Connessioni virtuali o incontro umano?

Il tempo iperteconologico sembra voler sostituire sempre più le relazioni umane con delle connessioni virtuali, che sono espressioni marcate del dominio dell’intelligenza artificiale sull’intelligenza umana. In un contesto che esalta e incentiva questo genere di connessioni digitali, si va via via smarrendo la vera relazione umana.

Ad uno sguardo attento, profondo e non superficiale appare chiaro che, se da un lato la tecnologia digitale permette uno scambio d’informazioni inimmaginabile sino a qualche anno fa e imprescindibile per molti aspetti relativi alla qualità della nostra esistenza, è altresì vero che pur sempre di trasmissione di informazioni si tratta e non invece di relazioni. La relazione è un rapporto umano, un incontro fatto di presenza, di carne e fiato, di sguardi, profumi, calore e passione. Al centro vi è l’incontro, che dilata gli orizzonti di senso della nostra esistenza stimolando il cambiamento, aprendoci alla creatività, all’esplosione di idee per la costruzione di futuro. Diversamente, lo scambio d’informazioni computazionali che avviene ormai ordinariamente tramite chat, videochiamate, siti d’incontri, social network e social media è pressoché privo delle peculiarità che caratterizzano la dimensione generativa del vero incontro umano, fatto di tempi, di attese, delusioni, fatiche, gioie, sogni, speranze.

L’incontro reale, inteso come fondamento esistenziale, ci è stato trasmesso da grandi uomini, maestri di vita e di pensiero, quali Socrate e Gesù di Nazareth, solo per citarne alcuni. Costoro facevano dell’incontro umano la via preferenziale per fare comunità, per ricercare la giustizia, il bene, il bello e la verità. Costoro amavano passeggiare intrattenendosi con gli altri esseri umani facendo silenzio, ascoltando, parlando, confrontandosi insieme, accettando punti di vista differenti dai propri, accogliendo pensieri, gioie e fatiche, al fine di costruire significati esistenziali profondi.

Non dimentichiamo la gioia dell’incontro reale, l’apertura all’altro come possibilità di crescita e conoscenza di se stessi, proprio attraverso l’altro. Queste sono dimensioni imprescindibili per poter superare la reificazione della relazione con l’altro operata dalle connessioni virtuali e sperare in un nuovo umanesimo dell’incontro reale. In proposito ricordiamo le profonde e sfavillanti parole scritte dal filosofo Martin Buber rispetto all’incontro umano: «Se sto di fronte a un uomo come di fronte al mio tu, se gli rivolgo la parola fondamentale io-tu, egli non è una cosa tra le cose e non è fatto di cose […] ma, senza prossimità e senza divisioni, egli è tu e riempie la volta del cielo. Non come se non ci fosse nient’altro che lui: ma tutto il resto vive nella sua luce»1.

La tecnologia è sicuramente un mezzo formidabile e straordinario, ma deve restare tale, non diventare un fine sostituendosi all’insostituibile e cioè alle relazioni umane fatte di corpi, sentimenti, gesti e pensieri che s’incontrano e s’intersecano nella relazione viva e vitale fra i singoli. Le conseguenze di questo modus vivendi che si sta diffondendo massivamente sono lampanti ad uno sguardo etico, psicologico e antropologico: chiusura in se stessi, che può giungere a vere proprie sindromi che conducono all’isolamento nella stanza della propria abitazione, sino alla paura dell’altro e del mondo. È questa la sindrome, non più solo giapponese, ma ormai universale che prende il nome di hikikomori. Su questa via la vita si isterilisce, si coagula in un deserto emozionale e cognitivo spaventoso. Per arrestare questa desertificazione ontologica dell’uomo-monade, è decisivo che ciascuno rifletta, responsabilmente, sulle scelte che quotidianamente opera rispetto all’uso delle connessioni tecnologiche che rischiano di frapporsi nel cammino personale e relazionale con gli altri significativi che ci circondano, fino ad intaccare il nostro rapporto con la vita e tutta la realtà esterna.

In questo senso, difficilmente possono essere d’aiuto alcuni dei moderni professionisti della relazione d’aiuto che promettono e consentono sedute di counseling e psicoterapia tramite videochiamate e dispositivi virtuali, poiché altrettanto piegati sotto la logica imperante delle connessioni digitali. Proponendo e permettendo colloqui on-line, alcuni di questi professionisti, che dovrebbero far leva sui fondamenti della relazione umana come opportunità per il cambiamento e la cura, cadono in una contraddizione in termini. Invero, così facendo, svuotano di senso e valore quello che dovrebbe essere lo spazio e il tempo per eccellenza di ascolto, comprensione empatica e crescita personale che caratterizzano un incontro umano che voglia definirsi nutriente e generativo nel senso autentico del termine.

In questo panorama talvolta sconfortante e massificato, è utile ripartire dall’educazione degli adulti all’uso ponderato, equilibrato e critico dei nuovi mezzi di comunicazione e connessione, affinché possano diventare esempi edificanti per le generazioni future di un ritorno a relazioni umane i cui componenti siano davvero menti e corpi, spiriti e presenze, non solamente click del mouse o tocchi sullo schermo di un tablet o di uno smartphone.

Quanto scritto non intende condannare tout court le nuove tecnologie e le importantissime opportunità ch’esse offrono, intende piuttosto invitare a riflettere criticamente circa le possibili conseguenze di un uso smodato e squilibrato di queste recenti frontiere che spesso tendono a sostituirsi a quanto di più bello e meraviglioso la vita abbia da offrirci: l’incontro autentico con l’altro da noi che si nutre e abbisogna, anche e soprattutto, della presenza.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE
1. M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, tr. it. di A. M. Pastore, Edizioni San Paolo, Milano 20143, p. 64.

banner-pubblicitario_abbonamento-2018

Le emozioni: fondamento di qualsiasi cultura

Le emozioni sono il fondamento di qualsiasi cultura. Ma che cosa intendiamo con le parole “emozioni” e “cultura”? Parafrasando il sociologo Gianfranco Damico, le emozioni sono cambiamenti che avvengono nel flusso energetico di una persona1. La cultura, invece, ricalcando il significato proposto dall’antropologo Edward Burnett Tylor, è l’insieme di abitudini, capacità e conoscenze che un individuo acquisisce facendo parte di una società2. Queste definizioni sono intenzionalmente generiche, poiché ciò che conta in questo articolo sono i legami tra i concetti.

Dicevamo che le emozioni sono il fondamento di qualsiasi cultura, ma andiamo per gradi. Come si può notare dalla definizione di Tylor, le culture sono fondate sulle relazioni sociali, perciò maggiore è la qualità delle relazioni maggiore è la qualità di una cultura.
In questo senso il filosofo Martin Buber riconosce la massima qualità nell’“Io-Tu”, cioè un modello relazionale che prevede apertura, dialogo e rispetto nei confronti degli altri. Buber sa che questi valori non possono essere praticati in ogni istante della vita, perciò contempla l’“Io-Esso”, un tipo di relazione in cui le persone si chiudono e si usano vicendevolmente3.
Ispirandoci ai due modelli, possiamo dire che una cultura ha un’alta qualità quando le persone che ne fanno parte cercano di superare gli ostacoli dell’“Io-Esso” per dare vita all’“Io-Tu”. Ovviamente non stiamo discriminando le culture in buone e cattive: stiamo dicendo che tutte le culture possono tendere all’apertura, al dialogo e al rispetto, ma questa tensione deriva dalle scelte degli individui.

E le emozioni? In quale parte del ragionamento si trovano? Nel libro Le emozioni sono intelligenti il sociologo Damico afferma che «le relazioni sono sempre mediate da emozioni»4, perciò possiamo dire che qualsiasi cultura è fondata sulle relazioni sociali, ma a loro volta le relazioni sono fondate sulle emozioni. In sintesi le emozioni sono il fondamento di qualsiasi cultura.
Per chiudere il cerchio: maggiore è la qualità delle emozioni, maggiore è la qualità delle relazioni sociali, maggiore è la qualità di una cultura.
I modi in cui possono essere costruite emozioni e relazioni di qualità meritano di essere affrontati in un altro articolo. Per ora possiamo ritenerci soddisfatti di aver identificato i legami tra le emozioni e la cultura: molti antropologi e sociologi, infatti, vedono la cultura come un ambito indipendente dalle persone e soprattutto dalle emozioni.

Considerata la loro centralità, le emozioni sono un buon punto d’inizio per chi ha il compito di generare uno sviluppo culturale in un certo gruppo sociale.
Prendiamo questo esempio: un docente vuole ridurre i casi di bullismo nella scuola in cui insegna. Come può farlo? Una possibilità è l’ascolto attivo di cui parla la sociologa Marianella Sclavi in Arte di ascoltare e mondi possibili5: ispirandosi a questo tipo di ascolto, il docente può organizzare incontri in cui riflettere con i “bulli” sulle emozioni che hanno guidato i loro comportamenti. Può inoltre chiedere alle vittime di comunicare le emozioni che provano quando pensano agli atti subiti: l’esternazione può muovere empatia nei “bulli” e convincerli a non ripetere gli errori.
L’esempio è generico, ma il riferimento alla scuola non è casuale: come ha spiegato recentemente il filosofo Umberto Galimberti al festival trevigiano Pensare il presente, emozioni di qualità possono essere costruite attraverso percorsi formativi che considerino gli aspetti emotivi degli studenti. Alle parole del filosofo aggiungiamo una considerazione: considerato che le emozioni sono il fondamento di qualsiasi cultura, percorsi formativi di questo tipo non costruiscono solo emozioni di qualità, ma anche culture di qualità.

Stefano Cazzaro

Sono il fondatore della start up culturale Còlere. Credo che la cultura sia un’opportunità per le persone che vogliono migliorare la realtà, qualsiasi realtà. Amo tanto la scrittura quanto l’imprenditoria, perciò studio il content marketing e lo storytelling.

NOTE:
1. G. Damico, Le emozioni sono intelligenti, Feltrinelli, 2016;
2. E.B. Tylor, Primitive culture, Dover, 2016.
3. M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, 1997.
4. G. Damico, Le emozioni sono intelligenti, Feltrinelli, 2016.
5. M. Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili, Mondadori, 2003.

[Immagine tratta da Google Immagini]