Non è più tempo d’eroi

Nel dibattito pubblico, dominato dall’emergenza coronavirus, in questi mesi abbiamo continuamente sentito parlare di eroi. Prescindendo intenzionalmente dalla congiuntura storica (l’epidemia), socio-politica (i pesanti tagli alla sanità in Italia) ed economica (una crisi che perdura, con fasi alterne, dal 2008), viene da domandarsi, dal punto di vista esclusivamente filosofico, se questo XXI secolo sia tempo di eroi, tempo di miti. C’è ancora posto per l’eroismo, per una leggenda che non si limiti alla narrazione propagandistico-politica? O magari l’origine del mito è già di per sé una costruzione “partigiana” che si sedimenta nel tempo ed entra a far parte della tradizione?

«Sventurata la terra che ha bisogno di eroi.»

In questo contesto non può che tornare alla mente una delle più note citazioni che Bertold Brecht mette in bocca al suo Galileo. Una società che avverte il bisogno di costruirsi grandi narrazioni per giustificare gli sconvolgimenti del presente, per mascherare responsabilità, per annacquare la durezza stessa dell’attualità, è una società malata nei suoi principi? Ma non è proprio la costruzione di modelli eroico-idealizzati un bisogno fisiologico dell’uomo, ancor più antico della nascita della scrittura? Sì, inevitabilmente. Occorre allora evidenziare quali siano le differenze fra la narrazione leggendaria tradizionale e quella del terzo millennio.

L’idea che non sussistano più le condizioni storiche, sociali – magari perfino antropologiche – che hanno in passato consentito la produzione dei grandi miti, è eccessivamente semplicistica. Lo spartiacque fondamentale può essere considerato l’invenzione di internet, dalla quale è scaturita la rivoluzione digitale. Viviamo, innanzitutto, in quella che Mauro Carbone chiama «civiltà delle immagini»: siamo «bombardati in modo incessante e sempre più massiccio» da stimoli visivi, la cui durata in termini di tendenza, di viralità – in particolare sui social – è minima. Questa potrebbe essere una prima condizione che ha frenato lo sviluppo di narrazioni eroiche durature, articolate come quelle dell’epos classico, nelle quali l’attenzione del pubblico era condizione per lo sviluppo della trama (basti pensare all’uso di topoi ed epiteti formulari per tenere alta la concentrazione dell’uditorio).

E qui veniamo al secondo elemento che distingue la nostra epoca in termini di narrazioni epiche: l’oralità. Specularmente al proliferare delle immagini come mezzo immediato di comunicazione, ha fatto seguito un decadimento della cultura dell’ascolto, dell’attenzione verso la parola pronunciata. Ascoltare richiede tempo, pazienza, empatia. Tutti fattori che la frenesia della modernità digitale riduce ai minimi termini, lasciando come unici elementi di valore la rapidità (si pensi alla velocità di connessione) e la quantità (i bytes, la massa di informazioni accumulabili).

Proprio attorno al tempo ruota l’ultimo fattore discriminante fra la persistenza del mito antico e la volatilità della narrazione digitale. «Il tempo – come ha notato Riccardo Fedriga – nel quale vengono iscritti i documenti sul web è un tempo eternamente presente», al punto da instaurare un regime temporale che può essere considerato «dittatoriale», in ragione della sua immutabilità. La predominanza del mondo digitale, anche in termini di produzione e diffusione della cultura, con la sua (ossimorica) monoliticità cangiante, rende impossibile quella stratificazione delle varie tradizioni che era stata così fondamentale nella costruzione del mito antico. Questa caratterizzazione dei contenuti su internet, nella loro asetticità, nel loro essere compartimenti stagni, potrebbe aver inibito il mescolamento delle varie fonti a cui attingere per una narrazione eroica: sembriamo possedere una precisissima conoscenza di tutte le singole tessere del puzzle ma non siamo in grado di ricomporle in un quadro unitario.

In conclusione, l’avvento di internet e del mondo digitalizzato sembra aver influito significativamente sulla narrazione epica, precludendo al XXI secolo lo spazio per la figura dell’eroe (beninteso, non per le azioni eroiche tout court). È chiaro che questo non implica in alcun modo una valutazione moralistica nei confronti di una delle più grandi invenzioni tecnologiche della storia umana: la rivoluzione digitale, pur con le sue disuguaglianze e con le sue ciriticità, ha aumentato la nostra capacità di accesso alle conoscenze, contribuendo in modo decisivo alla democratizzazione del sapere. Chissà che anche l’età digitale non possa avere i suoi eroi e i suoi cantori; forse è ancora troppo sottile la distanza storica per poter giudicare.

 

Edoardo Anziano

 

BIBLIOGRAFIA
Brecht, Vita di Galileo, in I capolavori di Brecht, Einaudi, Torino, 1963
Carbone, Nota introduttiva, in E.Cassirer, Eidos ed eidolon, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2009
R. Fedriga, Web: la dittatura del presente

[Photo credit Şafak Atalay via Unsplash]

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L’arte dell’ascolto. Intervista a Nuria Schönberg Nono

La signora Nuria Schönberg Nono è la figlia di Arnold Schönberg, uno dei più rivoluzionari compositori del secolo scorso, e moglie di Luigi Nono, anch’egli compositore e protagonista di un’intensa stagione culturale veneziana e italiana. Per entrambi, pur in modi diversi, il termine “artista” risulta troppo limitato.

Tuttavia vorrei che il suo biglietto da visita per chi non la conoscesse non fosse costituito dai meri dati anagrafici per quanto eccezionali, ma dalla tenacia con cui si dedica alla direzione del centro Schönberg a Vienna e della fondazione Nono a Venezia, dall’orgoglio con cui conduce le visite, dalla sincerità con cui mi dice prima di iniziare “Se non so cosa rispondere semplicemente ti dico che non so” e dalla passione che la accompagna e la guida.

 

Essendo emigrata negli Stati Uniti a solo un anno, Lei non ha vissuto l’esperienza di spaesamento e perdita della lingua materna raccontata da molti ebrei profughi durante la seconda guerra mondiale, come ad esempio Hannah Arendt. I suoi genitori invece?

Io sono nata a Barcellona, ho trascorso un anno a Berlino, ma presto ci siamo dovuti trasferire a Los Angeles [per la salita la potere del partito nazista, ndr]. I miei genitori non mi hanno raccontato molto, mio padre era un uomo che viveva nel presente ed era sempre proteso verso il futuro, non amava piangersi addosso, in ciò era diverso da tanti altri.

Oltre a ciò si aggiunge la ristrettezza del clima culturale americano di quegli anni, che rapporti c’erano tra suo padre e altri illustri emigrati come ad esempio Adorno e Mann?

Non era una vera e propria comunità: Thomas Mann, Brecht, erano grandi personaggi, ma non ci si incontrava spesso. Quando lo si faceva era principalmente per motivi pratici, come dare una mano ad altri ebrei a fuggire dall’Europa. Non erano amici che si trovavano per cena.
Si parla (a proposito) della Weimar di Los Angeles, ma per lo più la si è romanzata. Non so neanche come fosse Weimar, spesso questi luoghi sono stati mitizzati. Molto amici di famiglia erano invece Alma Mahler e suo marito Franz Werfel.

Nel ‘54 conosce Luigi Nono e inizia la seconda fase della sua vita, come ha detto lei stessa. Una seconda fase segnata da impegno politico e artistico.

Ho conosciuto Luigi ad Amburgo nel 1954, alla prima esecuzione di Mose e Aronne, e l’ho rivisto qualche settimana dopo a Roma al festival di musica contemporanea. I dieci giorni successivi li abbiamo passati assieme: mi ha mostrato la città, i monumenti, i musei.

Un po’ come in Vacanze romane?

Sì, tutto quel primo periodo è stato proprio come un film. Poi sono tornata in America e ci siamo sentiti per un anno. Nel 1955 ci siamo sposati.

A questo punto inizia la fase di impegno politico.

Prima di arrivare in Italia avevo una mentalità tipicamente americana. I miei genitori non avevano un’avversione viscerale verso il comunismo come la maggior parte degli americani. Per farle un esempio mio marito mi scriveva lettere dall’Italia con la penna rossa e alcuni amici americani si scandalizzavano per questa cosa.

Quando ho visto cosa faceva il partito comunista qui in Giudecca ho deciso che volevo unirmi a loro. La Giudecca allora era un’isola di operai, c’erano molte fabbriche. Le strade non erano pavimentate, ogni anno c’erano casi di epatite tra i bambini e le scuole dovevano chiudere, non c’erano farmacie, né asili nido. Abbiamo lottato per avere tutto questo. Inizialmente facevo attività di informazione, come per il referendum sul divorzio, senza essere ancora iscritta al partito. Alcune donne erano contrarie al divorzio perché avevano paura di essere abbandonate dai mariti. Per l’aborto invece erano tutte a favore, perché comunque spesso lo praticavano in condizioni pessime.

Mi iscrissi al partito comunista dopo un soggiorno in America latina. In Perù Gigi venne arrestato, io ero in hotel con le bambine, lo avevano portato via perché aveva parlato male della Guardia Civil. All’epoca ti prendevano, ti portavano in campagna e ti fucilavano. Poi semplicemente dicevano che eri fuggito. Io sono dovuta andare in ambasciata e per fortuna c’era un bravo ambasciatore. Dovevo trovare un aereo di ritorno quanto prima, ma quel giorno sembrava impossibile. Prima Gigi venne trattenuto dalla polizia politica, ma dopo ventiquattrore doveva essere consegnato a Guardia Civil e allora non sarebbe andata molto bene. Era un momento in cui l’intero Sud America era in fermento, erano gli anni dei viaggi in motocicletta di Che Guevara e delle rivoluzioni. La situazione alla fine si è risolta. Gigi di ritorno da quel viaggio mi disse che mi ero dimostrata una vera compagna, così decisi di iscrivermi al partito.

Di Venezia Nietzsche ebbe a dire: «dovessi cercare una parola che sostituisca “musica” potrei pensare soltanto a Venezia». Quale fu il rapporto di suo marito con Venezia, che ruolo gioca nella sua musica?

Venezia ha avuto di certo un ruolo importante nella sua arte. Anche suo nonno era un artista, un pittore. Gigi si interessava di tutto. Era amico di Carlo Scarpa e del figlio Tobia, così come di Emilio Vedova.

In quegli anni Venezia era una città molto artistica, grazie alla Biennale era possibile vedere cosa stava succedendo a livello artistico nel mondo. Da parte di Gigi c’era un sentimento molto forte di appartenenza a Venezia – lo stesso che prova ogni veneziano. Era molto attento ai suoni e i rumori della città, dalle campane alle onde.

Inizialmente ebbe molto successo all’estero e in particolare in Germania, a differenza che in Italia, dove ci mise più tempo ad affermarsi, quindi era spesso là, ma appena poteva amava tornare a Venezia.

Il desiderio forte di un’arte che coinvolgesse le persone senza essere di massa è stato condiviso anche da suo marito. Mentre oggi la scissione arte/intrattenimento si fa sempre più netta. Cosa pensa Lei dello stato delle cose sotto questo riguardo? Cosa ne pensava e cosa ne penserebbe oggi suo marito?

Non è che pensasse di poter cambiare il mondo con la sua musica o che tutti dovessero ascoltarla. Nelle sue composizioni con testo, si parla di problemi sociali e di situazioni difficili nel mondo. Ad esempio nella fabbrica illuminata vengono descritte le condizioni terribili del lavoro che vi avviene all’interno. Lui pensava che il suo pubblico potesse essere anche composto di operai (o di altri) se si impegnavano all’ascolto. Ascoltare è una parola centrale dell’opera di Gigi. Forse è, tra tutte, la parola più importante nella sua vita. Ascolto che è ascolto degli altri quando parlano, così come ascolto di ciò che succede nel mondo, ascolto della musica. Non c’è bisogno di analisi o di conoscenze specifiche: il messaggio della musica può arrivarti a chiunque solo ascoltandola.

Per quanto mi riguarda penso che oggi ci siano segnali che vanno (anche) in direzione di tempi migliori. Vengono studenti di liceo a vedere l’archivio, io cerco di far capire l’entusiasmo e l’emozione che si può trovare in questi lavori, e ciò ha un enorme effetto su questi ragazzi. Inizio sempre così: “i vostri insegnanti vi avranno detto che Nono era impegnato politicamente, ma cosa può significare per voi in un mondo politico fatto da Berlusconi e altri?”. All’epoca la politica era fatta da persone che si potevano rispettare, che erano mosse da ideali e non solo desiderio di potere e di denaro. Gigi voleva mostrare le cose orribili che succedevano nel mondo, voleva che tutti ne fossero consapevoli. Le malattie che potevi prendere in fabbrica o la crudeltà di una dittatura. Però alla fine di ogni composizione c’è una affermazione di speranza. Io lo dicevo ai ragazzi qui in visita. I ragazzi non hanno bisogno di conoscere lo sfondo, la musica è immediata.

Come nasce l’idea della fondazione Nono?

Per dirigere questo progetto avevo esperienza sufficiente maturata a Vienna e ho anche avuto l’aiuto di molti amici musicologi. Il materiale era molto, casa mia era colma di libri; qui conserviamo 13 mila libri, manoscritti e lavori preparatori. Solo per il Prometeo abbiamo 14 scatole di schizzi preparatori. C’era la necessità di trovare un posto adatto per conservare tutto questo.

Non c’è stato molto sostegno da parte delle istituzioni: prima ci aiutava il Comune ma sono già quattro o cinque anni che non lo fa più. Alcuni ministeri ci hanno aiutato così come la Regione, ma negli ultimi tempi i finanziamenti continuano a diminuire. Io e le mie figlie sosteniamo da tempo almeno la metà della spesa per l’archivio e stiamo cercando per questo di organizzare una raccolta di fondi.

Padre, marito e figlia sono tutti artisti affermati: si può dire che sia un’arte silenziosa avere a che fare con tutti questi artisti?

È bellissimo, mi ritengo molto fortunata. Queste persone hanno una sensibilità molto particolare e un’umanità molto forte, il senso dell’umorismo, la creatività. A volte viverci vicino può essere difficile, hanno momenti di raccoglimento in sé stessi. In fin dei conti però mi ritengo molto fortunata.

 

La fondazione Nono si trova in Giudecca, vicino all’imbarcadero di Palanca. Trovate tutte le informazioni utili a questo link. Ringrazio Nuria Schönberg Nono per l’intervista.

Francesco Fanti Rovetta

 

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