Le particelle dell’arcobaleno: intervista a Mario Pelliccioni

Mario Pelliccioni è un ricercatore presso l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, e all’interno del CERN di Ginevra, in quest’ultimo è stato co-fondatore ed è tutt’oggi attivista di un gruppo LGBT. In questa intervista, con un’accurata chiarezza e una raffinata capacità comunicativa, ci racconta come la percezione morale e culturale sia cambiata nei confronti della fisica rispetto ai secoli passati, ci espone la sua opinione rispetto al ruolo della scienza nella società odierna, con un particolare focus sul rapporto tra Trump e il suo antiscientifico negazionismo del riscaldamento globale; infine ci illustra come è composto, che cosa fa e quali obbiettivi si pone il gruppo LGBT all’interno del CERN. Come si coniugano tematiche legate all’identità di genere e all’orientamento sessuale con un ambiente rigoroso e scientifico come il CERN?

 

Buongiorno Mario, intanto grazie per aver accettato questa intervista. Di cosa ti occupi esattamente all’interno del CERN? A quali progetti stai lavorando?

Sono un ricercatore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (sezione di Torino), e lavoro dal 2008 in uno degli esperimenti principali del CERN: il Compact Muon Solenoid (CMS). Negli anni mi sono occupato sia del mantenimento e della messa a punto dell’apparato sperimentale, sia dell’analisi dei dati raccolti dall’esperimento. Ho lavorato ad una delle analisi che nel 2012 ha portato alla scoperta del bosone di Higgs, ed ora coordino uno dei gruppi che si occupa, tra le altre cose, della ricerca di ulteriori particelle di Higgs che potrebbero esistere in natura.

Bè congratulazioni, sarai molto fiero del lavoro svolto. Com’è nata la tua passione per la fisica? E qual è oggi la parte del tuo lavoro che ti entusiasma di più?

Ero appassionato di materie scientifiche fin da piccolo. Mi piace capire come funzionano le cose. Al liceo mi sono innamorato del rigore matematico della fisica, anche grazie a degli ottimi professori.
La parte che preferisco di questo lavoro è l’aspetto creativo legato al problem solving. Qui ci si trova spesso davanti a problemi nuovi, la cui soluzione sembra impossibile o non praticabile. Almeno finché non si arriva ad una via che non era mai stata pensata prima. In qualche modo, si crea qualcosa che non esisteva, e quello che era una difficoltà insormontabile può diventare facile in un attimo.

Si può dire che la fisica più di altri rami della scienza è una materia in cui la sfida più grande è quella di combattere i pregiudizi insiti nelle convinzioni comuni? Per lo meno da un punto di vista storico. Vedi Giordano Bruno, Galileo Galilei o anche solo Newton. Hai mai avuto l’impressione ancor oggi che un’idea scientifica incontrasse degli ostacoli culturali ancor prima che logici o matematici?

Può succedere, anche se le motivazioni al giorno d’oggi sono di norma molto diverse da quelle di qualche secolo fa, per fortuna. Dentro la comunità scientifica, a volte capita che si abbia investito tanto tempo, fondi, e fatica nel perseguire un’idea che poi risulta essere un binario morto. A volte un’idea nuova rende inutile un intero filone di ricerca. È normale che ci siano resistenze talvolta, ed in parte è pure salutare: se una novità non è in grado di superare un po’ di resistenza, forse non è così solida come sembra! In ogni caso, anche le critiche più feroci che ho visto fare non sono mai uscite da certi ovvi limiti di professionalità e rispetto.
Va anche considerato che gli scienziati vengono addestrati tutta la vita ad essere scettici e dubitare di tutto: questo include il risultato o l’idea che gli stai presentando in quel momento. I problemi sono spesso, ora come in passato, al di fuori della comunità, dove nel dibattito scientifico rientrano considerazioni politiche, ideologiche e etiche. Questo non è sempre un male, però.

In quali casi non lo sono? Come è possibile che uno come Trump possa mettere in dubbio per esempio lo sconvolgimento climatico? Ti sei fatto un’idea al riguardo?

La mia opinione è che la ricerca non dovrebbe avere, per la maggior parte, limiti etici o politici, ma l’applicazione delle conoscenze derivanti dalla ricerca sì. L’uso dell’energia dal nucleare, quanti investimenti assegnare alle risorse rinnovabili (e quali, e con che tempistiche), l’applicazione delle tecniche di bioingegneria più moderne devono necessariamente scaturire da un dibattito aperto (e informato, questa è la parola chiave) razionale dove il bene comune e la programmazione su lungo termine siano centrali, dove si decida cosa permettere e cosa no, dove assegnare risorse e dove toglierle. E quando si discute su come e dove la società distribuisca le proprie risorse si entra in un campo squisitamente politico.
L’esempio di Trump e del cambiamento climatico è evidente: le sue conclusioni non sono basate su considerazioni sul bene comune, e che non siano fondate su dati concreti è per così dire accidentale. Trump appartiene alla categoria di persone che invece di adattare le proprie idee ai fatti, cerca di adattare i fatti alle proprie idee (che può essere particolarmente sgradevole se sei un fatto che deve essere adattato, come nel caso di uno scienziato del clima o, per altro, un immigrato). Del resto, un dibattito informato sull’argomento nella società americana è impossibile: l’argomento è diventato completamente ideologico, con pochissimo spazio per la razionalità, e la strategia basata sul mantenere la popolazione americana ignorante in materia sta dando i suoi frutti.

E per quanto riguarda la comunità scientifica, e in particolare il CERN, quali credi siano le “problematiche sociali” che andrebbero affrontate a cielo aperto, se esistono? 

Sicuramente il fatto di essere in un ambiente internazionale con persone provenienti da tutto il mondo può presentare delle difficoltà. Ci sono diversi modi di lavorare e di relazionarsi con gli altri che devono in qualche modo coesistere. Per la maggior parte la mia impressione è che il CERN rappresenti una storia di successo a riguardo: ho visto fisici da paesi tra di loro in conflitto più o meno aperto collaborare in maniera produttiva, uomini provenienti da paesi dove la condizione della donna è tutt’altro che rosea che trattano le loro colleghe con rispetto e professionalità.
Per carità, non è tutto rose e fiori: ad esempio il gruppo LGBT del CERN ha avuto qualche difficoltà iniziale ad essere riconosciuto dal management, e qualche episodio di intolleranza si è verificato. Ma stiamo parlando di una comunità di diverse migliaia di scienziati, e sebbene questo non sia una giustificazione, i casi vanno inquadrati in questa statistica.
Vi è evidentemente una sotto-rappresentazione delle donne nel nostro mondo. Questo non è un problema esclusivo del CERN, che per altro impiega solo una frazione molto ridotta degli scienziati che lavorano qui. Non esistono soluzioni facili, soprattutto perché molte donne cambiano carriera negli anni dopo il dottorato, dove vi è tipicamente un periodo di precariato piuttosto lungo, e la carenza di protezioni e diritti rende le cose più difficili per loro. Alcuni paesi negli anni hanno cercando di arginare il problema, con iniziative come quote rosa per l’assunzione di personale, e sebbene questo aiuti crea anche delle distorsioni: il problema non è tanto che le donne non vengono assunte, è che la carenza di diritti per tanti anni le spinge verso carriere più sicure prima che venga il loro momento di competere per un posto fisso.

E per quanto riguarda questo gruppo LGBT ci vuoi spiegare in quanti siete? Che tipo di attività fate, che tipo di obbiettivi vi siete posti?

Il gruppo è nato circa 7 anni fa. Alcuni di noi “fondatori” lavoravamo negli USA in un laboratorio dove esisteva un gruppo simile, e spostandoci qui abbiamo notato che un’entità del genere mancava. Lo abbiamo creato per diversi motivi: anzitutto, è utile avere un interlocutore unico con il CERN per avanzare alcune richieste. Ad esempio, fino a qualche anno fa il laboratorio offriva certi benefit alle coppie sposate, ma non a quelle unite civilmente. Se si proviene da un paese dove il matrimonio tra persone dello stesso sesso non è ammesso (come in Italia, ad esempio), questo rappresenta una discriminazione nella discriminazione. E infatti il CERN ha cambiato le sue policy di recente, estendendo i diritti che offre alle coppie sposate anche a quelle unite civilmente.
Il gruppo funziona anche come forum: abbiamo una mailing list dove ci scambiamo informazioni su eventi legati al mondo LGBT nell’area di Ginevra, e dove forniamo aiuto e supporto a vicenda in caso di difficoltà o problemi. Organizziamo anche alcuni eventi più “sociali” come può essere una cena, una birra o una serata al cinema. Abbiamo settimanalmente un pranzo nella mensa principale del CERN, dove ci rendiamo riconoscibili usando una bandiera arcobaleno come tovaglia. E l’anno scorso l’attuale direttrice del CERN si è unita a noi in uno di questi pranzi, è stato un bel messaggio da parte del management.
L’interazione con il CERN nel passato non è sempre stata facilissima. Questo è un laboratorio abbastanza grande da avere una certa quantità di burocrazia, e ogni decisione o cambiamento di policy richiede un certo numero di passaggi e tempistiche magari un po’ lunghe: questo può essere frustrante. Ma è in generale un problema che si ha nel vivere all’interno di un’istituzione di queste dimensioni.
Fare una conta delle persone che partecipano al gruppo è difficile. La mailing list che utilizziamo è stata, volutamente, creata in maniera tale da non poter fare un censimento di tutti. Il numero di persone che partecipa ai nostri eventi o alle discussioni è estremamente variabile, ma questo è legato alla natura transitoria del CERN e più in generale di Ginevra: la gente viene qui, per lo più, per un anno o due e poi torna nel loro paese di origine con un bagaglio di conoscenze acquisite, o si sposta in un’altra nazione ancora. Personalmente sono qui da otto anni e sono considerato un “anziano”!

Mi sembra molto bello e molto utile, complimenti davvero. A proposito di cinema, non so se ti è mai capitato di vedere il film Pride di Matthew Warchus. È un esempio molto interessante di “intersezionalità”, ovvero di unione delle forze di due movimenti, in questo caso quello operaio e quello lesbico-gay, che teoricamente avrebbero fatto molta fatica ad allinearsi, ma che, una volta superati i relativi pregiudizi, riescono a portare avanti insieme una lotta larga e straordinaria. Avete mai avuto un’esperienza simile? E se potessi scegliere, con chi ti piacerebbe “allearti”?

Abbiamo proiettato quel film qui al CERN giusto l’anno scorso in un evento organizzato dal gruppo. Mi sembra che i tempi siano, per fortuna, cambiati, e che al giorno d’oggi l’intersezionalità sia già una componente imprescindibile del movimento LGBT, basta vedere la forte sovrapposizione che si ha tra questo e, ad esempio, l’attivismo femminista o antirazzista.
Alla fin fine molte delle istanze che questi movimenti rivendicano sono economiche almeno quanto sociali, ed è un grande merito della nostra generazione, secondo me, averlo riconosciuto.

Come giustamente riporti, riflette anche il rapporto tra le istanze sociali e quelle economiche. I soldi spesso si rivelano essere uno strumento d’oppressione anche senza che le persone se ne rendano veramente conto. Così come sembra che il pericolo di trasformarsi da “oppresso” ad “oppressore” sia un processo molto più sottile di quanto si pensi di essere in grado di saper osservare. Non so se hai mai sentito parlare di “omonazionalismo”, tanto per fare un esempio. Qual è secondo te un antidoto a questo tipo di “deriva”?

Ritengo che alla base di questi fenomeni ci sia un senso di colpa e un bisogno di essere accettato dalla propria comunità che è intrinseco nell’animale sociale che è l’uomo. Sei oppresso perché è giusto che sia così, e una volta uscito svolgerai tu stesso quello che credi sia il tuo ruolo sociale di oppressore, perché tu ce l’hai fatta. Mi sembra difficile che riusciamo ad eliminare completamente questo bisogno di accettazione, e allora il punto è riuscire a far capire alla gente che l’essere oppressi per un motivo o per l’altro non è indice di una colpa dell’individuo. Per lo più, è dovuto a motivi casuali o comunque esterni al controllo del singolo (dove nasci, in che famiglia, quale è la tua identità o i tuoi gusti sessuali). E questo non è un problema solo della nostra cultura e delle sue radici per così dire cristiane. Il concetto di colpa ed espiazione è diffuso in molte società.

«L’umiltà, prova esperienza comune, è la scala di una giovane ambizione. Ma, come abbia raggiunto l’ultimo gradino, volge essa le spalle alla scala e rimira le nubi, spregiando i gradini più bassi ond’essa è ascesa». Non lo dico io, ma Shakespeare1. Grazie per il tuo prezioso tempo Mario. 

Grazie a te.

 

Luca Nistler

Di professione sono un videomaker, ho 33 anni, sono laureato in Mediazione linguistica e culturale.
Ho fatto la mia tesina di laurea sull’omogenitorialità: un confronto etico e politico tra Italia e Inghilterrra.
Negli anni ho lavorato come traduttore all’interno del Milano Film Festival e Mix Festival a Milano e ho lavorato in alcune ONG.
Ho un progetto musicale di sola voce che si chiama Berg, e nel novembre 2016 è uscito il primo EP per Sangue Disken. Ho appena pubblicato su Rolling Stone il mio secondo singolo che affronta per l’appunto il tema dell’identità di genere.
Sono un attivista a tempo perso e un appassionato di fisica quantistica.
 
NOTE:
1. W. Shakespeare, Giulio Cesare, atto I scena II.
 
 
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Intervista a Guido Tonelli: il bosone di Higgs e le radici della nostra storia

Guido Tonelli, Fisico del CERN e Professore dell’Università di Pisa, è stato tra gli scopritori del Bosone di Higgs, occasione per la quale ha poi scritto La nascita imperfetta delle cose. La grande corsa alla particella di Dio e la nuova fisica che cambierà il mondo (Rizzoli, 2016). In questo libro Tonelli racconta cosa vuol dire affacciarsi oltre il limite estremo della conoscenza, fare la scoperta del secolo e capire come tutto è cominciato in quel preciso momento, un centesimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang in cui si è deciso il nostro destino. In tale opera si spiegano con chiarezza ed in maniera coinvolgente i misteri sull’origine del mondo e la possibile fine dell’universo.

La storia del bosone di Higgs comincia nel 1964 e si articola nei decenni successivi fino al 2011, anno della scoperta, resa possibile solo grazie all’acceleratore Lhc (Large hadron collider) al CERN di Ginevra. Non scenderemo nei dettagli, lasceremo che sia il professore a raccontarcelo. Quello che è interessante sottolineare è che con il Bosone di Higgs è stato riempito l’ultimo tassello che era rimasto vuoto del cosiddetto Modello Standard, ovvero la teoria che descrive il mondo delle particelle elementari e le incasella in una sorta di tavola periodica. Ma il Bosone di Higgs, suggerisce Tonelli, potrebbe spiegare anche molti dei misteri del cosmo. Secondo alcune teorie, infatti, questa particella potrebbe aver giocato un ruolo importante nelle primissime fasi dell’universo, per esempio riguardo la questione dell’asimmetria tra materia e antimateria, che subito dopo il Big Bang erano presenti in quantità uguali (o quasi): può essere stata una leggera “preferenza” del Bosone di Higgs per la materia ad aver consentito a quest’ultima di sopravvivere ai primi millisecondi di vita dell’universo, mentre l’antimateria (disintegrandosi con la materia) è completamente sparita.

Per concludere, ora il Bosone di Higgs non solo lo abbiamo davanti, ma ha anche aperto una nuova fisica. E pure (anche se non ce ne accorgiamo) un nuovo modo di vivere. Queste scoperte, che potrebbero apparirci come puramente accademiche, hanno infatti un’influenza su tutti noi: basti anche semplicemente pensare alla tecnologia e a quanto essa, tramite le scoperte scientifiche, ha cambiato la nostra quotidianità. A questo proposito Tonelli ci dà una grande conferma, ed anche di questo lo ringraziamo: la continuità che esiste tra i cosiddetti saperi “scientifici” ed “umanistici” nel terreno della vita quotidiana dell’uomo.

 

La fisica, come anche le materie umanistiche – soprattutto quando si spingono a un livello molto sperimentale – richiede ingenti risorse: in cambio di questo investimento esse ci restituiscono una maggior consapevolezza. Crede che scoperte come quelle fatte al CERN comportino un cambiamento per la nostra vita quotidiana, in termini di domande fondamentali e quindi di produzione di senso per la nostra esistenza come individui e come specie? L’origine della Filosofia nasce con domande come “chi siamo?” e da “dove veniamo?”; la Fisica, per certi versi, non tenta di offrire risposte simili?

Alla base di queste ricerche, che sono sicuramente complesse e richiedono ingenti investimenti, cosa c’è? C’è una spinta primordiale che è la curiosità!

Noi siamo esseri umani e l’umanità di oggi, nata in Africa milioni di anni fa, come si è evoluta? Grazie a qualche individuo che ha cominciato a spostarsi, ma perché? Io ho il pregiudizio di pensare che non si sia spostato dalla savana verso il territorio vicino per bisogno di cibo ma credo che la spinta più grossa dei nostri antenati ominidi sia la stessa che motiva noi oggi: la curiosità, il cercare oltre le colline qualcosa che ancora non abbiamo visto. È il tratto più fondante dell’umanità.

Per esempio, se uno prende un bambino piccolo e lo mette in un recinto alto un metro, questi magari cammina malamente, ma proverà ad alzarsi e a vedere cosa c’è oltre. Ecco che allora le ricerche si fanno per soddisfare questa curiosità, che è uno dei tratti più caratteristici dell’umanità, e guai a quell’umanità che scoraggiasse la curiosità e inibisse gli individui creativi che immaginano cose che gli altri non hanno ancora visto, in tutti i campi: in quello scientifico, artistico o letterario.

Occorre dire che le ricerche scientifiche cambiano non solo la percezione del mondo, in quanto hanno effetti su di essa, ma cambiano anche la nostra vita materiale. Ogni tanto immagino che se al CERN ci fosse un grande bottone rosso, spingendo il quale si potesse cancellare dalla quotidianità la meccanica quantistica e la relatività per una ventina di minuti, la gente capirebbe di quanto le scoperte scientifiche degli ultimi cento anni siano presenti nella vita di tutti i giorni: la medicina moderna, le comunicazioni, i cellulari, internet. Non c’è niente nella vita quotidiana che non sia debitore di una scoperta scientifica.

Le cose che si sviluppano nei centri di ricerca producono nuove tecnologie che, in maniera molecolare e silenziosa, entrano nella vita di ogni giorno. Per esempio, nessuno poteva immaginare che i primi laser inventati negli anni ’40/’50 furono inventati avrebbero corretto la miopia o letto un’etichetta al supermercato o riprodotto la musica. Lo stesso vale per la risonanza magnetica: gli studi sulle proprietà magnetiche della materia esistono perché abbiamo capito come questa funzioni; quindi prima o poi, qualunque funzionamento della materia che viene compreso (anche quello più astratto) trova delle applicazioni concrete. Prima o poi questo sapere si diffonde nella vita quotidiana.

Sembra che il linguaggio della natura sia distantissimo dai linguaggi degli uomini: cosa possiamo fare per ridurre questo gap? Secondo Immanuel Kant, la mente umana non conosce le cose in sé stesse ma le impressioni dei sensi che rispecchiano solo l’apparenza superficiale delle cose. Mettendo insieme tali impressioni per mezzo delle strutture spazio-temporali, la mente costruisce la sua immagine della realtà in sé stessa, che resterebbe sempre inconoscibile (noumeno). Dobbiamo ammettere che, in fondo, non sappiamo o non potremo mai sapere nulla di certo sul mondo che ci circonda, o crede che in futuro riusciremo ad arrivare ad una spiegazione definitiva? Dobbiamo rassegnarci, come scrive Kant, al fatto che in fondo la realtà è inconoscibile?

L’ipotesi di Kant contiene un’assunzione arbitraria, cioè il fatto che non c’è nessun elemento per dire che c’è una realtà, ma non potendo verificarla o sperimentarla non si può nemmeno ipotizzarla.

Io, invece, ho un atteggiamento diverso che è molto aderente alla maniera in cui noi uomini della scienza lavoriamo.

Non sono d’accordo con chi dice che noi scienziati sveliamo attraverso il metodo scientifico la natura e osservano le leggi della stessa come se fossero lì davanti a noi e avessimo il compito di scoprirle. In realtà noi abbiamo una nostra visione del mondo che è la stessa che può avere anche una scimmia antropomorfa: per esempio lo scimpanzé quando deve aprire una noce ha un progetto, ovvero prendere un sasso, rompere la noce e mangiare il seme, quindi ha progettato il futuro dicendo “utilizzerò un utensile più duro della noce, la aprirò e mi nutrirò”. Questo progetto è la stessa cosa che facciamo noi, è un’immagine del mondo. Ma cosa differenzia la scienza moderna dalle altre immagini del mondo? Che è rigorosa, che si cambia, si plasma, è pragmatica, accetta di sbagliare, non cerca la verità ma tenta di spiegare tutte le osservazioni e, quando troverà un’osservazione che non riuscirà a spiegare, sa già che dovrà trovare un’altra spiegazione.

Questo atteggiamento pragmatico, in cui non ci si pone il problema di cosa sia la realtà, permette di costruire la propria immagine del mondo che deve essere il più precisa e rigorosa possibile, nonché riproducibile, e che funzioni fino a quando non si scopre che c’è un piccolo dettaglio non congruente e bisogna buttare all’aria tutto e ricorrere ad un altro modello. Questo è l’atteggiamento che ha fatto fare i maggiori progressi e che rende un po’ superflua la questione circa l’esistenza o meno di qualcosa di più profondo: una realtà oggettiva che esista a prescindere da quella che noi possiamo costruire.

La scienza non è altro che una nostra costruzione mentale e, proprio essendo da noi costruita, ci dobbiamo preoccupare di renderla il più accurata e precisa possibile.

Il bosone di Higgs, conosciuto anche come particella di Dio: abbiamo letto molte speculazioni a riguardo, ma di cosa stiamo parlando concretamente? Quali sono le implicazioni di questa scoperta e che scenari apre?

Abbiamo scoperto un momento particolare della nascita dell’universo nel suo complesso, così oggi noi possiamo raccontare questa storia con un dettaglio importante che abbiamo collocato temporalmente e che sappiamo descrivere e precisare: c’è un periodo della nascita dell’universo – i primi cento miliardesimi di secondo – in cui sono avvenute cose che ancora non abbiamo capito ma, dal cento miliardesimo di secondo in poi, da quando il bosone di Higgs si è installato nell’universo, noi conosciamo la nostra storia.

È come se avessimo fatto un altro passo per raccontare la nostra nascita: dal cento miliardesimo di secondo in poi questa particella speciale si è congelata perché l’universo, espandendosi, si è raffreddato. Il bosone di Higgs, che era libero e vagava come le altre particelle, si è quindi bloccato nel vuoto, si è congelato nel suo campo scalare, il quale aveva un’importante proprietà: le altre particelle interagirono con lui diventando massicce, alcune hanno preso una massa, altre un’altra, altre ancora sono rimaste prive di massa. Se questo meccanismo non fosse avvenuto, la materia non sarebbe esistita, o meglio ci sarebbe stata ma in una forma diversa, pensiamo ad un intero universo pieno di particelle che viaggiano alla velocità della luce prive di massa: un sistema perfetto ma senza l’imperfezione che siamo noi o le galassie.

La materia infatti, considerata in atomi e molecole, si è organizzata in tale modo proprio per le caratteristiche dell’atomo: c’è un protone intorno ad un elettrone e se l’elettrone non avesse quella massa ben precisa datagli dal bosone, non potrebbe orbitare intorno al protone e non ci sarebbe la materia stabile che da miliardi di anni ci circonda.

Proviamo ad allestire un semplice esperimento mentale, immaginando una conversazione ideale tra un fisico e un filosofo. Il filosofo fa presente al fisico che è impossibile risalire a cosa ci fosse prima del Big Bang, che si può parlare dell’inizio del tutto soltanto per approssimazione: resta impossibile scorgere al di là dell’universo in cui viviamo, poiché esso costituisce un orizzonte intrascendibile. Il fisico dal canto suo sostiene che, attraverso la ricerca, è possibile – o lo sarà in futuro – provare a dire perfino cosa ci fosse prima del Big Bang. Crede che l’osservazione del filosofo sia pertinente o immagina un futuro in cui sarà effettivamente possibile conoscere quanto è accaduto, per così dire, prima dell’Universo? 

Sono sbagliate entrambe perché c’è questo pregiudizio: si pensa che il tempo sia separato dallo spazio, cioè che ci sia stato il big bang, momento in cui lo spazio si espanse e il tempo sia proceduto a prescindere.

Invece no: tempo e spazio sono nati insieme. Non si può dire ‘prima’ – non esiste –, perché lo spazio e il tempo prima che ci fossero spazio e tempo non c’erano. Quindi la risposta del fisico è sbagliata così come l’osservazione del filosofo perché il fatto di essere all’interno di questo universo, quindi di questo fenomeno spazio-temporale, ci permette di capire cosa sia potuto succedere in esso; e a quel punto niente ci impedisce di immaginare altri fenomeni che avvengano in un non-tempo e in un non-spazio (non esistono spazio-tempo al di fuori dell’universo in cui siamo).

Per esempio esistono le teorie dei multiversi che ritengono che il nostro non sia l’unico universo materiale ma uno dei tanti. E come potrebbero essere verificate se non possiamo osservare e vedere da un universo all’altro?

Ci sono delle ricerche in corso sull’esistenza di questi altri universi possibili: alcune osservazioni che si fanno del nostro universo, studiando tutti i suoi angoli, vanno alla ricerca di zone in cui ci potrebbe essere l’evidenza di un altro universo, un’altra bolla che si sia sovrapposta alla nostra. Per esempio le onde gravitazionali, scoperte recentemente, potrebbero servire a tale scopo. Se uno vede una zona in cui lo spazio-tempo è increspato senza motivo e non c’è nulla che lo deforma, quella potrebbe essere una zona in cui il nostro universo si sovrappone ad un altro universo: questa sarebbe la prova sperimentale dell’esistenza di più universi.

Saperi scientifici e saperi umanistici vengono spesso contrapposti, ma non è possibile trovare tra di essi dei punti di tangenza per potersi anche integrare maggiormente? La complessità della Fisica contemporanea è giunta a livelli tanto elevati che la persona non addetta ai lavori tende a non comprendere le questioni o corre il rischio di affidarsi a formule fuorvianti, come quelle utilizzate dai media. In questo non pensa che le materie umanistiche potrebbero aiutare la scienza a costruire una narrazione accessibile a tutti ma nel contempo precisa, perché sorta dal confronto con esperti come lei?

Sì assolutamente. Io faccio fisica perché amo la filosofia. Odiavo la fisica al liceo e amavo la filosofia e mi è rimasto questo amore appassionato per il dibattito filosofico che seguo da amatore.

Il cervello è uno: io mi appassiono per le meraviglie della natura così come mi appassiono per un brano di musica o per un bel libro o per una bella discussione tra un filosofo ed un teologo. La divisione è del tutto artificiale e la considero un residuo ottocentesco: non solo le materie umanistiche arricchiscono il sapere scientifico e viceversa, ma nel momento in cui dobbiamo spingere la nostra conoscenza al di fuori del conosciuto (è questa la ricerca moderna) ci ritroviamo su un confine in cui si corrono inevitabilmente dei rischi ed è lo stesso in cui si muovono i letterati che vogliono produrre qualcosa di nuovo, gli artisti che vogliono raffigurare qualcosa di nuovo, i musicisti che vogliono fare ascoltare qualcosa di nuovo: che differenza c’è? Nessuna. Ogni volta che mi imbatto in uno di loro li sento vicini perché abbiamo tutti le stesse paure, le stesse intuizioni, – a volte giuste a volte sbagliate – ma è lo stesso atteggiamento nei confronti della ricerca del nuovo.

Ci sarebbe tutto da guadagnare ad avere un intreccio maggiore tra le varie discipline, a moltiplicare i momenti di conoscenza. Scienze naturali e scienze umanistiche sono due modi avanzati in cui si sviluppa la conoscenza e vanno conosciute entrambi: solo in questo modo ne ricaveremmo di sicuro dei benefici.

Matteo Montagner

NOTE:
Intervista rilasciataci lo scorso 3 settembre 2016 in occasione del Festival della Mente di Sarzana (La Spezia).

[Immagine tratta da Google Immagini]

“E quindi uscimmo a riveder le stelle”

Oh rete d’astri, quanta meraviglia,
contro cui il guardo uccellino s’impiglia,
mi sono fatto ardito matematico
(e astrologo e filosofo astigmatico)
pur di cader nel fosso tenebroso

Pier Franco Uliana
Siderea arx mundi, De Bastiani, 2009.

Non so se sia stata la somma di una serie di casualità o una prolifica congiunzione degli astri che mi ha portata ultimamente a riflettere sul cosmo. C’è da dire anche che i fisici di questi tempi vanno di moda ed emerge un rinnovato interesse verso la ricerca e la scienza, la quale a sua volta si dimostra sempre più generosa nell’offrirci risposte o almeno nell’indirizzare le domande giuste.
Dopo la stimolante lettura delle Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi, 2014) di Carlo Rovelli – un prezioso libricino in grado di affascinare astrofili e non – e con la scusa di mettere alla prova tecnicamente la mia nuova macchina fotografica, mi ero decisa a fotografare le stelle, integrando il mio consueto peregrinaggio estivo con mete segnalate, dagli enti promotori del cosiddetto “turismo astronomico”, come buoni punti di osservazione.

Guardare il cielo stellato per distrarsi dalle brutture del mondo o per perdersi nella meraviglia dell’infinito è una possibile chiave di lettura, ma la sete di sapere è la più grande virtù dell’uomo e le stelle rappresentano le muse – in apparenza immobili e silenziose – che accompagnano colui che è desideroso di conoscere.
Esplorando gli astri l’umanità ha iniziato a smarrirsi rendendosi consapevole della sua piccolezza. Il dominio della tecnologia è solo l’illusione di avere ancora una posizione centrale nell’universo, ma d’altra parte i progressi della scienza non fanno che rimarcare la nostra imperfezione e impotenza.
Cercando di superare questa sua condizione fragile e mortale, l’uomo ha dato origine alla filosofia, alla religione e all’arte.
Ma forse è proprio questa imperfezione che ci fa sentire più vicini al cosmo e tutt’uno con l’universo, concetto che il fisico Guido Tonelli – protagonista insieme a Fabiola Gianotti della scoperta del bosone di Higgs – spiega nel suo illuminante libro La nascita imperfetta delle cose (Rizzoli, 2016): ­«la forma delle cose nasce dall’imperfezione che ha rotto la simmetria delle origini». Da questo minuscolo difetto abbiamo avuto inizio anche noi.

Se però analizziamo da un punto di vista etimologico la parola cosmo, vediamo come non ci sia nessun riferimento all’imperfezione, anzi, essa deriva dal greco κόσμος (kósmos) che significa “ordine”; la filosofia stessa è nata con la cosmologia (kósmos e lógos, quindi discorso sull’ordine) nel tentativo di decifrare l’armonia del reale.
C’è voluto parecchio tempo perché il pensiero umano imparasse ad apprezzare anche la disarmonia e l’errore e l’arte ben esemplifica questo percorso. Pensiamo alla bellissima volta celeste di Giotto, nella Cappella degli Scrovegni di Padova, il cielo stellato che il pittore rappresenta agli inizi del XIV secolo è una metafora dell’ordine dell’universo, un universo meraviglioso e perfetto perché si identifica con Dio. Ma di certo i cieli più emotivamente impattanti della storia dell’arte sono i notturni stellati di Van Gogh, c’è qualcosa di stridente in queste rappresentazioni che paradossalmente le rendono più comprensibili, più umane, o meglio ancora più reali, nonostante non vi sia nulla di naturalistico in esse.

Van Gogh, Notte stellata - La chiave di Sophia

Vincent Van Gogh, “Notte stellata”, 1889

Tra Giotto e il pittore olandese passano ben sei secoli, molti cieli sono stati dipinti, sognati e immaginati in questo lungo periodo: gli astri celesti hanno ispirato artisti, poeti, viaggiatori, scienziati.
Penso per esempio all’Ariosto e alla sua dote visionaria che lo renderà capace di immaginare il primo viaggio dell’uomo sulla Luna. Nell’Orlando Furioso questa viene descritta come una sfera di immacolato acciaio, in conformità con l’incorruttibilità aristotelica dei cieli, ed è anche il luogo dove ritrovare la ragione perduta sulla Terra. Ariosto rende quindi omaggio all’ordine che regola la sua epoca, ma il suo potere immaginifico è lo sguardo anticipatore dell’arte.
Restando in tema, segnalo la mostra che qualche anno fa è stata allestita a Ferrara (Palazzo dei Diamanti) per celebrare i 500 anni dalla prima edizione dell’Orlando Furioso stampato proprio in questa città. Per comprendere un visionario bisogna sempre chiedersi cosa egli veda chiudendo gli occhi, ed è questo l’interessante punto di vista proposto dai due curatori che invitano ad entrare nell’universo dell’immaginario ariostesco.

Contemporaneo dell’Ariosto, Copernico scrive il suo De revolutionibus orbium coelestium nel 1512, mentre Galileo inventerà il telescopio nel 1609, quasi un secolo dopo il poema cavalleresco.
È evidente come ogni rivoluzione necessiti sempre del suo bardo: la poesia è utile alla scienza perché ha la sensibilità e l’intuizione di mescolare la materia senza limiti fisici e creare corrispondenze sensoriali in grado di ispirare le menti più acute.
Qualche settimana fa sono venuta a conoscenza (sempre per casualità o per disposizione astrale) del progetto Sentire le stelle, realizzato dal compositore Francesco Rampichini. Questo è costituito da un’interfaccia digitale in cui spostando il mouse è possibile ascoltare la mappa di una costellazione o di una sua singola stella, individuandone posizione e magnitudine attraverso il rapporto delle intensità luce/suono.
Ecco le corrispondenze a cui accennavo prima, interessante notare che questa ricerca ha anche una base linguistica: in sanscrito, antica lingua indoeuropea da cui provengono molti nostri vocaboli, suono si dice svara e luce si dice svar, i due termini hanno la stessa radice fonetica (che accomuna anche la parola sole).
La luce diventa quindi suono, le stelle ci parlano, il cosmo è vivo e comunica, non è solo un velo dipinto.

Nel libro di Rovelli che citavo inizialmente, l’autore ci spiega come il saper vedere e il saper ascoltare siano fondamentali non solo per il progredire della scienza, ma anche per comprendere meglio il nostro ruolo come essere umani: «noi siamo fatti della stessa polvere di stelle di cui sono fatte le cose e sia quando siamo immersi nel dolore sia quando ridiamo e risplende la gioia, non facciamo che essere quello che non possiamo che essere: una parte del nostro mondo». Capire questo, significa anche adottare un comportamento di rispetto e di cura nei confronti del pianeta che ci ospita.

Per concludere: quest’estate mi sono fermata a osservar le stelle ma no, non sono riuscita a fare le foto che mi ero proposta. In compenso ho pensato al genio rivoluzionario di Copernico, all’ “oscuro labirinto” dell’universo che Galileo s’impose cocciutamente di decifrare e ad Astolfo che andò a cercare il senno di Orlando sulla Luna. Ma anche alle menti avide di sapere che si sono susseguite nei secoli fino ad oggi donandosi completamente alla scienza e all’emozione dell’animo sensibile dell’artista che guarda il cielo stellato.
Con un brivido ho sentito quanto l’umanità possa essere splendente anche nella sua naturale limitatezza, un potenziale che passa in secondo piano se si pensa alla stupidità e all’insensatezza diffuse nel mondo attuale.

Spero quindi che Dante avesse ragione in quell’ultimo verso del suo Inferno, spero che questo (ri)veder le stelle ci indichi adesso un nuovo cammino di luce e di conoscenza, dandoci il giusto grado di speranza per renderci migliori.

Dorè, Incisione per Divina Commedia - La chiave di Sophia

Gustave Doré, incisione per la “Divina Commedia”, 1857

 

Claudia Carbonari

 

[Immagini tratte da Google Immagini]

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