“It” è un film che banalizza la cognizione dell’orrore

Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, il filosofo americano Noël Carroll provò a teorizzare nel libro The Philosophy of Horror (1990) il paradosso dell’orrore. Si tratta di una variazione del più tradizionale paradosso della tragedia, dovuto al filosofo David Hume e riducibile alla domanda: “perché siamo attratti da cose che (se fossero reali) riterremmo orribili?” La notizia che un film come It abbia incassato al box office statunitense oltre duecento milioni di dollari nelle prime due settimane di programmazione, è la dimostrazione che il pubblico è ancora molto attratto dal fascino dell’orrido. Ma che cos’è l’horror? Per Carroll si tratta di un genere eminentemente moderno, che ha avuto origine nel XVIII secolo in Europa con la cosiddetta letteratura gotica. Nell’analizzare l’horror Carroll evidenzia come questo genere sia un dispositivo che funziona nella sua totalità. Tuttavia, il filosofo mette in rilievo alcuni elementi tipici che appaiono essere più importanti di altri nella costruzione della finzione scenica. In particolare: la presenza nel cast di un gruppo di protagonisti generalmente umani (nel caso di It si tratta dei ragazzini che fanno parte del Club dei perdenti) contrapposti a un’entità mostruosa che li minaccia e che, a seconda dei casi, può assumere molteplici forme (tra cui quella umana).

Il successo del romanzo pubblicato nel 1986 da Stephen King è in gran parte dovuto alla sua capacità di riuscire a raccontare con incredibile efficacia un male archetipico, confinandolo in una mostruosa personificazione mutaforma delle paure di ognuno di noi. It è un mostro senza genere (anche se nel libro si ipotizza la sua propensione verso il lato femminile), è la personificazione di ogni nostra paura e si nutre del terrore che riesce a suscitare nelle sue vittime. L’unica soluzione possibile per eliminare un antagonista simile è compiere una crescita personale, superando le paure primordiali dell’infanzia e arrivando alla maturità dell’età adulta, dove i turbamenti non scompaiono ma si evolvono a una fase più consapevole rispetto al terrore di cui si nutre It. Nel nuovo adattamento cinematografico diretto da Andy Muschietti, gran parte di queste tematiche vengono banalizzate e ridotte a una lotta, nemmeno troppo spaventosa, tra un gruppo di ragazzini e un clown assassino (personificazione preferita del mostro creato da King).

Chiariamo una cosa: il nuovo lungometraggio di Muschietti non è del tutto esente da meriti. È girato con grande maestria registica, cura con grande attenzione gli elementi della messa in scena e, con un cast di tutto rispetto, ha il coraggio di prendere una serie di soluzioni narrative che in qualche modo lo rendono libero e indipendente dal peso incombente del romanzo a cui si ispira. It è un film che reclama una sua indipendenza ma che al tempo stesso si dimentica di mettere in scena l’elemento chiave nel conflitto tra il mostro e i ragazzini, vale a dire: l’immaginazione. La parte del viaggio onirico di Bill raccontata da Stephen King, poco prima dello scontro con il clown Pennywise, sarebbe stata una componente fondamentale da mettere in scena per mostrare allo spettatore come rabbia e coraggio non siano sufficienti, in questo caso, a eliminare un antagonista così spaventoso. Serve immaginazione per vincere le proprie paure ma Muschietti sembra dimenticarlo, portando in scena un film che punta molto sullo spavento più immediato e concreto, causato da esplosioni sonore a tratti esagerate e sulla diabolica fisicità del giovane Bill Skarsgård che interpreta It scegliendo saggiamente una prova di sottrazione attoriale, ispirata ai grandi antagonisti del cinema muto. Fatta eccezione per la splendida sequenza iniziale infatti, il clown di Skarsgård è un personaggio quasi muto e presente in scena pochissime volte, divenendo così una presenza metaforica più che un personaggio vero e proprio. In attesa di vedere la continuazione della storia cinematografica nel secondo capitolo dell’opera, questo primo vero adattamento cinematografico di It rimane un ottimo prodotto commerciale per la grande fruizione di massa, anche se la paura dei produttori di fallire al botteghino ha impedito all’opera di galleggiare verso l’Olimpo dei grandi film, rischiando di far naufragare una delle più belle storie mai scritte nella banalità ordinaria dell’intrattenimento orrorifico, già visto decine di volte sul grande schermo.

 

Alvise Wollner

 

[immagine tratta da google immagini]

 

banner-pubblicitario-abbonamento-rivista-la-chiave-di-sophia-03-03

“Mother!” è un incubo freudiano perturbante

Das Unheimliche è un vocabolo della lingua tedesca, utilizzato da Sigmund Freud nel 1919 come termine concettuale per esprimere, in ambito estetico, una particolare attitudine della paura che si sviluppa quando una cosa (o una persona, una impressione, un fatto o una situazione) viene avvertita da noi come familiare ed estranea al tempo stesso, scaturendo una generica angoscia unita a una spiacevole sensazione di confusione ed estraneità. In italiano il termine è stato spesso tradotto con l’aggettivo sostantivato perturbante. Al cinema, il corrispettivo dell’Unheimliche freudiano potrebbe essere individuato in Mother!, nuovo film dello statunitense Darren Aronofsky, il regista che nel 2011 aveva diretto Il cigno nero.

Presentato in concorso alla settantaquattresima Mostra d’arte cinematografica di Venezia, Mother! (o Madre! se preferite la traduzione italiana del titolo) ha diviso fin da subito critici e spettatori, generando una serie di riflessioni e giudizi contrastanti sul valore etico ed estetico della pellicola. Il perché di tante polemiche e discussioni è presto spiegato: Mother! è un film pensato per disturbare lo spettatore, per farlo uscire dalla comfort zone della sala cinematografica in cui si trova e per scaraventarlo in un incubo a occhi aperti della durata di oltre due ore. Piccola precisazione: il termine incubo qui non vuole far intendere che il film di Aronofsky sia per forza un horror, perché sarebbe sbagliato etichettarlo in questo modo. Piuttosto potrebbe assere catalogato come un complesso thriller psicologico. La verità è che Mother! oltrepassa ogni possibile definizione di genere perché è una sorta di unicum rispetto a tutto quello che abbiamo visto finora al cinema.

La trama segue le vicissitudini di uno scrittore in crisi d’ispirazione e della sua musa intenta a sistemare la casa in cui hanno deciso di vivere. All’esterno dell’edificio sembra esserci solo la natura incontaminata, all’interno dell’abitazione regnano invece i sentimenti più disparati di una relazione: dall’amore alla rabbia, passando per le piccole gioie fino ai sogni infranti. Il microcosmo della casa dovrebbe essere idilliaco per i due coniugi, ma c’è sempre qualcosa in agguato pronto a minare la serenità di un rapporto che insegue di continuo il sogno della perfetta felicità. Poi, all’improvviso, il mondo esterno inizia a fare irruzione nella casa della coppia. Prima con piccole avvisaglie, poi in maniera sempre più invasiva. Jennifer Lawrence interpreta la personificazione della pars costruens, la donna che cerca di costruire e sistemare la propria esistenza insieme a quella del compagno, ricoprendolo di cure e attenzioni. Javier Bardem è invece l’artista demiurgo e imprevedibile che, dando vita alla pars destruens, rimane sempre in bilico tra caos e ragionevolezza.

Impossibile raccontare di più, onde evitare di rovinare un film che andrebbe vissuto con la piena volontà di lasciarsi trasportare dalle immagini, senza pretendere che queste possano avere un significato ed un senso nell’immediato. Mother! è uno di quei film che potrà disgustarvi o deludervi a una prima visione ma che saprà smuovere le vostre coscienze spettatoriali, lasciandovi con un’infinità di spunti su cui riflettere nei giorni successivi a quando lo vedrete. È un film che ha bisogno di tempo per essere assimilato e che non lascia indifferente chi lo guarda. Per questo è un’opera coraggiosa e stimolante che merita di essere vista al cinema superando i pregiudizi che potrebbero influenzarne la visione. Mother! parla al cuore e soprattutto alla mente dello spettatore. È un film che denuncia lo stato di degrado e violenza in cui si trova oggi il nostro Pianeta. È un’opera che non si vergogna di essere autobiografica nel momento in cui mette in scena il rapporto tra un artista e la sua musa (Aronofsky e Jennifer Lawrence sono una coppia nella vita reale). Soprattutto è un film che ha il coraggio di prendersi dei rischi immani e di osare tantissimo pur di raccontare una vicenda capace di provocare una reazione forte in chi la guarda. Un lavoro in cui i difetti non mancano, ma che sarà capace di accompagnare per molto tempo i suoi spettatori, lasciando un messaggio che per ognuno di loro sarà diverso. In questo risiede la forza del Pertubante: nel portare alla luce ciò che credevamo nascosto e inesistente, facendoci diventare consapevoli di come l’arte, capace di indagare realmente le dinamiche umane, riesca ancora a turbarci nel profondo, avvicinandoci nel contempo al sublime.

Alvise Wollner

 

banner-pubblicitario_abbonamento-rivista_la-chiave-di-sophia_-filosofia