere fonti di conflitto: il loro incontro può infatti dare luogo al reciproco arricchimento e a una grande armonia. In fin dei conti, solo note musicali diverse possono dare luogo, unendosi insieme, a una meravigliosa sinfonia.

 

Gianluca Venturini

 

[Photo credit Karl Fredrickson via Unsplash]

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“Vincoli” di Kent Haruf e l’annullamento buddhista del sé

Vincoli è uscito in Italia il 5 novembre scorso, edito da NNEditore e tradotto dal sempre impeccabile Fabio Cremonesi. È il primo romanzo (apparso negli Stati Uniti nel 1984) del Kent Haruf della Trilogia della Pianura (Benedizione, Canto della pianura, Crepuscolo) e de Le nostre anime di notte. Leggendolo, si nota quanto la prosa harufiana fosse ancora acerba, molto descrittiva e dunque più incline alla ricchezza lessicale. Inoltre, Vincoli ha un narratore che è sia interno che esterno alla vicenda e interagisce con il lettore – cosa che negli altri romanzi di Haruf non avviene: essi, scritti con uno stile essenziale eppure empatico, ricordano vagamente il naturalismo francese della seconda metà dell’800.

Vincoli racconta di Edith Goodnough, nata alla fine del 1800 nei pressi di Holt, l’immaginario paesino in Colorado dove tutte le opere di Haruf sono ambientate. La storia parte dal 1976: Edith è un’ottantenne che si trova ricoverata in ospedale in attesa d’essere processata per un presunto crimine. Ma, a questo, Haruf ci arriva pian piano. Prima è necessario occuparsi del passato di Edith e dei suoi genitori, Roy e Ada, emigrati in Colorado dall’Iowa poco prima della sua nascita. Nella contea di Holt i Goodnough hanno messo in piedi da zero una fattoria fatta di animali da allevare e campi da coltivare – instancabilmente, inesorabilmente. A due anni di distanza da Edith nasce Lyman, destinato a diventare un ragazzone semplice ma indolente, per nulla dedito alle attività agricole. Ancora adolescenti, i due fratelli perdono la loro madre e si ritrovano da soli con un padre intransigente, burbero, insopportabile, che resterà vittima di un incidente il quale ridurrà drasticamente il suo margine di manovra come uomo di fatica.

È la giovane Edith a sobbarcarsi di tutto («Era come se avesse le redini del mondo intero nelle sue mani»), vincolandosi a suo padre, a suo fratello (che ella mette su un piedistallo ignorando il suo egoismo capriccioso), alla memoria di sua madre e alla fattoria, rinunciando così a se stessa.

Non è certo un caso che il titolo del romanzo sia proprio Vincoli: esso non parla, infatti, di semplici relazioni, bensì di legami intrisi di obbligatorietà, senso del dovere e di colpa. Edith s’impone un duro martirio, un calvario costellato di scelte sbagliate e di continui “no” a se stessa urlati a gran voce. La donna annulla il suo sé e rinuncia – si potrebbe dire consapevolmente – ai suoi desideri, compresi quelli amorosi.

Viene da pensare al Dhamma-Pada, testo del V secolo a.C. facente parte del Canone buddhista. Edith ricorda il Brāhmana ivi descritto, ossia il sacerdote, il degno che fa parte della prima delle quattro caste e può raggiungere il Nirvana poiché è distaccato dal mondo, non possiede nulla e non vuole nulla. «Colui che, innocente, sopporta insulti, percosse e vincoli, avendo la pazienza come sua fortezza, forte come un esercito in campo, costui io chiamo brāhmana»1..

Tuttavia, a uno sguardo più attento, le rinunce di Edith appaiono dettate non da una spirituale volontà di abnegazione, bensì dalla paura e da un lacerante senso di colpa. La figura del sacerdote cara al Buddhismo deve rinunciare a qualsiasi vincolo umano, cosa che Edith proprio non riesce a fare. Anzi: il distacco da sé stessa si compie proprio esercitando una totale dedizione nei confronti degli altri. L’identità della donna si riassume in quella di sua madre morta sola, lontana dalla sua casa e in una terra che considerava ostile; in quella di suo padre, menomato nel corpo e nell’impianto emozionale; in quella, infine, di suo fratello Lyman, l’eterno bambino non conscio di sé né di ciò che lo circonda, il quale ha vissuto felicemente proprio grazie a quest’inconsapevolezza.

Pare che il solo vincolo che Edith sia stata in grado di spezzare (probabilmente quando sua madre se n’è andata) sia quello con se stessa. Un legame che andrebbe al contrario curato e difeso gelosamente e ferocemente, poiché è attraverso esso che si compie il nostro personale destino. Esso è il fil rouge che ci conduce ai nostri desideri, i quali sanciscono chi siamo e cosa è giusto per noi. Un vincolo che, per restare in vita, si nutre di un coraggioso e trionfante egoismo. Dice anche, infatti, il Dhamma-Pada: «Non si scordi il proprio bene per quello altrui, per quanto grande esso sia: riconosciuto il proprio bene, si sia tutto intento a questo».

Ma questo, forse, Edith lo capisce quando ormai è troppo tardi.

 

Francesca Plesnizer

 

NOTE:
1. Dhamma-Pada (I versetti della legge), in Buddha, I quattro pilastri della saggezza, a cura di K.E. Neumann e G. De Lorenzo, Newton Compton editori, Roma, 2013, p. 116.

[Photo credit Vladimir Kramer su Unsplash.com]

 

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The Sound of Silence

Potrà sembrare strano parlare di silenzio alla fine della stagione più rumorosa e festaiola dell’anno, in un’epoca in cui, specie in una grande città, l’unica occasione possibile in cui riposare un po’ le orecchie è un blackout che metta a tacere condizionatori, televisori, elettrodomestici e tutto ciò che da decenni ormai compone un (quasi) inevitabile e costante rumore di fondo.

Il silenzio, però, non rappresenta solo un momento di pace per orecchie stressate e abusate, né deve essere visto come un vuoto imbarazzante (o addirittura spaventoso) da riempire a tutti i costi. Al contrario, in un’era di dispersione dell’identità personale, di avatar e di discrepanza tra profili pubblici e sé privati, il silenzio rimane tra le ultime possibilità che ci rimangono per gettare uno sguardo nella parte più profonda di noi stessi e secondo le maggiori tradizioni religiose, perfino per entrare in contatto con Dio.

Affascinante in questo senso è la narrazione biblica della storia di Elia, profeta di rilevanza centrale per ebraismo, cristianesimo e islam. Nel Primo libro dei Re, un Elia in fuga attende l’arrivo di Dio che gli ha dato appuntamento sull’Oreb, ma sta a lui discernere la Sua presenza. L’autore del libro racconta dell’arrivo di una tempesta di vento, di un terremoto, di un incendio e commenta ogni volta: «Ma Dio non era nel vento/nel terremoto/nel fuoco» (1Re 19,11-12). Dove il profeta riconosce la presenza di Dio è nel ‘mormorio di un vento leggero’, una presenza discreta e gentile, lontana dalle manifestazioni di potere precedenti, inudibile se non nel completo silenzio.

“Dio è umile”, diceva un sacerdote, “parla solo quando tutti gli altri tacciono”. Non è un caso, quindi, che nell’ebraismo la preghiera più importante della liturgia cominci col comando Shemà!, “Ascolta!” (Dt 6,4), o che la sura, L’aderenza, comandi Iqraa!, “Leggi!” (Corano 96,1), entrambe azioni che richiedono silenzio, apertura a quanto viene suggerito dall’esterno, sforzo di comprensione. Non è possibile, pare, riuscire a raggiungere una dimensione di vera spiritualità a meno di non mettere a tacere ogni voce, interiore o esteriore, che possa distogliere la nostra attenzione dalla ricerca di Assoluto, elemento che ricorre anche negli insegnamenti attribuiti al Buddha Siddhārta Gautama: “Se apriamo le mani, possiamo ricevere ogni cosa. Se siamo vuoti, possiamo contenere l’Universo”.

Rimane l’ingombrante interrogativo, però, del perché dovremmo approcciarci al silenzio per recuperare una dimensione di spiritualità che, oggi, si sta ripresentando prepotentemente e violentemente sulla scena mondiale. Tra terroristi che indicono “guerre sante” in umano appalto dell’ira di Dio, politici occidentali che rispondono rimanendo sul pezzo e invocando nuove crociate, leader religiosi che usano il proprio potere per obiettivi fin troppo mondani e fanatici di qualunque culto pronti a uccidere seguendo una sorta di moderno ‘luddismo morale’, abbiamo bisogno di tutto, sembra, tranne che di ‘più Dio’ o ‘più spiritualità’ sul panorama globale.

Forse, però, è proprio per questo che creare silenzio, rientrare in sé e riscoprire una comunicazione con l’io più profondo e con l’Altro è oggi più che mai necessario. In un mondo pieno di gente impegnata a parlare (a gridare) di Dio, ritrovare il modo di parlare con Dio sarebbe tutto sommato una piacevole e insperata novità.

 

Giacomo Mininni

 

[Immagine: Silent Music (Suspension), di Kara Smith, 2014]

 

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Sul detto comune “Forse non tutti i musulmani sono terroristi…”

L’aveva capito Immanuel Kant quando, nel 1793, pubblicò il saggio Sul detto comune “Questo può valere in teoria, ma non vale per la pratica”: i proverbi, i modi di dire, i “detti comuni” appunto, sono più di semplici espressioni idiomatiche e di costume, sono vere e proprie cartine al tornasole del sentire comune, della mentalità collettiva. Possono quindi creare una specifica forma mentis e le basi di un sistema di pensiero, quando non ne siano già indicatori.

È questo il caso, oggi, di un detto che sentiamo fin troppo spesso, attribuito a Oriana Fallaci e diffusosi in maniera endemica dai bar ai social network ai talk show: “Forse non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani”, un brillante sunto di teologia, analisi sociopolitica e psicologia che non lascia troppi dubbi in quanto a letture della crescente instabilità che affligge ormai ogni parte del mondo. Peccato che, come sottolineò lo stesso Kant, spesso questi detti siano pure idiozie glorificate da una facile retorica. L’attentato a Londra del 19 giugno e quello a Parigi del 29 giugno dovrebbero già essere valide confutazioni del detto preso in esame, ma lasciando da parte gli attacchi ad opera di singoli, prendiamo in considerazione invece alcuni gruppi terroristici organizzati non islamici.

In Israele, un numero crescente di nuovi coloni, ebrei sionisti, ha compiuto decine di attentati ai danni della popolazione civile palestinese (il più delle volte: nel 2015, l’attentatore scambiò un ragazzo ebreo per un arabo e lo uccise con un coltello), omicidi tesi a rivendicare la totale sovranità ebraica della Terra Santa.

In Birmania, l’etnia rohingya, di religione islamica, è sistematicamente vittima di attentati ad opera di gruppi paramilitari che si dichiarano seguaci del buddhismo theravāda, che agiscono su base nazionalista e razzista. Il tutto, peraltro, avviene con il complice silenzio del Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, ora alla guida del Paese.

Nella Repubblica Centrafricana, le milizie cristiane degli anti-balaka compiono stragi coordinate e brutali ai danni della popolazione musulmana (lo stesso termine “anti-balaka” rimanda ad una contrapposizione religiosa, e può essere tradotto con “anti-musulmano”), con attacchi mirati ai civili.

In India, estremisti indù afferenti al partito del Primo Ministro Narendra Modi, il BJP, organizzano repressioni violente nei confronti delle minoranze non induiste del Paese, arrivando a imporre in alcune regioni (anche popolose e rilevanti come lo stato del Gujarat) una legge ispirata ai precetti indù, una vera e propria “shari’a induista” che punisce con l’ergastolo chi uccide una mucca.

Esisterebbero molti altri esempi anche al di fuori dell’ambito religioso e confessionale, come i movimenti del suprematismo bianco negli Stati Uniti o i rinati movimenti anarchici in Italia. Come accennato, il numero aumenta al momento in cui si aggiungono al novero anche i “lupi solitari” come Darren Osborne, Anders Breivik o perfino il nostrano Gianluca Casseri.

Espressioni come “Non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani” sono, a proprio modo, consolanti: ci portano a pensare che esiste una singola ideologia, religione o dottrina (o comune ridotte in numero e chiaramente identificabili) che è all’origine del male e della violenza, e che una volta eliminata questa, si potrà finalmente vivere tranquillamente, in pace, in armonia. L’alternativa sarebbe angosciante: riconoscere che la violenza ha sempre accompagnato la storia umana, e che individui, popoli e gruppi hanno utilizzato ogni tipo di religione o ideologia per darle una giustificazione ed una legittimazione. Certo, questo presupporrebbe anche un impegno personale e quotidiano nell’eradicazione della violenza, a partire dall’ambito individuale e educativo: fortuna che biasimare l’islam e qualunque altro capro espiatorio lo seguirà sollevi tutti da ogni responsabilità personale.

Giacomo Mininni

[Immagine tratta dalla campagna pubblicitaria Anche le parole possono uccidere realizzata da Armando Testa]

 

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Apologia del vuoto

Una sera di tante sere ero distesa sotto le coperte ad aspettare un sonno che non arrivava. C’era la testa che brulicava incessantemente di pensieri scomodi e nello stomaco una sensazione di dolorosa pienezza con relativo senso di nausea, seppur leggero, che mi dava ulteriormente da pensare. Quella sera di tante altre sere ho voluto indagare di più queste sensazioni, arresa al fatto che il sonno non osava presentarsi all’appello.

Per quanto riguarda la testa, si trattava di un groviglio di preoccupazioni che vanno attualmente a finire sullo stesso capo: la tesi. La tesi che per ora è ancora meno di una pagina vuota. Per lo stomaco, si trattava di quel classico cliché per cui sostanzialmente si mangia nel tentativo di riempire un vuoto interiore.
Pieno e vuoto, opposti ma anche continui. Una vita piena di attività ma inaspettatamente priva di emozioni realmente felici, un’apparente assenza di problemi che invece cela miriadi, costellazioni di problemi, una vita di stenti punteggiata di quotidiane magre soddisfazioni. Così vicini, il pieno e il vuoto, che sembra un attimo passare dall’uno all’altro, come con un semplice passo.

E invece no: viviamo nella convinzione costante che ‘vuoto’ non vada bene. Per esempio, un’alimentazione ‘con’ sarà sempre preferibile ad una alimentazione ‘senza’, e non importa se magari in quel ‘con’ c’è qualcosa che ci fa del male, perché l’importante è avere: traiamo la nostra soddisfazione dalla semplice, banalissima idea di non doverci privare di qualcosa. È la nostra deformazione occidentale, la nostra cultura del ‘sempre di più’, della frenesia; e poi ci sono le filosofie orientali, i cantori del poco, dell’essere felici senza volere altro, beatamente ignoranti della nostra contrapposizione secolare dell’essere e del non-essere.

Rovesciamo i luoghi comuni, proviamo a pensare che il vuoto non è solo tale, che non necessariamente il vuoto è nero e fa paura: pensiamo piuttosto al mu (in giapponese), il vuoto orientale, che non è veramente vuoto, non è propriamente non-essere ma un essere in potenza, un’assenza contingente, è energia; è la pagina bianca prima che vi si scriva una parola, l’intervallo tra due note musicali, lo spazio tra le mani che stanno per scontrarsi in un applauso. Come l’universo, che sembra vuoto e invece a quanto pare pulsa di energia invisibile.

Nella dottrina zen (declinazione giapponese di un ramo del Buddhismo nato nel VII-VIII secolo) si va ancora oltre: il vuoto costituirebbe l’essenza stessa e naturale delle cose, visibile solo con il raggiungimento dell’illuminazione. I maestri zen la rappresentano con un cerchio (ensō, in giapponese), simbolo del fluire della vita e dell’universo, un segno morbido con un vuoto (o pieno?) al centro: il vuoto e la forma sono dunque una continuità, un tutt’uno, per cui nello zen cogliere con immediatezza il vuoto significa anche cogliere la forma che vive insieme ad esso.
Anche in Occidente qualcuno, su questa straordinaria idea, ha deciso di rifletterci un po’ su. Yves Klein ha riempito tele e tele di una omogenea pittura blu, solo blu, e nel 1958 ha svuotato la galleria di Iris Clert a Parigi e ha rivestito tutto di smalto bianco, come a dire “Non è semplicemente vuota”; infatti c’è andato anche Albert Camus, che è rimasto impressionato da quel «vuoto pieno di potere». Poi c’è John Cage, che una volta nel 1952 ha dato un concerto per pianoforte in tre movimenti: si è seduto allo strumento, si è sistemato sullo sgabello, e per 4 minuti e 33 secondi non ha fatto niente; poi si è alzato e se n’è andato. Ma quel silenzio non è stato silenzio: si è riempito del rumoreggiare del pubblico in sala, delle imperfezioni sonore dell’ambiente, per cui il vuoto di musica non è stato un vero vuoto. Il vuoto è sempre pieno di qualcosa.

Queste storie dell’arte mi hanno molto suggestionata perché mi sembra di aver passato davvero troppi anni a lottare con questo vuoto che sentivo – che sento ancora –, cercando continuamente di riempirlo: con la vita quotidiana, con le canzoni, i film, i musical, l’arte, i libri, le serie tv, i romanzi e sì, persino con i biscotti; prendo in prestito brandelli di vite e di emozioni da parti e mondi esterni per sentirmi dentro qualcosa, perché sono incapace di percepire che dentro ho già qualcosa, il che significa che non so apprezzare tutto quello che ho, e nemmeno l’assenza di qualcosa che inconsciamente mi alleggerisce. Per esempio, è soprattutto il vuoto che ci dà la possibilità del nuovo: il vuoto è di per sé una ricerca del futuro. E invece continuo a soffrire della mancanza, mi struggo, urlo, non ne so uscire. Sono occidentale, niente mi basta mai. Mi sforzo ancora, cerco di vederla – di vedermi, in effetti – in modo più ‘orientale’: alla continua ricerca della pienezza nel mio vuoto.

 

Giorgia Favero

 

[Immagine tratta da Google Immagini, opera di Hakuin Ekaku (1686-1769)]

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