Minoranze: la potenza del divenire secondo Deleuze e Guattari

«Minoranza e maggioranza non si oppongono soltanto in modo quantitativo. Maggioranza implica una costante, d’espressione o di contenuto, come un’unità di misura in rapporto alla quale essa può essere valutata. Supponiamo che la costante o l’unità di misura sia un qualsiasi Uomo-bianco-maschio-adulto-cittadino-parlante una lingua standard-europeo-eterosessuale (l’Ulisse di Joyce o di Ezra Pound). È evidente che “gli uomini” sono in maggioranza, anche se sono meno numerosi dei moscerini, dei bambini, delle donne, dei Neri, dei contadini, degli omosessuali, ecc. Ciò dipende dal fatto che l’uomo appare due volte, una volta nella costante, una volta nella variabile da cui si estrae la costante. La maggioranza presuppone uno stato di potere e di dominazione, e non il contrario. Essa presuppone l’unità di misura, e non il contrario.»
(G. Deleuze e F. Guattari, Mille piani, 1980.)

La supposizione presentata da Deleuze e Guattari in questa pagina di Mille piani sembra oggi quantomeno fondata. Lo era anche nel 1980, quando l’opera venne pubblicata, ma ai nostri giorni, nei tempi più maturi del capitalismo avanzato, affermare il dominio dell’Uomo pare quasi scontato. La maggioranza ha talmente plasmato il modo in cui noi occidentali concepiamo il mondo che le voci delle minoranze iniziano a farsi ascoltare quando gli effetti di tale dominio sono ormai evidenti anche a chi ha cercato in tutti i modi di non vederli. Se le violenze perpetrate nei secoli al genere femminile, alle popolazioni indigene e non occidentali, agli omosessuali – solo per fare alcuni esempi – rimanevano in un certo senso all’interno del contesto umano delle relazioni, la crisi ecologica attuale apre a dimensioni ancora insondate dalle minoranze stesse. Solo negli anni più recenti, infatti, il confronto con le dinamiche ecologiche che minacciano la sopravvivenza del genere umano hanno acquisito quella rilevanza che non era più possibile occultare.

Per quale motivo il silenzio è perdurato così a lungo? Perché le minoranze coinvolte nella crisi ecologica parlano altre lingue rispetto a quelle che siamo stati abituati ad ascoltare nell’ambito delle contestazioni umane. Non a caso, il passo citato proviene dal capitolo Postulati di linguistica, presente in Mille piani. Assistiamo a un salto comunicativo che esula dalle forme consolidate di interazione linguistica: dobbiamo entrare in comunicazione con il non-umano attraverso altri codici che non siano quelli di una scienza impostata sulla coppia epistemologica soggetto-oggetto. Dobbiamo sperimentare altri idiomi e altri dialetti. La crisi ecologica ci impone perciò di ripensare non solo la natura delle relazioni che intercorrono tra le minoranze e tra queste e la maggioranza, ma anche il rapporto che sussiste tra maggioranza e minoranze umane, considerate assieme, e quel sottoinsieme sterminato che paradossalmente le comprende tutte: il non-umano (il cosiddetto “ambiente”).

Ma cos’è una minoranza? Minoranza è divenire, dinamismo, è il movimento che anima i cambiamenti di qualsiasi evoluzione. Mentre il potere esiste per perpetuare se stesso, la minoranza lavora nel sottosuolo attraverso vibrazioni dapprima impercettibili e poi sempre più potenti, fino a far crollare dalle fondamenta la poderosa fortezza che si trova in superficie. Per questo motivo, Deleuze e Guattari affermano che «Non vi è divenire maggioritario, maggioranza non è mai un divenire. Non vi è divenire se non minoritario» (ivi).
D’altronde, perfezione significa massima compiutezza, ciò che non può e non deve cambiare in quanto già completamente realizzato. La maggioranza è perfezione, e difatti la più alta raffigurazione dell’Uomo corrisponde al Vitruviano di Leonardo. Con questa immagine, Rosi Braidotti, allieva di Deleuze – oltre che di Foucault e Irigaray – e autrice di molti saggi di riferimento nel panorama della filosofia femminista e della nuova “svolta postumana”, inizia il proprio manifesto su quest’ultima corrente di pensiero, intitolato appunto Il postumano. L’eco di Deleuze è lampante:

«All’inizio di tutto vi è Lui: l’ideale classico dell’Uomo, individuato dapprima da Protagora come “la misura di tutte le cose”, poi innalzato dal Rinascimento italiano a livello di modello universale, rappresentato da Leonardo da Vinci nell’Uomo Vitruviano. Un ideale di perfezione corporea che, in linea con il detto classico mens sana in corpore sano, evolve verso una serie di valori intellettuali, discorsivi e spirituali. Insieme, fondano una precisa concezione di cosa dell’umanità sia umano.»
(R. Braidotti, Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, 2013)

A questo punto rimane da domandarci: ha ancora senso voler essere “la misura di tutte le cose?” Vogliamo davvero la perfezione?

 

Petra Codato

 

[Photo credit Kris Mikaele Krister via Unsplash]

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Scienze (Post)umane Ambientali: prospettive su una disciplina emergente

Dal prossimo anno accademico all’Università Ca’ Foscari di Venezia parte, primo in Italia, un nuovo corso di laurea in Environmental Humanities, ovvero Scienze Umane Ambientali. Ma di cosa si tratta?

Diverse discipline convergono in questo innovativo campo di studi, modificandolo ma al contempo trasformando se stesse mentre si fondono. Per fare un esempio, l’emergere dell’ecocritica ha modificato il modo in cui la critica letteraria guarda a se stessa1. È però mia intenzione, in questa sede, concentrarmi sull’aspetto filosofico delle Scienze Umane Ambientali. Infatti, la maggior parte dei principali concetti di questa disciplina può trovare un terreno comune nella Filosofia, la cui caratteristica è sempre stata quella di voler abbracciare i vari aspetti del reale. Tuttavia, deve essere una nuova Filosofia, altrimenti rischiamo di ricadere in quei pregiudizi che hanno caratterizzato il pensiero occidentale per secoli, e che hanno portato ai problemi ambientali che affrontiamo oggi. Voglio perciò concentrarmi su una corrente di pensiero che si è sviluppata negli ultimi anni: il postumanesimo. In particolare, la “svolta postumana” è stata definita come «la convergenza del postumanesimo con il postantropocentrismo» (S. Bignall e R. Braidotti, Posthuman ecologies, 2019).

Al fine di costruire una base per una Filosofia innovativa, è necessario volgere lo sguardo alla Storia della Filosofia occidentale e analizzare ciò che ha portato agli attuali problemi sociali e ambientali. «Mentre le critiche all’antropocentrismo denunciano la gerarchia delle specie che culmina nell’eccezionalità e nel privilegio umani, il postumanesimo impegna più specificamente una critica dell’ideale umanista di “Uomo”» (ivi). In questo modo Rosi Braidotti e Simone Bignall presentano la raccolta Posthuman ecologies, che colleziona opere di diversi autori provenienti dalle più svariate discipline.

Secondo gli autori della “svolta postumana”, tutti i diversi atti di violenza si intrecciano. Perciò, nel momento in cui proviamo a trovare, dal punto di vista delle discipline umanistiche, soluzioni ai problemi ambientali che affrontiamo oggigiorno, non possiamo superare il pregiudizio antropocentrico senza sconfiggere quelli patriarcale, eurocentrico e universalistico. Per questo motivo, le nuove discipline umanistiche non possono non prendere in considerazione i movimenti indigeni e le teorie eco-femministe. Potrebbe sembrare infatti che, una volta superato (anche se ancora in forma solo concettuale) il pregiudizio antropocentrico, gli altri tipi di violenza svanirebbero con esso. Ovviamente, assumere un punto di vista ambientalista può aiutare, ma non penso sia così meccanico. Ad esempio, dobbiamo considerare che la ricchezza su cui stiamo basando le nostre nuove “economie verdi”, la nostra innovazione tecnologica verde, è ancora basata sullo sfruttamento di altre popolazioni, come i movimenti indigeni cercano costantemente di ricordarci. Allo stesso tempo, nei nostri paesi democratici e “sviluppati”, il patriarcato è ancora pervasivo: la violenza epistemica è difficile da combattere, e il primo passo è non dimenticare che la vera uguaglianza è ancora lontana dall’essere raggiunta. Il termine stesso antropocene, a indicare l’epoca geologica in cui viviamo, è stato oggetto di contestazioni: oltre al fatto che non è ancora pienamente accettato dalla comunità scientifica dei geologi, molti pensatori stanno criticando l’estensione di questa operazione concettuale: chi è il soggetto dei problemi che stiamo affrontando oggi? La specie umana nella sua interezza? O solo una parte di essa, la più forte? Braidotti risponderebbe con una sola parola: l’Uomo, dove la lettera maiuscola evidenzia l’idea dominante dell’uomo maschio, occidentale, adulto, bianco, eterosessuale e ricco.

Il pensiero ecologico è caratterizzato dalla volontà di trovare le interdipendenze e le connessioni tra gli elementi di un ecosistema. Quindi, dando ascolto alla premonizione di Felix Guattari, che, ancora nel 1991, pubblicò Le tre ecologie, non dovremmo mai dimenticare gli aspetti sociali e persino psicologici del vasto ecosistema in cui viviamo.

Le Scienze Umane Ambientali hanno l’opportunità di affrontare la crisi ecologica da un nuovo punto di vista. Tuttavia, se tale disciplina emergente vuole sfruttare al massimo le proprie basi di sapere e i propri strumenti, deve rinnovare le discipline umanistiche tradizionali da cui è nata. In questo processo, una radicale trasformazione dall’interno della disciplina più ambigua, la Filosofia, può aiutare molto. Infatti, se le Scienze Umane Ambientali vogliono affrontare in modo davvero rivoluzionario le sfide più urgenti della contemporaneità, devono diventare, almeno in parte, Scienze Postumane Ambientali.

 

Petra Codato

 

NOTE
1. Estremamente interessante su questo tema è la seguente raccolta: C. Salabè (a cura di), Ecocritica: la letteratura e la crisi del pianeta, Donzelli editore, Roma 2013.

[Photo credit Giuillaume de Germain via Unsplash]

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