La saga di Harry Potter come “meditatio mortis”

L’uscita quasi contemporanea del libro Harry Potter e la maledizione dell’erede e del film Animali fantastici e dove trovarli può costituire un’occasione per andare a recuperare i sette volumi che compongono la saga di Harry Potter e reimmergersi nella loro lettura. Molti dettagli che magari quando eravamo più giovani avevamo tralasciato o ci erano semplicemente sfuggiti potrebbero, ora che siamo più grandi, saltare subito all’occhio e gettare nuova luce sulla vicenda che ha accompagnato e reso ‘magica’ l’infanzia e l’adolescenza di tutti noi.

Può essere d’aiuto, in questa impresa di riscoperta, la lettura di qualche bel libro di appro­fon­di­men­to, come ad esempio Filosofando con Harry Potter, di Laura Anna Macor. Il volume è di grande interesse perché capovolge con decisione il ‘pregiudizio’ per cui J.K. Rowling non avrebbe fatto altro, nella sua storia fantasy, che riproporre per l’ennesima volta una variazione sul classico tema dell’eterna lotta tra il bene e il male. Macor riesce infatti a dimostrare che, sebbene tale conflitto giochi senza dubbio un ruolo importante nella saga, il vero nucleo narrativo di quest’ul­tima non consiste tanto nella ‘scontata’ contrapposizione tra i ‘buoni’ e i ‘cattivi’, ma in una battaglia ben più decisiva, che impegna l’uomo fin dalla notte dei tempi: quella con la morte.

In altre parole, secondo la studiosa, se si leggono i libri della Rowling con occhio attento, appare che il centro del discorso da essi condotto è costituito innanzitutto dal fatto che tutti i personaggi, ‘puri di cuore’ o i ‘malvagi’ che siano, sono chiamati a prendere posizione nei confronti della morte. Non bisogna dunque farsi ingannare dal fatto che il contrasto tra personaggi positivi e negativi sia posto in primissimo piano: esso, per quanto decisivo, è in qualche modo un fenomeno ‘di superficie’ che richiede, per essere adeguatamente compreso, di essere letto alla luce di un significato più profondo, che costituisce il ‘sottosuolo’ della saga.

Certo, ricorda la studiosa, per quanto nella storia di Harry Potter ci siano «molti temi secondari, peraltro fortemente attuali, come la discriminazione su base etnico-razziale, l’emancipazione di categorie socialmente sfruttate, la lotta al pregiudizio, […] questo però non toglie che il perno su cui ruota tutta la storia sia, con le parole della stessa Rowling, il ‘tentativo di trovare un senso alla morte’». A ben vedere, quindi, i sette libri di Harry Potter conterrebbero «una gigantesca, avvincente e riuscitissima meditazione sulla morte», che non avrebbe «niente da invidiare al Fedone platonico o ai virtuosismi teoretici di Essere e tempo». Nella storia del mago più famoso di sempre ci sarebbe dunque ben di più di quanto appare a un primo sguardo.

Che la morte sia «il vero interlocutore dei personaggi principali della storia» e il meccanismo che «determina in misura decisiva l’evol­ver­si della vicenda» appare chiaro se si pensa ai due personaggi chiave della saga: Harry Potter e Voldemort. Come tutti sanno, la storia comincia proprio perché Harry si salva ‘miracolosamente’ da un incantesimo mortale scagliato contro di lui da Voldemort, e prosegue descrivendo il modo in cui il giovane mago riesce sempre, durante ogni anno trascorso a Hogwarts e in generale all’interno della comunità magica, a ostacolare i piani del Signore Oscuro, evitando nel contempo di essere ucciso da lui.

Per quanto riguarda poi Voldemort, è indicativo il fatto che il suo vero nemico, in effetti, non sia né Harry Potter, né Silente, né gli Auror, ma proprio la Morte, che costituisce una vera e propria «ossessione» per Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato. È infatti proprio il terrore per il proprio decesso (oltre che il desiderio di ottenere una fama imperitura e un posto di rilievo nella storia della magia) a indurre Voldemort, sin da quando è un giovane studente, a informarsi sulle modalità di creazione e di funzionamento degli ‘Horcrux’, dei particolari manufatti magici, creabili solo mediante omicidio, che consentono a frammenti della propria anima di sopravvivere anche se il proprio corpo viene distrutto.

Secondo Laura Anna Macor, ciò che i ‘cattivi’ del mondo di Harry Potter e in particolare Voldemort non sembrano capire è che esiste qualcosa di peggiore della morte: la perdita della propria umanità o della propria ‘anima’. Peggio della morte, per i ‘buoni’, è ad esempio tradire i propri amici o essere responsabili della loro morte (come Peter Minus), o commettere turpi azioni per restare in vita a ogni costo (come fa Voldemort); ma peggio della morte è anche «la condizione di chi sia stato spogliato dalla sua anima dal Bacio dei Dissennatori» (come accade a Barty Crouch Junior), o «la sorte di Frank e Alice Paciock», i genitori di Neville, «torturati fino alla pazzia da un gruppo di Mangiamorte».

Se dunque i membri dell’Ordine della Fenice sono convinti che vi sia «un ordine di ragioni superiore al mero impulso alla sopravvivenza, alla richiesta biologica di salvaguardia personale», e che pertanto non sia negabile «la priorità di dignità e giustizia rispetto al mantenimento dell’esi­sten­za a tutti i costi», i Maghi Oscuri sono invece persuasi che «la morte [sia] il peggiore dei mali, di fronte al quale qualsiasi alternativa diventa legittima». Lo scontro tra queste due visioni del mondo è riassunta nello scontro tra Voldemort e Silente che ha luogo nel Ministero della Magia:

“Niente è peggio della morte, Silente!”, ringhiò Voldemort.
“Ti sbagli”, replicò Silente. […] “In verità, l’incapacità di capire che esistono cose assai peggiori della morte è sempre stata la tua più grande debolezza”.

Ciò che Voldemort non vede è che la morte, propria o altrui, per quanto sia innegabilmente un fatto drammatico e tragico, può essere ‘accettata’, e persino essere foriera di eventi ‘positivi’ di maturazione e cambiamento. Il trauma derivante dalla visione della morte altrui può ad esempio essere un viatico per una «conversione integrale» della persona e per un «riassestamento dei suoi punti cardinali»; si pensi ad esempio a Piton, che, dopo la morte dell’amata Lily, deciderà di tradire Voldemort e passare dalla parte dell’Ordine della Fenice. Ma si pensi anche al fatto che morire può essere anche un modo per proteggere chi amiamo: sarà proprio il sacrificio di Lily Evans, la madre di Harry, a formare uno scudo magico intorno al figlio neonato e a permettergli di sopravvivere alla più potente delle Maledizioni senza perdono e quindi, a lungo termine, a consentirgli di sconfiggere Voldemort. Lily accetta la morte per permettere al proprio figlio di vivere e quindi per far sì che il Male abbia termine.

Se si vedono le cose da questo punto di vista, si può capire che «il vero padrone della Morte […] non cerca di sfuggirle. Accetta di dover morire e comprende che vi sono cose assai peggiori nel mondo dei vivi che morire». Ciò che la saga ci insegna è che solo mediante la «coraggiosa accettazione e [il] riconoscimento del limite dell’umano, la cui mortalità non necessariamente implica un difetto», potremo congedarci da questa vita andando incontro alla morte a testa alta, «da pari a pari», salutandola al suo arrivo «come [se fosse] una vecchia amica». «In fin dei conti», dice Silente, «per una mente ben organizzata, la morte non è che una nuova, grande avventura».

 

Gianluca Venturini

 

BIBLIOGRAFIA
L.A. Macor, Filosofando con Harry Potter. Corpo a corpo con la morte, Mimesis, Milano-Udine 2011.

[Immagine tratta dal film Harry Potter e i doni della morte – pt. II]

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Spirito apollineo e dionisiaco nel processo penale: l’estetica del giudizio criminale

Il processo penale contemporaneo, per il vero come anche quello antico, medioevale e moderno, suscita interesse, pulsioni sociali, contesa emotiva; tende all’odio verso il colpevole e compassione verso la vittima. Basta pensare ai casi di cronaca più recenti per rendersi conto di quanta enfasi popolare accompagni la storia dei processi. Ne cito solamente alcuni: la strage di Erba, gli omicidi di Garlasco, Perugia e, da ultimo, il processo a Massimo Bossetti. Questo tuttavia accade anche per vicende giudiziarie meno cruente e sanguinose, ma ugualmente “sentite” dall’opinione pubblica, come i procedimenti contro l’ex premier Berlusconi, “mafia-capitale” o gli scandali per i conti esteri di questo o quel personaggio pubblico.

La tensione che si crea tra l’aula di giustizia e la società è palpabile e sostenere, come talvolta ha fatto la Corte di Cassazione, che tutto questo non possa incidere sul giudizio tecnico è un’illusione. Lo è per due motivi fondamentali: l’uno perché l’essere umano non è una macchina, il secondo perché è il diritto stesso che attribuisce al giudicante una funzione sociale attraverso lo scopo general-preventivo della pena che consiste nella portata educativa della pena stessa, non solamente nei confronti del reo, ma di tutta la società. Già l’antropologo e sociologo Émile Durkheim aveva categorizzato quest’esigenza laddove affermava che il delitto causa una frattura nel tessuto sociale che viene rimarginata proprio attraverso la sanzione penale e dunque il processo. La collettività ha bisogno del colpevole per emendarsi dal delitto e per essere sicura di poter vivere in pace, senza pericolo.

Persino l’avvocato cavalca questo istinto allorquando, sostenendo l’innocenza del proprio assistito, crea pressione emotiva sostenendo che “il colpevole è ancora in libertà”. Il caso di Bossetti è paradigmatico in questo senso: il rapimento e l’omicidio della giovane Yara ha sconquassato la quiete della ristretta e civilissima comunità della provincia bergamasca ed il bisogno di sapere “chi è stato” è un’esigenza di vita quotidiana. Nel caso oramai quasi dimenticato dell’omicidio di Milena Sutter (Genova, anni Settanta) accadde qualcosa di molto simile: una bellissima ragazzina fu “prelevata” all’uscita dalla scuola, tenuta non si sa dove per alcuni giorni e poi gettata in mare. A Genova la “terra di nessuno”, dove far ritrovare un corpo esanime, è il mare; a Bergamo un campo incolto. A quel tempo i genitori avevano paura a mandare i propri figli a scuola, oggi accade lo stesso. E’ il “pericolo dell’accettare le caramelle dagli sconosciuti”.

Il processo, chiamato a giudicare di vicende così emotivamente devastanti, è, al contrario, un laboratorio scientifico di regole, di eccezioni, di cavilli che non sono perversioni da Azzeccagarbugli ma garanzie contro gli abusi, regole che garantiscono la logicità delle decisioni, strumenti per evitare che i protagonisti del processo operino da vittime dell’impulso e dell’emozione invece che da algidi tecnici. La toga rappresenta, metaforicamente, proprio questo: la necessità di far trionfare il diritto, cioè dire la scienza giuridica. L’errore cognitivo che “stacca” il ragionamento giuridico, per offrirsi all’impulso della sola general-prevenzione e quindi la necessità di ristabilire l’ordine e soddisfare la collettività con la sua “sete di giustizia” è manifestazione della “pop justice” e dunque del prodotto giudiziario “per la collettività”, come le opere pop, rispetto a quelle della tradizione, sono nate per essere trasfuse nei manifesti e nei posters, alla portata di tutti e per tutti. Il diritto tenta di cautelarsi contro questo rischio attraverso la “rimessione del processo” che impone lo spostamento del luogo dell’udienza quando le condizioni ambientali non consentono un giudizio sereno. E’ del tutto evidente la difficoltà di capire quando il processo travalichi così tanto nel “pop” da incidere sulla terzietà del giudice.

Ancora una riflessione sul caso Bossetti: quanti possono comprendere l’anomalia di quella prova del DNA ritrovata sull’indumento intimo di Yara e quanto, proprio quella dislocazione della traccia sul suo indumento, diviene una rappresentazione estetica capace di portare ad errori di prospettiva rispetto al migliore giudizio (va ricordato che altre tracce genetiche di soggetti non identificati sono state trovate altrove ma ad esse non è stata data importanza). Com’è possibile che il Tribunale di Brescia abbia, durante l’indagine, dichiarato che è necessario fare chiarezza su quella prova e la Corte di Assise di Bergamo abbia potuto bypassare questa indicazione ritenendo quell’indizio “preciso”, oltre che “grave” e quindi pienamente capace di provare la colpevolezza di Bossetti? I giudici di Brescia si sono espressi in base ad una valutazione tecnica, che esigeva persino meno approfondito (perché la fase processuale era diversa) rispetto a quella del primo grado; eppure hanno stigmatizzato quella prova, dando le indicazioni, in diritto, di come rimediare al dubbio. Senza il rimedio suggerito quel dubbio resta come un macigno sul futuro del processo. In linguaggio giuridico il dubbio sulla prova si chiama “ragionevole dubbio” e porta all’assoluzione.

Io credo che il processo, anche quello contro Bossetti, viva e sia vissuto con questa doppia natura: una tecnica, complessa e scientifica, l’altra emotiva, passionale, general-preventiva e sociale. Tutta la vita vive di questa dicotomia, dunque anche il diritto. Lo ha spiegato al mondo il grande filosofo Nietzsche nella sua opera La nascita della tragedia, laddove ha raccontato dell’eterna lotta tra lo “spirito apollineo” e lo “spirito dionisiaco”: il primo rappresenta la perfezione delle forme, l’armonia, la logica, ed il secondo la passione, l’emotività, l’irrazionale. Il processo è come l’arte, deve trovare l’equilibrio tra il diritto apollineo e la società dionisiaca, tra il giudice apollineo e il coro (la pubblica opinione) dionisiaca. La vicenda di Bossetti è anche questo e forse, proprio per questo, appassiona la gente (il coro della tragedia greca).

Luca D’Auria

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“Fatti (non) foste a viver come bruti”

Il titolo è deliberatamente preso in prestito dalla Divina Commedia, canto ventiseiesimo, località Inferno.
Non è mia intenzione analizzare Dante, né sviscerare ulteriori chiavi di lettura dalle sue opere, mi è semplicemente balzata agli occhi quella frase pronunciata da Ulisse per esortare i compagni, rientrati in patria dopo le mille peripezie degne di un’Odissea, a intraprendere l’ultima impresa: attraversare le Colonne d’Ercole e violare così i confini del mondo.

«O frati, che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza»¹.

Leggere e rileggere quella frase, estrapolata totalmente dal suo contesto e dalle dinamiche narrative, mi ha convinto dell’esatto contrario.
Noi siamo nati come “bruti”, e dobbiamo prenderci la responsabilità di ammetterlo.

Viviamo in un mondo dove sempre più spesso cerchiamo di scindere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è bene e ciò che è male, cosa si può e cosa non si può fare/dire/vedere.
Ci allontaniamo dall’oscurità per abbracciare la luce che avvolge le cose immacolate, senza renderci conto della cecità che il fulgore provoca, senza capire che la penombra non è sinonimo di ambiguità ma strumento per vedere meglio le cose.

“Bruto” vuol dire privo di ragione, violento… e noi di natura spesso lo siamo, non solo fisicamente, ma anche verbalmente e, negli ultimi anni, virtualmente.
Il web è il ricettacolo di commenti cattivi, ma sono lo specchio di ciò che, almeno a parole, vorremmo fare: “Se ci fossi stato io”, “Se ci fosse stato lui”, “Io avrei fatto così”; o vorremmo essere: “Se io fossi il capo del mondo”, “Se fosse successo a me”.
Queste frasi-matrice, state pur certi, undici volte su dieci si completano con una sorta di piccola apocalisse, o una vendetta stile Rambo.

Inizialmente davo colpa alla sola ottusità, ma scavando più a fondo mi sono reso conto che tutto ciò avviene per scarsa conoscenza della violenza stessa.
Pensiamo, crediamo, vogliamo, facciamo finta di essere violenti perché non sappiamo cosa voglia dire violenza, non perché non esista, ma perché è argomento tabù.

Negli ultimi vent’anni abbiamo passato il tempo a prevenire, a proteggere, ad evitare, abbiamo insomma contribuito piano piano a costruire, attorno al nostro piccolo mondo di benessere, una sorta di muro ovattato che ci impedisce di vivere la realtà così com’è.

Tutto molto bello, tutto molto pericoloso.

Succede infatti, che ad un certo punto, qualcuno o qualcosa, quel muro d’ovatta riesce a sfondarlo: ultimamente ci sono riusciti gli attentati terroristici.
Il terrorismo è sempre esistito, l’Italia ne sa qualcosa: la quantità di piombo sparso sulle strade ha dato il nome a un decennio, eppure è solo oggi che raggiungiamo punte di panico incontrollato per il primo bagaglio non custodito lasciato in un luogo pubblico.
E’ solo oggi che leggiamo, complice un giornalismo sensazionalistico irrispettoso, di finte bombe disinnescate dagli artificieri solo per sentirci più sicuri.

Non sto suggerendo di rimanere indifferenti davanti al male, sarebbe comunque un mattone ovattato in più, ma di riscoprirne l’esistenza, e risulta estremamente necessario, vi spiego il perché.

Il parallelismo è azzardato, ma avete presente come funziona lo schema di una fiaba?
C’è un protagonista “buono” e un antagonista “cattivo”; il buono verrà messo alla prova dalla vita stessa che lo farà precipitare in una condizione difficile, ma solo così potrà forgiare il suo spirito per poter sconfiggere il cattivo.
Oggi è come se avessimo esiliato nel dimenticatoio i cattivi – perché diseducativi, portatori di disagio al bambino ecc. – per rendere felici i protagonisti di una storia che si concluderebbe a pagina 2, senza aver lasciato nulla di consistente al lettore.

Abituarsi alla nostra natura di “bruti” infine non ci condanna ad esserlo per sempre, non ci autorizza a compiere danno contro altre persone, può servirci a conoscere meglio ciò che siamo, a capire quali sono i nostri limiti per poterli superare.
Può aiutarci a decidere cosa vogliamo o non vogliamo diventare.
Solo in questo modo, secondo il mio punto di vista, possiamo maturare.

Alessandro Basso

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NOTE:
1. Divina Commedia, Inferno, Canto XXVI, vv.112-120

Religione, etica e metafisica in Star Wars

I grandi che hanno visto da piccoli la prima trilogia, tornano ad appassionarsene, mentre i più piccoli iniziano con trepidazione a immergersi per la prima volta in questo fantastico universo immaginario. Certo, perché si tratta un’ ottima saga, una delle più famose della storia del cinema, con una storia avvincente ed una trama intrigante; è certamente un’ ottimo prodotto culturale, ma non solo: Star Wars è anche la riproposizione futuristica dell’onnipresente scontro tra il bene ed il male, e sicuramente è per questo che ha avuto un così grande successo: oltre che alle magistrali prestazioni dei grandi attori della serie (quali Harrison Ford, Liam Neeson, Christopher Lee, Evan McGregor, Alec Guinnes, Natalie Portman), e la sfrenata fantasia di George Lucas, ciò che tanto ci appassiona della serie è la mostra favolistica e affascinante di ciò che più da vicino ci riguarda: la irriducibile tensione tra il bene ed il male, vecchia come la vita stessa.

Nell’ universo di Guerre Stellari questi concetti (“bene” e “male”) sono espressi nella Forza, il potere salvifico che conferisce forza e saggezza ai cavalieri jedi , e nel suo lato negativo, chiamato appunto Lato Oscuro della Forza, da cui deriva il malvagio e degenerato, ma immenso, potere dei sith, i nemici naturali dei jedi.

Già questa piccola introduzione alle basi concettuali della storia è ricchissima di possibili collegamenti con la filosofia. Bisogna notare che il Lato Oscuro non sussiste di per sé stesso, come una forza altra, generata da una diversa sorgente, dalla Forza che assiste i Jedi, pur mantenendo con questa il più  acerrimo antagonismo. Queste sono piuttosto da interpretare come la medesima forza (e infatti i poteri di jedi e sith sono perlopiù gli stessi). Non si tratta di un conflitto tra due istanza separate nello stile dello Zoroastrismo, ad esempio, o dello gnosticismo e del manicheismo. Qui il male si staglia solo come degenerazione del bene, non è una forza propria, non ha una propria sussistenza indipendente, e si configura sempre in antitesi al bene che pure gli è necessario per istanziarsi. Il bene ha senso di per sé  stesso, il male no. Qua si rende chiaro che il Bene, il Bene come tale, ha una supremazia inattaccabile e costituisce una destinazione salvifica certa per la vita tutta. Questa è una delle risposte più belle della filosofia, che già avevano individuato grandi filosofi come Plotino ed Agostino. A riprova della validità di questa chiave interpretativa, basterà rilevare che il male , nella serie, porta esso stesso il nome della Forza: è chiamato infatti Lato Oscuro della Forza; non accade invece il contrario. Il male ha senso solo sullo sfondo del bene e non viceversa: il Bene ha un potere quindi infinito e trascendente il male.

Ma cerchiamo di indagare più a fondo questa misteriosa Forza. Non è certo facile, visto il misticismo che caratterizza il rapporto tra di questa ed i jedi , i quali ne parlano quasi solo per massime e aforismi; potremmo dire che la Forza è una qualche forma di tessuto cosmico, sospesa, come in bilico tra il fisico ed il metafisico: dal lato puramente fisico-scientifico, sappiamo grazie alle parole del maestro jedi Qui-Gon Jinn ne “La minaccia fantasma”, che la Forza “parla” ai jedi attraverso delle non meglio precisate cellule chiamate Midi-chlorian, organismi simbiotici che pervadono il sangue dei jedi e mediano una strana forma di comunicazione tra di loro e la Forza. Anakin Skywalker fu scelto dal maestro proprio per la sua elevatissima concentrazione sanguigna di Midi-chlorian. Dal lato mistico-metafisico invece, la Forza manifesta un carattere onnisciente, è infatti capace di prevedere ogni fenomeno e conosce qualsiasi cosa, ed è la fonte della grande saggezza dei jedi; inoltre, suggerisce loro l’avvenire futuro od immediato di pericoli e tensioni; quando Anakin perde la madre ne L’attacco dei cloni Yoda percepisce il suo dolore nonostante si trovi addirittura in un altro pianeta. Infine, la Forza permette di interagire col mondo fenomenico in modo sovrumano: infatti jedi e sith sono in grado di far levitare gli oggetti, compreso il loro stesso corpo. Per gestire queste qualità sovrumane i jedi si allenano fin da piccoli nel controllo del corpo e della mente.

Non è facile proporre una qualsiasi ipotetica interpretazione filosofica di questo rapporto che lega uomini (e alieni, ovviamente) alla Forza. Essa li libra al di là dei fenomeni, è oltre lo spazio ed il tempo, eppure si occupa di “parlare” agli jedi che soli sanno ascoltarla; “Ci circonda, ci penetra, e tiene unita tutta la galassia” diceva Obi Wan a Luke nel quarto episodio. È una sorta di connessione, un intreccio, una compenetrazione appunto, tra un’intelligenza cosmica onnipresente e gli esseri finiti. La Forza, somiglierebbe, in virtù di questi suoi specifici caratteri, e del suo rapporto benevolo col mondo fenomenico, simile al Dio dei cristiani. Infatti anche Esso è onnisciente e, pur avendo la perfezione completa e non necessitando di nulla, intrattiene rapporti coi mortali; anzi, la Bibbia è piena di casi in cui questo Dio, specie di ponte tra l’Essere e gli esseri, “parla” agli uomini, in modo assai simile alla Forza che ‘parla’ agli jedi. In effetti non mancano nella saga vari indizi che fanno sembrare quella degli jedi una vera e propria religione. Nel quarto episodio della saga uno degli alti ufficiali dell’Impero si riferisce ad un’ “antica religione” jedi prima di essere soffocato da Darth Vader attraverso la Forza.

È proprio questa figura oscura, quella di Darth Vader, ad aver caratterizzato maggiormente tutta la saga; la sua è una storia tristissima, quasi in linea con la tragedia greca piuttosto che con il cinema futuristico: Vader, prima conosciuto come Anakin Skywalker, è dapprima il più promettente tra gli allievi padawan dei jedi. Dopo una giovinezza di confusione e tribolazione sentimentale, passerà al Lato Oscuro e arriverà ad uccidere il suo stesso maestro, Obi Wan Kenobi, nel quarto film della serie (il primo della prima trilogia). La figura di Anakin è ricchissima di spunti di riflessione filosofica sui temi della moralità e dell’etica: il giovane jedi, passionale e fortemente innamorato della moglie Padmé, inizia nel terzo episodio ad avere visioni della morte della sua sposa. Tradisce i jedi, diventando allievo del signore oscuro dei Sith, che gli promette un potere tale da impedirne l’imminente morte. Anakin non controlla l’enorme potere della sua passione amorosa che lo porta a massacrare i jedi su ordine del suo nuovo maestro;  così si compie la sua trasformazione da eroe del bene a campione del male, da cavaliere jedi, a signore di sith. Tutto questo rovinerà la sua vita come quella di sua moglie, che morirà nonostante il suo nuovo potere; la morale di questa storia ha chiaramente a che fare con la lezione etico-morale di Aristotele. Il ragazzo non controlla la sua passione, non la guida con la ragione, ma si lascia trasportare da essa fino alla totale malvagità. Non realizza il sinolo aristotelico di ragione e passione, che si chiama virtù.  Proprio lo stesso Anakin, discutendo dei sith con il cancelliere della Repubblica, diceva, nel terzo episodio, che essi traggono potere dalle passioni, e si abbandonano all’egoismo; i jedi invece, continuava, usano il potere solo per il bene, senza farsi accecare dalle brama, e agiscono sempre con altruismo. Il rimando di tutto ciò alla filosofia morale è evidente. Chi non controlla le sue passioni, anche quelle positive come l’amore, sconfinerà nel male; ciò purtroppo non accade raramente.

Ma questo è solo uno dei molti temi filosofici, di eccezionale rilevanza e portata, che ho intravisto in questa magnifica storia. Sicuramente è una delle saghe più memorabili e belle, in grado di appassionare sia grandi che piccoli, recando loro un importante messaggio.

Alessio Maguolo

[immagine tratta da Google Immagini]

X Agosto

<p>X Agosto - Rivisitazione moderna di Pascoli</p>

Aperta e priva del risentimento emotivo scaturito dalla gelosia, questa rivisitazione del X Agosto di Giovanni Pascoli, trasvaluta la concezione decadente dell’universo, dei suoi mille firmamenti e della Terra. Alla luce della scoperta di nuovi pianeti simili alla Terra, alla ricezione di prove sempre più solide della possibilità dell’uomo di esplorare, in prima persona, l’universo, questo componimento decanta la speranza di un superamento della dicotomia tra bene e male quindi di un nuovo “sentirsi esistere” consapevole dell’esistenza naturale di bene e male sulla Terra come su ogni altro pianeta simile o difforme. Al di là del “perché il male?” e al di là del “perché il bene?”; dell’inquietudine della casualità della vita e della grandezza dell’universo in confronto alla Terra: per amore, l’uomo si getterà alla conquista della sua volta celeste e di volta in volta supererà ogni suo Bene ed ogni suo Male. Questo X Agosto è un componimento moderno e positivo, contrapposto alla negatività ed al pessimismo di Pascoli nei confronti dell’uomo, della natura e della Terra.

X Agosto

Scintillano nel cielo,
vengono ad essenza attraverso i riflessi.
Non accecano e appagano
vista, cuori, speranze;
per i poeti sono muse e tormenti.
Queste sono le mille stelle dei firmamenti.

In ognuno vi è un sole,
e cinto di luce non conosce né bene né male:
dispensa ad ogni cosa scura e profonda
una calura iraconda.
Alle stelle dona un riflesso,
alle lune le proprie veci,
ad ogni pianeta un’alba ed un tramonto.
Tutti i soli sono senza riguardi.

Così tutti i firmamenti hanno tante stelle, tante lune, tanti pianeti,
tanti nuovi giorni che nascono e muoiono;
che luccicano di luce propria e riflessa.

Così tutte le cose scure e tutte le notti s’illuminano di desiderio.

Salvatore Musumarra

Fonte immagine: NASAMoon Over Andromeda Credit & Copyright: Adam Block and Tim Puckett

Il tempo secondo un bohémien

<p>Tempo bohemien</p>

Un bel giorno mi riscoprì decadente. Lo capì d’improvviso. Capì che degli ideali non potevo fidarmi e che di ogni morale, fisiologicamente, dovevo diffidare: tutto scorre nel divenire del tempo, il passato fa l’amore con il presente, dando alla luce il futuro ed il mio gusto sembra essere così inattuale in tutto questo divenire. Questo tempo birbante, insieme di eccessi morali, etici, economici, vuole sempre confutarsi in un gusto: qualunque sia il suo valore egli è sempre saporito. Ma non per me che decado.

Decadendo

Via via che discendevo incontrai l’amore e da questi dovetti allontanarmi, seppure continuò a manifestarsi tra le forme, i colori e le parole dei miei artefatti: continuò a chiamarsi amore seppure indossava le vesti dell’odio. Amore e odio divenivano così tempo.

E delle rime? Mi perseguitano persino qui, su questo surreale testo! Non mi danno tregua tranne nel caso in cui, di questo genio così incostante, non ne faccia un baleno roboante. Si! Tranne nel caso in cui io le lasci librare leggere nel tempo. Questo mio nuovo e leggero tempo scorre e imperversa su ogni bellezza come su ogni sberleffo!
Ma sento giungere al termine questa mia improvvisa ispirazione quindi tenterò di acciuffare proprio questo tempo che scorre e che fugge; un tempo che spesso rema contro corrente.

Viaggio nel tempo

Quest’inseguimento è un gioco e tutti i giochi si fan presto seri: quante volte il gioco divenne lavoro? E quante volte il lavoro si rese gioco? Ma stiamo braccando il tempo e non un controsenso, quindi conviene non pensare più ed incominciare a giocare al di là del bene e del male. Presto il tempo spazzerà via la memoria e così sfuggiranno i pensieri, da lì a poco ogni immaginazione sfumerà i contorni della realtà ed ogni imposizione quelli dei sogni. Righerà, accentuerà, colorerà e sfumerà la vita mia, la tua e quella del nostro prossimo: nessuna pietà e nessun rimorso! Il tempo è senza dubbio libero.

Per quanto ne possiamo sapere, tutto il tempo del mondo non basterà a rendere giustizia ai nostri pensieri e questi, per quanto possano essere profondi, non sembrano mai partorire per tempo: anche dopo una lunga gestazione abbiamo qualche dubbio sulla loro genuinità, vero? È una questione di tempo in tutto e per tutti, anche per chi dice di non averne. Il tempo rende saggi.

Ebbene, il tempo! Mai nessun tiranno fu più ambito e ricercato. Questi è ben più che un ente infinito: è volto in potenza nella vita dell’uomo. Una sorta di finito che può influire sull’infinito. Ditemi, si è mai scritto, dipinto, decantato in prosa ed in scienza qualcosa o qualcuno che non si potesse volgere nella vita – quindi nel tempo – in potenza? Il tempo rende potente.

Al di là del tempo

Quindi che fare? Decadere o eternamente ricadere? Come posso sfruttare questo mio tempo? Tentarlo con una mela succosa o.. non far assolutamente nulla? Qualunque sia la scelta è bene ricordare che per riuscire a proiettare la propria immagine, quella di un ideale o di una morale, di un etica o di una qualunque regola, nel futuro, bisogna tener conto di quanto male si sia disposti a fare; di quante efferatezze si sia disposti a commettere. Tutto ciò che si vuole lanciare al di là del presente, abbisogna di una grande forza, di una grande politica o di un grande male mascherato da ideale!

Ma se dovessi decidere di non far nulla, allora ricorda bene che anche questo nulla che ti accingi a fare convoglierà a formare il tuo tempo e quello degli altri. Inevitabilmente lo influenzerà e niente verrà perso per sempre, perché la vita sa rendere potente la più piccola astensione come la più grande manifestazione.

Salvatore Musumarra

[immagini tratta da Google Immagini]

Bene, facciamoci del male

Solitamente la mente collega e intreccia concetti che sono poi semplici banalità.

Mettere ordine tra i pensieri ricorrenti è uno sforzo continuo e spesso inconsapevole.

I risultati per quanto ci appaiano meravigliosi inizialmente, sono poi delle altre banalità.

Insomma un pacco di apparente inutilità, da scartare o da tenere?

Il punto di partenza è che questo meccanismo non può essere fermato, ed anzi avrà la sua ragione biologica d’esistenza, bisogna poi capire che è un gioco mentale proprio, soggettivo, d’interesse solo per noi che ci ragioniamo su e che di fatto siamo l’unico universo che ci sia dato conoscere. E che ancora tra i vari moti perpetui che invadono il nostro cervello, a quanto pare non può stare fermo, c’è una grossa differenza tra concetti che abbiamo sentito, che sappiamo, da quelli che abbiamo realmente capito.

Tutto questa introduzione per raccontarvi che ogni tanto capita di capire qualcosa, e proprio quel qualcosa mi va di raccontarmi, perché? Per cristallizzarlo in qualcosa di reale, reale perché a contatto con il mondo collettivo:

Stamattina (19/06/2015) tiravo le somme (come capita spesso) sul mio fare artistico: scrivere, pensare ad opere che non realizzerò, pensare a cose da scartare e a cose da migliorare. Le conclusioni: ho avuto grandi periodi di non miglioramento. Perché? Perché non mi sono fatto del male. No non mi taglio.

È il principio naturale del rafforzarsi, della calcificazione delle tibie dei combattenti di Muay thai di Nietzche che mi dice che ciò che non lo uccide lo rende più forte (poi è morto). Come dicevo prima, un conto è sapere le cose un conto è capirle. Fino a sta mattina avevo sempre visto il detto di N. come una scusa morale da falliti o da gente che ha sofferto (certo lo siamo tutti), per darsi un briciolo di coraggio, per tirarsi giù dal letto la mattina e continuare il proprio ciclo vitale utilizzando sogni come stampelle. Prima di pranzo però ho girato la frittata, ed era splendida e l’ho mangiata.

Parlava con le parole di Nanni Moretti: Vabbè, continuiamo così, facciamoci del male. Il senso non è il suo, non è polemico, ma le parole sono giuste. Bene! Facciamoci del male! Calcifichiamo la scrittura… macché prima pers. Plur. Io parlo per me. Come posso fare per farmi del male e migliorare? Ovviamente sapevo già la risposta prima di farvi la domanda, come fanno le maestre delle medie che aspettano gli alunni all’arrivo della loro conoscenza, come se la conoscenza percorresse solo una strada. Comunque la risposta è la seguente, sono permaloso e soffro gli attacchi all’orgoglio, però quando vengo attaccato poi scrivo molto, e meglio. Quindi continuo così, mi faccio del male. L’obiettivo è andare oltre, oltre il proprio quieto vivere, non è la felicità, altrimenti non ci si farebbe del male, è un super stare, un sovrastare la mediocrità, è dedizione e sono cazzi personali soprattutto.

Lo dice anche Carmen che Myazaki se lo chiede, se essere felici sia importante. E in tre rispondiamo: “anche no”. Lo dice ancora Nietzche che se non avesse un’altra missione si preoccuperebbe di andare a letto sereno. E siamo in quattro a cercare qualcos’altro. la stagione di caccia è aperta.

Un prodotto di questa ricerca:

stucco ferite, apro finestre, conosco gente

conosco solo ragazze, per quanto valga la pena conoscere il mondo

conosco solo ragazze, per quanto sorrida spesso

e starei bene da solo, non riesco a stare solo

non mi piacciono\ i passatempi infruttuosi

e quelli propedeutici al lavoro

non mi piace lavorare finchè non lavoro

 

il tempo ci sfugge. basta indugiare

per spenderlo bene. bisogna resistere per dirselo

 

dovrei trattenermi a digiuno

sul tuo campo ingerminato

vedo quei puntini, il tuo morbillo

i lamponi che inghiotto

io che i dolci li snobbo e ti ripeto

non li voglio, ma scivola un rivolo

blu dal lato sinistro del labbro inferiore

quasi non voglio più vivere

con tutta questa vita che preme,

ostento decoro.

 

e non mi sento neanche un po’ in colpa

e fa un po’ bene pensare

che me ne sbatto il piffero

di sbucciarti quando mi viene voglia di frutta

autotrofo abborro la mente con il glucosio dei pensieri pensati

 

stucco ferite, apro finestre, conosco gente

conosco solo ragazze, per quanto valga la pena conoscere il mondo

conosco solo ragazze, per quanto sorrida spesso

e starei bene da solo, non riesco a stare solo

non mi piaccioni i passatempi infruttuosi

e quelli propedeutici al lavoro

non mi piace lavorare finchè non lavoro

 

allegria è reputare facile l’esistenza

in fondo

allegria è un’ottima aspirazione

è accorgersi che non sarebbe brutto

in finale

uscirsene in non isterica allegrezza

cennare all’abbate: che non è male andarsene

non è male come il liquore della scorsa estate

se lo ricorda il liquore che le ho rubato?

se lo ricorda come l’ha apprezzato?

 

Gianluca Cappellazzo

[Immagine tratta da Google Immagini]

Montagne russe

“Mamma, mi racconti cos’è l’amore?”

“Qualcosa che ti fa sentire estremamente felice o terribilmente triste. Qualcosa che prende lo stomaco, il cervello, le mani e le gambe al tempo stesso. Qualcosa che aiuta e scoraggia. Qualcosa che fa vivere e fa morire. Qualcosa che non si racconta, nonostante tutto”.

Inspiegabile cosa si provi. Irriconoscibile quale sia l’amore provato per davvero: ognuno lo sente a modo suo, ognuno di noi lo vive. Oppure, in moltissimi casi, si lascia trasportare al suo interno.

Ho ascoltato, in uno dei miei numerosi viaggi in treno, un dialogo tra una madre e una figlia. Avrà avuto più o meno sette anni: quell’età piena di domande e con la voglia di ascoltare le risposte, quell’età in cui non hai ancora paura né troppa angoscia di scoprire cosa sia l’amore.

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Atlantide: il declino e la corruzione

Nel dialogo Crizia e nella Repubblica Platone richiama spesso la figura mitologica di Atlantide inizialmente simbolo dell’organizzazione razionale dello Stato finirà poi per collassare nei mari a seguito della corruzione dilagante e del malcostume che in essa si è annidato.

L’interrogarsi sul “buon governo” e sulla possibilità della salvezza conseguente all’assunzione di Leggi rivolte al Bene è un elemento proprio della Filosofia Occidentale e presente anche nella tradizione biblica basti pensare all’esempio costituito da Sodoma e Gomorra.

Solitamente di fronte all’incremento della corruzione e alla violazione di Leggi considerate divine o naturali (in alcuni casi i due aspetti sono sinonimi) intervengono cataclismi e fenomeni eccezionali che comportano la distruzione di un sistema ormai in declino. Read more

Pensiero di Marx, mai così attuale

Nel momento storico che stiamo vivendo avvertiamo che si può riconoscere la forza del pensiero di Marx ed il suo essere profondamente attuale. Nella crisi globale che ha devastato tanto la politica mondiale l’economia Marx ci fornisce a tutt’oggi degli strumenti per non disperderci, per comprendere quanto ci sta succedendo, per analizzarlo. Si può condividerne o meno le teorie e le analisi, così come le soluzioni proposte, ma quel che è certo è che, da grande studioso del sociale e da grande economista quale era, ci insegna ancora oggi, e chissà ancora per quanto tempo, che va data centralità alla tematica del lavoro, così come non è possibile prescindere dal processo di valorizzazione capitalistico; basilare, inoltre, risulta tuttora essere la teoria del valore, teoria che è alla base del suo pensiero economico, teoria del valore che da sempre  si è dimostrata essere l’elemento più dibattuto e origine di discussione del pensiero marxiano. Riavvicinarci in questo momento di crisi a Marx ci aiuta quindi a vedere la crisi stessa con un’ottica diversa, a non esserne sopraffatti, andando al di là della contingenza pressante nella quale viviamo per enucleare la radice autentica del problema contemporaneo.

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