Il metodo filosofico di fronte a Facebook e al digitale

Secondo Zygmunt Bauman, «le relazioni che, in tutto o in parte, si conducono online sono ormai così numerose che una sociologia senza Facebook e simili è semplicemente inadeguata», perché è diventato «una dimensione di vita quotidiana per milioni di persone» (Z. Bauman, Sesto potere, 2012). Queste parole, che all’epoca potevano suonare provocatorie, a quasi dieci anni di distanza assumono una rilevanza particolare: in questo breve lasso di tempo, gli utenti Facebook sono passati dall’ordine di grandezza dei milioni a quello dei miliardi e oggi un’analisi sociologica sarebbe davvero riduttiva se non tenesse in considerazione la socialità mediata digitalmente.

Lo stesso vale per il digitale come oggetto della filosofia. La digitalizzazione, infatti, non è più esclusivo ambito di interesse per specialisti del Web, e occorre introdurla sistematicamente anche nella riflessione filosofica accademica. È vero che, al pari degli utenti dei social, il numero degli utilizzatori di Internet è in continua crescita, e che la digitalizzazione di ogni momento della vita quotidiana rende necessaria una riflessione su tematiche etiche, ambientali, ma anche politiche e morali, suscitate dalle nuove tecnologie. Tuttavia, non è la diffusione massiva di Internet la motivazione primaria per cui la filosofia dovrebbe essere applicata al digitale. Innanzitutto la digitalizzazione ha cambiato le modalità di accesso, conservazione e diffusione della conoscenza, pertanto, se intendiamo la disciplina filosofica letteralmente come “amore per il sapere”, essa dovrà confrontarsi con le tecnologie digitali proprio perché esse impattano sull’oggetto fondamentale del suo studio, il sapere appunto. Inoltre, l’insieme delle tecnologie digitali non solo scuote le fondamenta di concetti cardine della riflessione tradizionale – quali spazio, tempo e sé – ma è in grado perfino di plasmare nuovi “mondi”, per i quali è necessario ripensare in toto nuove categorie interpretative.

A sottolineare il fertile dialogo fra filosofia e nuove tecnologie negli ultimi decenni si è diffusa l’idea di una “filosofia computazionale”: secondo alcuni, le frontiere più avanzate delle tecnologie informatiche possono contribuire enormemente all’analisi filosofica. La computational philosophy vede, cioè, nella potenza dei calcolatori la possibilità non di una nuova filosofia, ma di una sorta di “filosofia potenziata”, in cui l’elaborazione di enormi masse di dati dovrebbe portare a una riflessione più accurata. Per certi versi, questo è ovvio: la possibilità di avere accesso a un quadro più completo facilita la comprensione della complessità, consentendo di tenere conto di tutte le variabili in gioco.

Eppure l’oggetto della filosofia non è quantificabile esattamente, non è “datificabile”. La filosofia non è una pratica algoritmica, al filosofo non interessa registrare determinati output a partire dall’inserimento di input predeterminati. Al contrario, la pratica filosofica risiede nel percorso condotto, nella ricerca. Se questa viene “appaltata”, delegata a una macchina, si perde il senso stesso della filosofia come attività umana. Perciò «l’applicazione diffusa di qualsiasi tecnica informatica disponibile a tutta la gamma degli argomenti filosofici»1 portata avanti dalla computational philosophy, benché sia un esperimento interessante, va in una direzione differente rispetto alla filosofia, e non è il quadro in cui sviluppare i rapporti fra filosofia e digitale.

Il rapporto fra filosofia e digitale, infatti, si qualifica pienamente come filosofia del digitale, e non come “digitalizzazione” del metodo filosofico e la stessa differenza terminologica è legata a un differente compito che le due discipline si pongono. Infatti, «se tra filosofia e digitale inseriamo un “del”, ecco che il genitivo cambia la natura del rapporto tra i due termini, con l’introduzione di un elemento critico»2. Il “del” configura un peculiare rapporto con l’oggetto digitale, una analisi critica – nel senso etimologico di krinein, “distinguere” – che, senza sminuire i miglioramenti apportati dalle nuove tecnologie, cerca di metterne in luce le reali dinamiche, spesso occultate dal velo della pubblicità che elogia a priori ogni beneficio. La convinzione della “filosofia computazionale”, al contrario, è che si possa continuare a fare filosofia su temi classici semplicemente aggiungendo algoritmi e big data al proprio arsenale argomentativo. Senza considerare che anche la stessa decisione di utilizzare per scopi filosofici la tecnica digitale solleva questioni molto più pressanti delle risposte che i computer possono aiutarci a trovare su temi di filosofia “pre-digitale”.

In conclusione, la pervasività e la multiformità del digitale non devono far ritrarre “spaventata” la filosofia verso ambiti di indagine più sicuri e meno compromettenti. Al contrario, la digitalizzazione può essere uno stimolo per la riflessione accademica a uscire dall’astrattezza di certe dissertazioni per tornare al ruolo di voce critica nella società. Senza la pretesa di risolvere la complessità con un algoritmo, ma con la consapevolezza che con quella complessità occorre fare i conti.

Edoardo Anziano

NOTE
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La fallacia del bravo cittadino

Da qualche anno l’attenzione pubblica ha volto lo sguardo all’ambiguo rapporto tra internet e la privacy di chi internet lo utilizza. Si è discusso molto, e si continua a discutere, in che misura sia legittima la mercificazione delle nostre informazioni più intime, così come dei nostri vissuti. Termini come Big Data, pubblicità mirata, marketing personalizzato sono stati sulla bocca di tutti. La personalizzazione dell’esperienza online, avvicinando domanda e offerta, non fa di per sé alcun danno, e − se pur qualcuno può sentirsi violato − non è l’unico modo in cui la pubblicità entra prepotentemente nella vita quotidiana. Basti pensare alla 5th Avenue a New York così come al caso tipicamente americano dei naming rights, per cui una società può comprare per un certo numero di anni il diritto a dare il proprio nome ad edifici o luoghi pubblici. L’utilizzo di big Data, così come di ogni medium in generale, è di per sé moralmente neutro.

I governi hanno preso lentamente nota del fenomeno, hanno cercato di regolamentarlo dove possibile e dove necessario. Obama nel 2014 ha richiesto che fosse fatto un report sui Big Data, ma per ora nulla di efficace e decisivo è stato fatto in questa direzione, e nulla sembra annunciare un prossimo cambiamento. Molti avvenimenti importanti hanno attirato l’attenzione pubblica e questi temi sono passati in secondo piano. L’elezione di Trump, la Brexit, la fragile situazione politica italiana hanno ricevuto giustamente più attenzione, spostando il dibattito ai margini. Eppure nulla di ciò che in un primo momento aveva suscitato il problema della privacy è cambiato. La necessità di una regolamentazione rimane.

Dato questo sfondo ciò che mi interessa trattare è un argomento che si sente spesso ogni volta che il diritto alla privacy viene in qualche modo violato. Il problema che sorge dalla collezione e dall’uso di Big Data introduce un problema più ampio. Si sente dire:

Non mi riguarda se vengo “spiato”, perché non ho niente da nascondere. Al contrario, se ciò serve per aumentare la sicurezza di tutti, ben venga.

Questo ragionamento suona subito in modo strano e al contempo è abbastanza di buon senso da essersi diffuso a macchia d’olio. Ma se è vero che ogni discorso vive di presupposti, vediamo quali sono quelli del caso. Prima di tutto è evidente che l’argomentazione sottende una disequazione: la sicurezza è un valore più importante della libertà. Ciò è discutibile, ma si può legittimamente sostenere e con motivazioni valide. Ciò che squalifica veramente tale discorso è un altro presupposto: chi argomenta in questo modo ammette implicitamente e per principio che qualunque soggetto possa violare la sua privacy, siano esse corporazioni, governi o hackers, sia in sostanza buono e saggio. Egli fa ciò che fa per il bene comune, ed essendo io buono non ho nulla da temere.

Non c’è bisogno di richiamarsi al fantasma di Antigone per ricordare che la norma del singolo non è la norma del Potere. Le due volontà non solo possono divergere, ma anche confliggere; e ciò significa che il presupposto non regge, l’argomento è fallace.

La logica seguita dai privati è il profitto, l’aumento di capitale; la logica seguita dai governi è invece il controllo. Entrambi possono spingersi oltre ciò che è avvertito dall’individuo come proprio bene. Questi casi critici, di cui non si parla e di cui non ci interessa, sono esattamente ciò che fa implodere l’argomento del bravo cittadino. Essere “spiati” riguarda tutti e rimettere il problema alla bontà di chi trae vantaggio da ciò non è la soluzione. La soluzione, che in questo caso non può che avere la forma del compromesso, emerge dal confronto critico con il problema, dalla consapevolezza che bisogna essere coscienti di quanto accade e di quanto velocemente muta la realtà con cui ci relazioniamo, in modo di evitare in futuro errori simili alla fallacia del bravo cittadino.

Francesco Fanti Rovetta

[Immagine tratta da Google Immagini]