Bukowski e il blocco dello scrittore

«Scrivere del blocco dello scrittore è sempre meglio che non scrivere affatto»1.

Charles Bukowski in questo caso ha ragione. Dedico questo promemoria filosofico proprio alla pagina bianca, sofferenza dello scrivere e quell’appagante gioia che ti dà nel momento hai finalmente scelto l’ultimo punto.

Il blocco dello scrittore è l’evento più devastante che può accadere ad uno scrittore. Avere idee e non saperle esprimere, continuare a cancellare la stessa frase almeno duecento volte e rimanere sempre di fronte a quella pagina bianca in cui ti rifletti. Si prova una sorta di vertigine, pur non stando in piedi, pur non stando in alto fisicamente. Non è neanche possibile accartocciare la carta in cui abbiamo scarabocchiato i tentativi di appunti, ormai si scrive quasi sempre su un foglio virtuale, non c’è neanche questa via libera per la frustrazione. Ma pensandoci non succede solo agli scrittori: a chi non è successo quando era alle scuole e ha avuto un blocco durante un tema? Chi non sapeva quella volta come scusarsi di fronte al torto fatto? Chi non sapeva cosa scrivere in quel messaggio per quell’amico lontano? A chi non è successo di non sapere esprimere chiaramente i propri sentimenti ad una persona cara?

Spesso quel vuoto ci assilla e ci assale e ci fa perdere nell’insensatezza dei nostri pensieri. L’ignoto dell’indefinito, di quello che ancora non abbiamo chiarito con delle semplici frasi si propaga davanti a noi. Il non riuscire a scrivere ci terrorizza. Il non riuscire ci blocca. Lo si può chiamare anche terrore e paralizza. Dunque la scelta più facile sembrerebbe lasciare stare, magari riprovare più tardi, un’altra volta.

Non solo nella scrittura ma soprattutto durante la vita avviene. Se non abbiamo una strada tracciata e bisogna partire da zero, è impossibile non essere impauriti da quello che può succedere. Il nuovo può provocare angoscia, propriamente la paura dell’indefinito, dell’infinito possibile. Uno scrittore non sa mai dove lo porterà quel nuovo paragrafo, quella frase in cui un racconto inizia e una storia prende forma, come in un viaggio on the road in posti sconosciuti. Non si conosce la strada da percorrere.

Ed è forse qui che l’unica cosa che ci salva davvero è per il suo senso opposto quell’indefinito, come per il bicchiere mezzo vuoto, che di fatto è anche mezzo pieno. Quel mezzo pieno ci permette di essere in qualche modo positivo e dire a noi di stessi che ce la possiamo fare, perché c’è qualcosa di nuovo da intraprendere. Nuove prospettive da analizzare, scelte azzardate e fidate a seconda di quello che l’istinto ci guida. Se l’angoscia ci spinge da una parte, è emozionante dall’altra, l’ignoto ci fa provare diversi effetti.

Così anche scrivere di questo blocco aiuta lo scrittore a esprimere il suo malessere, ma pur sempre gli consente di scrivere. Lo sforzo aiuta ad andare avanti a pensare, a vivere nel modo migliore che ci è permesso; alla fine è tutta questione di volontà fin dove ci è dato. Esercizi quotidiani di scrittura, come sempre anche un po’ di vita per andare avanti, passo dopo passo verso un futuro. Oppure come in questo caso al prossimo punto e ad un nuovo articolo.

Al prossimo promemoria filosofico

Azzurra Gianotto

NOTE:
1. Charles Bukowski.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Delle scuse che ci diciamo per non cercarci mai

Eccomi, volevi vedermi?

Sì: ho un problema.

Che problema? Mi sembri in forma; cioè non hai l’aria di un fiore appena sbocciato ma mi stupirebbe il contrario. A guardar bene, hai preso qualche chilo ma non t’abbattere: un po’ di palestra e va via tutto.

Non ti ci mettere, non ho voglia di scherzare. Se t’ho detto che ho un problema, ho un problema.

Lapalissiano. Che hai?

Mi vedi veramente ingrassato? Non la dovevo comprare ‘sta camicia: ha un taglio troppo particolare e cade male, sembra che io abbia la pancia. O forse sono ingrassato veramente? Perché fai quella faccia?

Scherzavo: non sei ingrassato, idiota. Questo problema tanto urgente, allora? Me lo dici cos’hai o aspetto la notifica?

Ah sì: è che ho questo problema che mi assilla. Non riesco più a comporre.

Ah sì?

Sì non so cosa fare, le ho provate tutte: ho provato a comporre di notte, di giorno; a digiuno, a stomaco pieno; l’altra settimana son stato via, sono andato in un posto bellissimo, lontano da tutto e da tutti per allontanarmi dai rumori: a proposito, t’ho postato le foto dell’albergo sul diario ma non hai commentato.

Lontano da tutti proprio, eh?

Come dici?

Niente, fa’ nulla. Allora: hai pensato alla causa di questo blocco?

Ma sì, ti dico che ho provato di tutto: è l’ispirazione che mi manca.

Ti ricordi?

Cosa?

Non ti ricordi: questo è il punto.

Ma di cosa non mi ricordo?

Eh no, non ti ricordi, se hai bisogno di chiedere; un tempo ti sarebbe venuto in mente senza chiedere.

È che sono incasinato ultimamente, son sempre di fretta, in una mano l’agenda e nell’altra il telefono. E poi le prove, le lezioni, i concerti. Praticamente penso nei ritagli di tempo, mi sorprendo a pensare mentre sono sul treno, mentre sono in fila per comprare il pane. A proposito: devo comprare il pane.

Stronzate.

Che dici?

Che sono stronzate, sono tutte scuse: la verità è che sei distratto. Tu e la maggior parte delle persone che ti scivolano attorno e ti fanno la cortesia di non travolgerti mentre “ti soprendi a pensare”. Non vai fino in fondo.

La fai facile tu: ho mille cose da fare. E poi non capisci: tu hai sempre il naso in quella cavolo di biblioteca, con un libro ti svegli e con un altro ti addormenti. A che ti serve, poi, un giorno me lo dovrai spiegare. Io devo lavorare, non posso perder tempo a lambiccarmi il cervello come voi.

E infatti stai lavorando bene, eh? E guarda che quei libri qualcosa da dire ce l’hanno, altrimenti nessuno li leggerebbe più.

Ah sì: infatti è pieno così di lettori di Agostino!

Infatti è pieno così di gente serena, che sa almeno di dover cercare, verso dove andare, in che direzione affannarsi per procedere.

Senti non ho bisogno della paternale da filosofo proprio adesso. Non so se l’hai dimenticato, ma ho un problema, io.

No, non l’ho dimenticato. Infatti t’ho portato una cosa.

Cos’è? Un pezzo di carta?

Sì, tutto Agostino in un biglietto non ci stava.

«Grande è questa potenza della memoria, troppo grande, Dio mio, un santuario vasto, infinito. Chi giunse mai al suo fondo? E tuttavia è una facoltà del mio spirito, connessa alla mia natura. In realtà io non riesco a comprendere tutto ciò che sono. Dunque lo spirito sarebbe troppo angusto per comprendere se stesso? E dove sarebbe quanto di se stesso non comprende? Fuori di se stesso anziché in se stesso? No. Come mai allora non lo comprende? Ciò mi riempie di gran meraviglia, lo sbigottimento mi afferra. Eppure gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell’Oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi».1

E che significa?

Scoprilo tu, se non ti sei già dimenticato anche di te.

Emanuele Lepore

NOTE
Agostino, Confessioni, X, 8.15