L’impossibile scelta tra pace e giustizia

Non è mai stato facile essere pacifisti, né è mai stato immediato capire cosa fosse giusto fare, dire, pensare nel momento in cui grandi avvenimenti storici arrivano a sconvolgere una quotidianità che tenta ingenuamente di considerare la propria relativa tranquillità come eterna.

Lo sapeva bene Lev Tolstoj, che fu addirittura scomunicato dalla Chiesa russa ortodossa in merito alle sue posizioni fieramente pacifiste. Non solo nei suoi romanzi, ma anche e soprattutto in altri scritti meno conosciuti, in Contro la guerra russo-giapponese, nella lettera allo zar del 1881 e in quelle al filosofo Hugo Engelhardt (1882-1883), nei saggi della maturità La mia fede e Il regno di Dio è in voi, Tolstoj insiste fermamente sulla necessità di non agire mai attraverso la violenza, attraverso le armi, attraverso la forza, fosse anche per difendersi. Il mondo nuovo, dice, potrà nascere solo da un rifiuto radicale di ogni forma di conflitto, che avrà modo di “contagiare” l’umanità come fosse un’epidemia.

Di idee radicalmente opposte era il filosofo, contemporaneo e compatriota eppure estremamente distante, Ivan Il’in. Monarchico e hegeliano, Il’in fu un fervente sostenitore dello zar, e fu costretto alla fuga quando Lenin e l’Armata Rossa presero il potere durante la Rivoluzione di Ottobre. In numerosi articoli e interventi – e soprattutto in una delle sue opere più famose, Resistenza al male con la forza (1952)  Il’in deride i fiacchi e inconcludenti appelli per la democrazia del mondo europeo verso l’Unione Sovietica e insiste che, al momento in cui il male si presenta, è dovere morale reagire a esso con la forza, col conflitto armato, con la violenza. Cercare la pace, in questo caso, sarebbe un atto di complicità col male che andrebbe invece sradicato.

Non è un caso che i due autori presi in causa siano entrambi russi. Impossibile non tentare in qualche modo di riportarne le riflessioni a un’attualità che, ormai da più di un anno, bussa prepotentemente alle nostre porte, condizionando la nostra (ora lo sappiamo) fragile quotidianità di lavoro, famiglia, svago, in modi che non avremmo ritenuto possibili fino a poco fa.

Ma chi ha ragione? Tolstoj o Il’in? Cosa fare, dire o pensare per ritenersi “dalla parte giusta”? In un dibattito pubblico che si arrocca sempre più e sempre peggio in tifoserie da stadio, in cui ogni barlume di pensiero critico e sistema complesso è scartato come inutile sovrappiù, dove schierarsi per essere a posto con la propria coscienza? Questa guerra nel cuore dell’Europa somiglia da vicino ai test che gli studenti universitari discutono nelle ore di Filosofia Morale. Il più famoso è senza dubbio il “dilemma del carro ferroviario” di Philippa Ruth Foot, che invita l’ascoltatore a scegliere se lasciare che un treno lanciato a tutta velocità travolga cinque persone sui binari, o deviarne la corsa scegliendo di ucciderne una sul binario a fianco. Non agire e lasciare che cinque persone muoiano, o intervenire attivamente ed essere responsabili materiali e morali della morte di un innocente?

La questione è la stessa in politica estera, lo stesso aut aut che lascia poche alternative. O continuiamo a inviare armamenti sempre più sofisticati, contribuendo attivamente al prolungamento di una guerra che sta mietendo migliaia di vittime, o ci facciamo da parte, rifiutandoci di intervenire in nome della pace, lasciando così che la fiera popolazione ucraina sia travolta e fagocitata dal regime russo.
Non c’è un’alternativa che sia eticamente soddisfacente, non c’è una ricetta o una “mossa” che garantisca la propria appartenenza alle schiere dei giusti in contrapposizione a una massa di “cattivi” da poter additare a cuor leggero sui social. C’è il destino di due paesi in gioco, dell’intero pianeta se l’escalation continua, milioni e milioni di vite uniche e non rimpiazzabili sulle quali non è possibile fare secondi tentativi.

In una simile situazione, è la coscienza di ognuno che decide quale sia il “bene superiore” da perseguire, che sia il pacifismo di Tolstoj o l’interventismo di Il’in. Basta ricordarsi che il Bene, quello vero, è già da un pezzo fuori dalla rosa di scelta.

 

Giacomo Mininni

 

[Photo credit Christian Wiediger via Unsplash]

 

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Dal relativismo culturale all’idea di bene

Quando i nostri comportamenti rientrano nei canoni di ciò che è culturalmente condiviso, la maggior parte della persone si sente tranquilla. È come se fosse stato rispettato un codice indiscutibile e inviolabile, volto a renderci persone migliori. Si tratta di leggi non scritte, ma tramandate nel tempo e rese salde dall’esperienza di chi ci ha preceduto. La cultura del luogo dove siamo nati, quei valori etici condivisi, sono un materasso morbido e avvolgente che ci accoglie, ci rassicura nel buio e attutisce i colpi quando, stanchi della faticosa convivenza con altre persone, ci stendiamo sopra. Eppure, proprio come un materasso, questo bagaglio di valori e regole che abbiamo ricevuto, per quanto confortevole e sicuro, tende ad assopirci. Dopo che il Zarathustra di F. Nietzsche ebbe ascoltato il discorso di un saggio, che era grandemente onorato e ricompensato per i suoi discorsi sul sonno e sulla virtù, disse:

«Adesso capisco chiaramente che cosa un tempo si cercava innanzitutto, quando si andava in cerca di maestri della virtù. Un buon sonno si cercava e, a questo fine, virtù oppiacee» (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, 1976).

Il pericolo a cui allude il filosofo è proprio quello di fossilizzare la nostra vita su schemi vecchi e stereotipati, di ritenere giusti e virtuosi a priori alcuni comportamenti, senza considerare la situazione reale in cui essi avvengono. Ciò che ieri appariva giusto, oggi potrebbe non esserlo più perché la vita è in continuo cambiamento, la vita è viva, noi siamo vivi. «Guardali questi buoni e giusti!», continua Nietzsche, «Chi odiano essi massimamente? Colui che spezza le loro tavole dei valori, il distruttore, il delinquente – ma questi è il creatore. Compagni per il suo viaggio cerca il creatore e non cadaveri, e neppure greggi o fedeli. Compagni nella creazione cerca il creatore, che scrivano nuovi valori, su tavole nuove» (ibidem).

Un incontro inatteso, una periodo difficile, un viaggio, una discussione ci inducono a considerare prospettive differenti, distogliendoci così da ciò in cui avevamo sempre creduto. Improvvisamente si palesa davanti a noi uno scenario nuovo, mai preso in considerazione. Non si tratta di rinnegare la propria cultura, ma di guardarla per la prima volta con occhio critico, riconoscendone i pregi, ma rivelandone anche i difetti. Ci sono persone che si ritengono giuste e rette perché perpetuano per tutta la vita azioni e comportamenti ereditati, senza fermarsi a riflettere sul peso che essi hanno ora e sugli effetti che producono in questo preciso momento storico.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     

Quello che ci viene chiesto è un salto di qualità. Ci viene chiesto di alzare un piede e appoggiarlo sul primo gradino di una nuova scala di valori, spesso in salita che potrebbe condurci alla ricerca di ciò che è realmente e universalmente Bene. Il disvelarsi del Bene è un processo attivo, esso non si esaurisce in una lista di comportamenti e soprattutto non si riceve in eredità. All’idea del Bene si tende costantemente, è una strada da percorrere lungo tutta la vita e la persona virtuosa è proprio quella che si incammina.

Platone ci mette in guardia rispetto alla nostra cecità nei confronti del Bene. Secondo il filosofo greco, il Bene è l’idea somma, è come il Sole, è il valore più alto cui ogni essere umano possa tendere e prescinde da qualsiasi cultura e da qualsiasi luogo. È universale. Le nostre anime, egli dice, hanno visto il Bene prima di incarnarsi in un corpo. Il dovere morale allora, è proprio quello di ri-conoscerlo, e lo possiamo fare solo se usciamo dalla caverna, dall’oscurità. L’uomo virtuoso è colui che ricerca, continua il filosofo, che fa della sua vita un faticoso cammino razionale verso l’idea del Bene e, una volta ri-conosciuto, lo incarna giorno dopo giorno nella propria vita (cfr. La Repubblica, libro VII, Milano 1981).

Io sono altresì convinta che ognuno di noi possa attingere al Bene, non solo attraverso la razionalità, ma attivando facoltà che spesso vengono messe in secondo piano. Se ci si dispone all’ascolto di se stessi, dell’altro e della vita, ad esempio, il Bene lo si può intuire e quindi impegnarsi a realizzarlo. Ciò che è bene, inoltre, può essere avvertito in modo empatico nelle emozioni forti che alcuni comportamenti suscitano. Un gesto d’amore, una vicinanza, un aiuto inatteso possono rivelarci il Bene più di molti ragionamenti. Quello che conta è essere disposti a riconoscerlo e permettere che esso ci modifichi.

Erica Pradal

[Photo credit Volkan Olmez via Unsplash]

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La bellezza educherà il mondo

Affermava Dostoevskij che «è la bellezza che salverà il mondo», non il maquillage. Eppure la cultura odierna sostiene il contrario: la cosmesi e i suoi trucchi salveranno il mondo con le mirabili opportunità offerte dalla chimica e dalla tecnica, dall’intelligenza artificiale e dalla chirurgia, dal wellness e dal body care. No problem. C’è una soluzione a tutto. Ma a quale prezzo?
Essere concentrati su vite da copertina, selfie e like, impone l’adozione di modelli convenzionali, codificati e replicabili. La cosmesi costruisce il mondo nel quale viviamo e ne definisce valori, ruoli e appartenenze. È l’inganno dell’effimero, prodigo di giudizi e insoddisfazioni. Crescere e vivere con l’ossessione dell’apparenza, non sentendosi mai adeguati e soddisfatti di sé è però estremamente dannoso e può determinare vissuti di insicurezza e di scarsa autostima.

La bellezza, invece, porta con sé e invoca il riconoscimento dell’alterità, dell’ulteriorità, dell’indicibile e del mistero. Afferma Bruno Forte:

«La bellezza scova, non cattura, suscita, non arresta, invoca, non presume» (B. Forte, La via della Bellezza, 2007).

Hans Urs Von Balthasar parla perfino di una «bellezza disinteressata» (H.U. Von Balthasar, Gloria, 1. La percezione della forma, 1975) – disinteressata al calcolo, agli apprezzamenti, che non si allinea alle mode – lontana dal mondo dei profitti, dalla sua cupidigia e tristezza. Sì, la bellezza disinteressata alle logiche del mondo salverà il mondo, e lo farà con piccole ma rivoluzionarie azioni di speranza e di costruzione di futuro, educando e offrendo la possibilità di sguardi nuovi sulle cose, sulla storia, sul mondo, soprattutto per i giovani. E lo farà stupendo, provocando o disorientando, indignando o facendo sognare.

Il discorso sulla bellezza pronunciato da Peppino Impastato, ucciso dalla mafia a Cinisi il 9 maggio del 1978, nel film I cento passi, esprime appieno questo concetto, anche nella sua dimensione etica e nelle positive ricadute sociali e politiche: «Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore».

La bellezza sembra allora evocare una sintesi inscindibile di vero, bene e bello. In un mondo senza bellezza perdono la loro forza di attrazione anche il vero e il bene, la capacità generativa di gioia e di storie.
Il mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non rassegnarsi alla disperazione e alla prosaicità, per resistere al logorio del tempo, per dare senso e valore ai giorni che riceviamo dalle generazioni precedenti, che viviamo nel presente e che doniamo alle generazioni future.

Nella storia dell’umanità sono stati diversi i nomi dati alla bellezza: l’ebraico tov che dice inseparabilmente bontà e bellezza; il greco kalós, il bello che attira a sé, amabile, che viene incontro; il latino pulcher, con il quale si indica un soggetto concreto: la bellezza è qualcuno, ma è anche fragile e finita. Sempre dal latino deriviamo un quarto nome della bellezza, formosus: bello è ciò che ha forma, dove la proporzione fra le parti rispecchia l’armonia. Con formosus definiamo la bellezza come ordine, armonia, pace. Dal germanico shön deduciamo l’idea di bellezza come irradiazione di luce, luminosità, splendore; dal termine bello l’immagine di una bellezza che si contrae nella debolezza (bello deriva, infatti, da bonicellum, ovvero “piccolo bene”); infine sublime, che induce alla visione di una bellezza elevata. Secondo Bruno Forte c’è un ulteriore nome della bellezza: «la bellezza oltre ogni bellezza, il silenzio di Dio oltre le tante parole degli uomini che cercano di dire l’indicibile» (B. Forte, La via della Bellezza, 2007). La bellezza è sempre oltre.

E nel silenzio di Dio troviamo anche il silenzio di uomini e donne che quotidianamente, come buoni artigiani nelle loro botteghe, si fanno costruttori di bellezza, non di maquillage. È la bellezza che vive e si realizza nel cuore, nelle menti e nelle mani di ogni persona giusta e di buona volontà che forse non realizzerà mai un’opera d’arte nella sua vita, ma avrà fatto della sua vita un’opera d’arte.

 

Massimo Cappellano

 

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la chiave di sophia 2022

“Due razze di uomini”: complessità oltre il pregiudizio

Il nostro tempo si caratterizza per una crescente complessità che negli ultimi anni è stata amplificata dal trauma pandemico e dalla ingiustificata violenza che la guerra alle porte dell’Europa sta portando con sé.

Un’epoca difficile da decifrare proprio per la sua complessità che si sottrae ad ogni tentativo di riduzionismo analitico e ancor di più ad ogni incerto sforzo di semplificazione. In un simile contesto è ricorrente imbattersi in confronti, dialoghi e discussioni che hanno la pretesa di ridurre i fenomeni umani a categorie preconfezionate che in maniera manichea intendono distinguere arbitrariamente, non solo il bene dal male, ma anche e soprattutto di indicare chi sta dalla parte dell’uno o dell’altro a seconda che appartenga a un gruppo sociale, a una nazione, a un continente, a una razza, a una religione, a un genere. La conseguenza di un tale semplicistico modo di pensare – nel gomitolo aggrovigliato di questo tempo che muta a una velocità insostenibile per le risorse cognitive dell’essere umano –, è quella di cadere in pensieri e atteggiamenti discriminanti, non inclusivi e che tendono a giudicare le azioni umane come buone o cattive a partire semplicemente dal gruppo di appartenenza. Nefaste sono le implicazioni di questo modo pregiudiziale di approcciarsi alla realtà: razzismo, discriminazioni, esclusione sociale, diffidenza, paura, cultura dello scarto, guerre. Veri e propri virus sociali che nascono dal tentativo, impossibile (sic!), di ridurre a categorie semplici, ciò che per definizione non è riducibile ovvero la complessità. Solo allineandoci con la prospettiva di quest’ultima, possiamo adottare un atteggiamento personale e di conseguenza interpersonale, quindi sociale e politico di tipo inclusivo e non discriminante verso qualsivoglia categoria di persona.

A questo proposito risulta illuminante la lezione che abbiamo ereditato dallo psichiatra e filosofo viennese Viktor Frankl, ebreo sopravvissuto a quattro diversi lager nazisti. Al termine del secondo conflitto mondiale e della barbarie scatenata in Europa dai regimi totalitari, ai pochi sopravvissuti era spesso chiesto di raccontare la propria esperienza di prigionieri nei campi concentramento e di sterminio. L’aspettativa era che i testimoni delle atrocità puntassero il dito contro il popolo tedesco colpevole delle nefandezze compiute. Anche Frankl fu invitato più volte a raccontare la propria esperienza di internato in diverse occasioni. Saldo nella sua esperienza, forte della sua libertà di pensiero e incurante delle ostilità che il suo punto di vista avrebbe procurato nella comunità ebraica, Frankl riportò sempre l’attenzione dei suoi uditori sul concetto di responsabilità individuale, ricusando ogni tipo di semplificazione e di generalizzazione che portasse a sostenere la tesi della colpa collettiva di un gruppo sociale, di un popolo, di una nazione.

Celebre il discorso da lui tenuto il 10 marzo 1988, davanti a trentacinquemila ascoltatori, sulla piazza del municipio di Vienna, in occasione del cinquantesimo anniversario dell’Anschluss: «Il Nazionalsocialismo ha diffuso il delirio razziale: in effetti esistono soltanto due razze umane, ossia la ‘razza’ degli uomini onesti e quella degli uomini disonesti. E la separazione razziale taglia tutte le nazioni e, all’interno di ciascuna nazione, tutte le fazioni. Persino nei campi di concentramento si incontrava qualche SS appena decente, come pure qualche imbroglione e farabutto anche tra i detenuti» (Frankl, 2001). Con coraggio Frankl evidenzia il fatto che non esistono gruppi sociali buoni o cattivi ma che in ogni umana aggregazione sono presenti individui che perseguono il bene e la giustizia e altri che rincorrono, con ogni mezzo, fini che si distanziano da valori quali il bene e la giustizia che tutelano la vita e l’umanità degli individui. L’intellettuale viennese richiama con forza a due grandi dimensioni che contraddistinguono l’essere umano: la libertà e la responsabilità. Libertà di decidere, momento dopo momento, che cosa fare di sé stessi e responsabilità per questa scelta. Dunque, libertà di decidere che tipo di persona si vuole essere e si vuole diventare: abbassarsi a livello animale o far fiorire la più nobile dignità umana che consiste nel pensiero e nella capacità di amare e donarsi all’altro da sé dilatando i confini di quelle espressioni che favoriscono un’esistenza e una convivenza più umana.

Frankl ci aiuta così a delineare un importante indicatore di maturità intellettuale ovvero la capacità di non essere discriminativi o abbonati a infondato pregiudizio. Il bene e il male attengono alla responsabilità personale e non a questa o a quella appartenenza categoriale. La persona va considerata per ciò che è nella sua singolarità, nella sua libertà e responsabilità. I soli fondamenti a partire dai quali è possibile una valutazione etica che non può mai riferirsi all’appartenenza di un individuo a una categoria piuttosto che a un’altra. Solo così è possibile non cadere in deplorevoli pregiudizi che scadono facilmente in razzismo, classismo, sessismo. Seguendo questa prospettiva è verosimile non scivolare in uno sterile riduzionismo che perdendo di vista la singolarità dell’individuo ambisce, illusoriamente, a semplificare approssimativamente la complessità umana e sociale nella quale siamo immersi.

 

Alessandro Tonon

 

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Anima e destino. Platone e il mito di Er

Cos’è il destino? Non esiste una risposta unica a questa domanda. Se analizziamo l’etimologia di tale termine, vediamo come in esso siano presenti differenti interpretazioni del suo significato, sia di stampo latino che greco, le quali indicano contemporaneamente un processo e il suo stesso scopo. Destino è ciò che accade nella vita di ciascuno e che viene sempre concepito come qualcosa che sfugge al pieno controllo dell’uomo, un evento che, nel senso comune, giunge inesorabilmente rendendo il soggetto totalmente inerme e passivo. È davvero così?

Certamente non lo è nella concezione platonica, dove il destino è strettamente collegato all’anima dell’uomo. Platone ne parla soprattutto nel libro X della Repubblica, attraverso la narrazione del mito di Er, soldato figlio di Armenio, che ucciso in battaglia riesce ad accedere alla vita nell’aldilà e, una volta ritornato sulla Terra, racconta poi ai suoi compagni ciò di cui è stato testimone. Tale mito va inserito nella più ampia teoria platonica dell’immortalità dell’anima, la quale, oltre ad essere composta della stessa sostanza delle idee, al momento della morte corporale compie una trasmigrazione, ovvero un passaggio, ad un altro corpo. Platone, infatti, credeva alla metempsicosi, una dottrina attribuita inizialmente a Pitagora ma già presente in quelli che storicamente sono stati definiti i culti orfici.

Cosa narra Er ai suoi compagni? Al termine della vita, ed una volta giunti al momento in cui bisogna scegliere in quale corpo reincarnarsi, le anime pervengono al fuso della Necessità, ovvero all’origine di tutti i legami che reggono i moti del cielo, accanto a cui sono poste, tra le altre figure, anche Lachesi, simbolo del passato, Cloto, simbolo del presente, e Atropo, simbolo del futuro. Secondo la narrazione del mito, la vergine Lachesi, figlia di Necessità, getta in mezzo alle anime, in modo del tutto casuale, diverse sorti e ciascuna anima ha la possibilità di raccogliere quella che le cade in prossimità. Ogni sorte stabilisce il posto a sedere che spetta a ciascuno attorno al fuso. In questo modo, viene così stabilito l’ordine di scelta del destino per le diverse anime. Una volta terminata la fase iniziale, alle anime vengono mostrati i «paradigmi delle vite»  successive che ognuno ha la possibilità di scegliere (Platone, Repubblica X, 618 A). Se, quindi, in una prima fase vi è un criterio di casualità delle sorti da parte della vergine, la scelta successiva del destino spetta soltanto all’anima del singolo e, come dice la stessa Lachesi, «la responsabilità, pertanto è di chi sceglie. Il dio non ne ha colpa», poiché «non ha padroni la virtù; quanto più di ciascuno di voi l’onora tanto più ne avrà; quanto meno l’onora, tanto meno ne avrà» (ivi, 617 E).

Infatti, «proprio qui si annida ogni rischio per l’uomo»: sulla base della natura della propria anima, ciascuno sceglierà la vita successiva (ivi, 618 B). Non a caso parla Lachesi, simbolo del passato, in quanto la modalità di scelta dipenderà necessariamente da ciò che l’anima avrà vissuto nella vita passata, se è stata abituata a scegliere sempre solo ciò che, in apparenza e d’istinto, appare come preferibile, rispetto a ciò che invece può sembrarlo meno ma che, ad un esame più approfondito, potrebbe portare maggiore giovamento. La virtù, espressione dell’anima, guida le scelte, ed è per questo che ciascuno è responsabile della propria.

Se, quindi, la presenza ed il ruolo della Necessità non possa essere negato, in Platone il compito fondamentale nella scelta del proprio destino dipende soprattutto dall’anima del singolo e dalla propria virtù.

Cosa può insegnarci il mito di Er, oggi? Certamente che la responsabilità che proviene dalla natura della nostra anima e dalle nostre virtù possiede un valore molto più alto rispetto a ciò che pensiamo. Quello che Platone chiama destino e che noi potremmo più semplicemente considerare come la destinazione propria di ogni vita – la risposta inesauribile alla domanda: “Chi voglio essere? Dove voglio arrivare nella vita?” – dipende anche e soprattutto da noi. Sebbene l’uomo non possa essere in grado di controllare tutto è suo compito, nonché sua scelta, trasformare anche ciò che è imprevisto in un passaggio, una tappa, verso la propria destinazione. Le esperienze del passato sono sempre occasione per imparare a vivere secondo virtù, ovvero ad orientare la propria anima a scegliere secondo il Bene, o almeno a provarci. Come dice Lachesi, non serve dare la colpa ad altri per ciò che ci accade, ma piuttosto imparare a scovare in ogni cosa il Bene a volte nascosto, e a scegliere di conseguenza. Così, forse, «ci toccherà, insomma, felicità quaggiù sulla terra e nel viaggio millenario che abbiamo illustrato» (ivi, 621 D).

 

Agnese Giannino

 

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Filosofia: amore per il peccato

“Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: di tutti gli alberi del giardino tu puoi mangiare ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiarne, perché, nel giorno in cui tu te ne cibassi, dovrai certamente morire”1

“Ma il serpente disse alla donna: “Voi non morirete affatto!” Anzi. Dio sa che nel giorno in cui mangerete, si apriranno i vostri occhi e diventerete come Dio, conoscitori del bene e del male2.

Un divieto imposto a priori e una tentazione che, come un vento leggero, rinvigorisce un fuoco già acceso: così sembra procedere il racconto biblico di Adamo ed Eva, primi peccatori e ultimi dogmatici.

La scelta effettuata da Eva rappresenta una straordinaria svolta nella “storia umana” e nella concezione che da essa ne deriva: l’uomo sceglie infatti volontariamente di tendere al peccato più grande e affascinante, cercando di raggiungere l’albero del bene e del male.

In questo passo della Bibbia, si assiste ad una sorta di nascita allegorica della Filosofia come tendenza umana alla fuga verso tutto ciò che è imposto e che appare assolutamente certo: i personaggi, soggetti apparentemente nudi nella carne e nello spirito, dubitano di Dio stesso, della verità che sembrerebbe essere incontrovertibile, e scelgono di imboccare la strada del dubbio, assai più ripida e ben più pericolosa.

E da lì in poi, da quel fatidico giorno di storie lontane e di visioni allegoriche, l’uomo scivola verso l’abisso più profondo, la dimensione dell’incertezza, in cui ogni posizione apparentemente certa è in realtà un filo sottile o un terreno instabile da cui fuggire: ed è proprio nel suo “andare oltre”, scacciando il dogma, che risiede la grandezza di un uomo nuovo, consapevole di se stesso e della propria capacità di esercitare il dubbio.

Adamo ed Eva scelgono infatti di coprire il proprio corpo: non sono personaggi in preda al pudore e alla vergogna, ma dimostrano invece di essere dei soggetti nuovi che hanno maturato una nuova visione di sé… L’individuo si spoglia della verità certa e inconfutabile, capace di celarla persino a se stesso e trova quindi il coraggio di osservarsi, scoprendo, con differenti occhi, di essere fragile, nudo.

Ed è proprio dalla morte della certezza, dallo stupore verso il mondo, dalla meraviglia, dal timore di sé e della voglia di scoprirsi veramente che nasce la Filosofia e che sembra emergere una nuova vita, non già edificata, ma da costruire, pezzo dopo pezzo.

Continueremo a costruire incessantemente la nostra esistenza, la nostra scala, poi faremo qualche passo indietro e osserveremo la nostra creazione, chiedendoci se in fondo non sia tutto il gioco di un bambino che crea e immediatamente distrugge, perché è nella creazione e nella costruzione che risiede tutto il suo divertimento.

Forse è anche questo il destino dell’uomo, perennemente bambino: edificare teorie ed edifici, distruggerli e poi creare nuova vita.

Costruire pensieri e abbatterli.

Costruire se stessi e mettersi radicalmente in discussione: perché senza fine non c’è inizio e senza caduta non c’è sollevamento.

Probabilmente però, una scala debole e instabile, resisterà alla distruzione e consentirà all’individuo di tornare a vedere, per qualche istante, il proprio Paradiso.

L’uomo chiederà a Dio di poter osservare per un’ultima volta l’albero del bene e del male, per poter peccare ancora, elemosinando un frutto di dolce conoscenza e di amaro dubbio: e sarà proprio quando le sue mani toccheranno i frutti sacri e maledetti che inizierà nuovamente la sua caduta.

Questa volta si chiederà però se quei frutti siano mai maturati e se Dio sia realmente esistito al di fuori della propria mente: nessun urlo durante la caduta, solo il rumore di insostenibili pensieri.

 

Gabriele Iacono

Gabriele Iacono è uno studente di diciotto anni: ha collaborato con “Bravi Autori” e “Archivio Immaginazione”, partecipando inoltre ad alcuni concorsi di scrittura e alla pubblicazione di numerose antologie di racconti.
Oggi è articolista presso il giornale online “Il Post Scriptum” e recentemente ha pubblicato il suo primo libro, intitolato “Eterni Prigionieri”.

 

NOTE:
1. Genesi 2: 16-17
2. Genesi 3: 4-5

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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Verso un nuovo sincretismo religioso

Il sincretismo religioso e filosofico viene di solito guardato con molto sospetto da parte degli studiosi o degli esponenti di religioni che pretendono di avere validità universale, poiché, dicono, non è rispettoso della tradizione filosofica o religiosa di riferimento. È il classico problema che si pone nella distinzione tra filosofia e storia della filosofia, in cui gli storici accusano i teoretici di prendere elementi concettuali appartenenti a tradizioni e autori diversi e di fare “di tutta l’erba un fascio”, rischiando così di snaturare e non comprendere il pensiero dei filosofi considerati.

Ora, tutto ciò ha indubbiamente una sua verità, ma perché non mostrare, invece, come sia arrivato il momento di prendere ciò che c’è di buono in ogni religione e filosofia in nome di un umanesimo integrale, laddove ciò che conta non sono le premesse storiche e metafisiche, bensì l’aspetto etico, ovvero quello legato alla prassi? In altre parole, se questo approccio sincretistico può portare a sviluppare sentimenti di amore, comprensione reciproca, compassione ed empatia, non vedo perché sia così strettamente necessario aderire ad una determinata religione o filosofia, che rischiano di diventare ideologie, escludendo tutte le altre. Non dimentichiamo, infatti, che cercare l’unità nella molteplicità – ovvero, fuor di metafora, il nucleo originario e profondo di ogni religione e filosofia – sembra possa avere che effetti benefici anche in termini di ecumenismo e dialogo tra fedi diverse, questioni molto importanti in questo periodo storico.

Proverò dunque a fornire un esempio di sincretismo religioso e filosofico a partire dalla religione in cui sono stato educato, ovvero quella cristiana cattolica.
Nel Vangelo di Giovanni si legge di un dialogo notturno avvenuto tra Gesù e Nicodemo, capo dei farisei. In risposta all’affermazione di Nicodemo che fa intendere che il Figlio di Dio si riconosce dalle opere che compie, ovvero dai miracoli, Gesù afferma che per vedere Dio è necessario rinascere dall’alto, cioè da acqua e Spirito. In sostanza ciò fa riferimento al fatto che la divinità non è riconducibile a categorie logiche e razionali prestabilite e che non agisce in maniera retributiva ma si muove in un ambito assolutamente libero, nuovo, creativo e dinamico.

Ora, cosa può mai significare questa enigmatica espressione di Gesù, cioè il “rinascere dall’alto”? Qui inizia il percorso sincretistico.
Innanzitutto non si può far a meno di notare la somiglianza tra questa rinascita spirituale e l’intuizione dell’idea del Bene proposta da Platone. Intuire l’idea del Bene è estremamente difficile e, per Platone, richiede un lungo percorso di studio e ricerca filosofica. Anche rinascere da Dio è difficoltoso ma – se Dio è il principio, e dunque è uno e buono – questa rigenerazione porterà ad effetti etici simili a quelli proposti da Platone, ovvero contemplazione, conoscenza, serenità, bontà d’animo, ma anche impegno politico e sociale per migliorare le condizioni di vita degli esseri umani.
Lo stesso principio vale per la religione buddista e la filosofia di Schopenhauer. Infatti, la soppressione del desiderio e la negazione della Volontà altro non sono che una ribellione a questo “sistema mondo”, con le sue proprie logiche di ricerca del piacere e del successo a spese degli altri. Ma il cristianesimo di Gesù e quello delle origini propongono lo stesso atteggiamento distaccato dalle realtà mondane e rivolto al misticismo e alla contemplazione, per cui non sembra azzardato affermare che l’illuminazione buddista e il processo che porta ad essa siano piuttosto simili alla “rinascita dall’alto” predicata da Gesù, eliminato ovviamente il discorso della reincarnazione.

Si potrebbero fare altri esempi di sincretismo, ma ciò che importante ancora sottolineare è che, se i risultati di un approccio sincretistico (preso naturalmente cum grano salis) sono l’apertura all’altro e al diverso, e l’inclusione simpatetica, esso non può che portare beneficio al genere umano.
Inoltre, la prospettiva di aderire integralmente ad una data religione può facilmente portare a conflitti di valore, ovvero a chiedersi, ad esempio: “Qual è la religione migliore?”, “Se non aderisco al cristianesimo, significa che non sarò salvato?”, “Posso apprezzare il buddismo anche se non condivido la prospettiva della reincarnazione?”. Ovviamente tutte queste domande sono causa solo di turbamenti spirituali e rischiano di portare ad ostilità e sospetto tra religioni diverse. Per questo motivo credo una ragionata prospettiva sincretistica potrebbe indurre serenità e nobiltà d’animo, laddove si riconosca che ogni religione, se non si cade nel fanatismo, ha di mira esclusivamente il bene e la felicità dell’uomo.

 

Francesco Breda

 

[Photo credit Jean-Baptiste D. via Unsplash]

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Siamo tutti un po’ Raskol’nikov

In un mondo sempre più indifferente e nel quale l’Io assume una posizione sempre più centrale, gli esseri umani risultano più inclini all’esaltazione illusoria della libertà che li porta a credere di essere onnipotenti e a giustificare azioni e pensieri spesso ingiustificabili.
Emblema di un simile delirio di onnipotenza è Raskol’nikov, protagonista di una delle più celebri opere di Dostoevskij: Delitto e Castigo (1889), ambientato in una tetra Pietroburgo, nella quale il protagonista uccide una vecchia e avida usuraia. Potremmo inizialmente credere che egli compia un simile assassinio per appropriarsi del capitale della vecchia, ma così non è: Raskol’nikov, infatti, decide di ucciderla per estirpare una cattiva erbaccia dal mondo, tenendo con sé solo una piccola parte dei soldi per non gravare più sulle spalle della madre, distribuendo poi il resto del denaro ai più bisognosi.

Dostoevskij ha la capacità magistrale di farci addentrare negli abissi più reconditi del sottosuolo umano; nelle sue opere, infatti, i personaggi principali sono degli esseri umani divisi, alla perenne ricerca della strada “giusta” da percorrere nell’eterna lotta interiore tra il bene e il male. Non a caso l’autore sceglie Raskol’nikov come nome del protagonista, infatti raskol’ in russo vuol dire “scissione”.

Raskol’nikov architetta l’omicidio ponendosi in una dimensione superomistica alla maniera nietzschiana, decidendo che sia legittimo uccidere la vecchia in quanto ritiene che essa sia inutile per il progresso dell’umanità, essendo lei un’incarnazione del male in terra.
Ciò che salta subito all’occhio è la descrizione di un uomo dominato dagli ideali, dalle passioni incontrollate, da un libero arbitrio spinto all’ennesima potenza, non certo dominato dalla ragione e dalla morale canonicamente intesa; ma siamo sicuri di poterci permettere di giudicare negativamente l’operato di questo personaggio?

La risposta sarebbe istintivamente un sì, in fondo Dostoevskij mette al centro della scena un assassino a pieno titolo, un uomo che si fa portavoce di una propria morale, che trasgredisce deliberatamente la legge per appagare un suo più alto desiderio, quello di diventare übermensch e di porsi in uno stato “al di là del bene e del male”, cercando di estirpare il male dal mondo, cadendo però nella trappola del male stesso e credendo di ottenere, con la sua azione fuori dagli schemi dell’ordinario, una superiorità che lo porterà a sentirsi libero nella maniera più assoluta. Ma dopo aver commesso il delitto, Raskol’nikov avverte immediatamente di non aver ottenuto la tanto agognata superiorità, di fatto ha solo ucciso senza ricevere nulla in cambio, se non il peso insostenibile del senso di colpa che lo attanaglierà fino a diventare una vera e propria ossessione, che lo porterà infine ad autodenunciarsi e a riconoscere l’inumanità del gesto commesso, seppur senza mettere in dubbio gli ideali che l’hanno mosso.

A questo punto l’interrogativo che sorge spontaneo suona machiavellico: il fine, relativamente al delitto commesso, giustifica i mezzi?
La risposta è un categorico no e in fondo è Dostoevskij stesso a condurci verso tale pensiero. Delitto e castigo, infatti, sancisce proprio la convivenza forzata e insopportabile tra la violazione delle leggi del diritto e della morale e l’inevitabile imbattersi dell’essere umano in se stesso.
Se consideriamo il protagonista come un mero deviato mentale e crediamo di non avere nulla in comune con lui, ci sbagliamo di grosso: Raskol’nikov tenta, seppure invano, di appagare la sua coscienza prima di appagare la volontà del mondo che lo circonda; non è forse ciò a cui tendiamo tutti noi in qualità di esseri umani? Tutti noi rivendichiamo il nostro libero arbitrio, senza pensare che proprio tale caratteristica che permette di discernere il bene dal male, possa condurre non sempre nella direzione giusta. Allo stesso modo, quando commettiamo un’azione negativa, anche se spinti da ideali a nostro avviso corretti, non avvertiamo come Raskol’nikov, la sensazione di non aver ottenuto nient’altro che l’aver commesso il male?

Questo personaggio appare, dunque, non solo estremamente universalizzabile, ma anche e soprattutto attuale: basti pensare al fatto che egli uccida una persona che considera riprovevole; ma quante volte noi “abbiamo ucciso”, metaforicamente parlando, alcune categorie di persone che abbiamo ritenuto non alla nostra altezza, emarginandole, parlandone negativamente, ignorandole? Quello che è certo è che tutti noi abbiamo commesso un “delitto” almeno una volta nella vita e tutti, o quasi, abbiamo fatto i conti con il più inflessibile giudice inquisitore che esista: la nostra coscienza. Ed è per questo che, in fondo, siamo tutti un po’ Raskol’nikov.

 

Federica Parisi

 

[Photo credit John Silliman via Unsplash]

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Seneca, “Lettere a Lucilio”: essere schiavi della felicità degli altri

«[…] Possiederai il tuo vero bene il giorno in cui capirai che gli uomini cosiddetti felici sono i più infelici»1.

È questa la conclusione dell’ultima lettera di Seneca a Lucilio, e l’ultimo consiglio che il maestro dà al suo amico. Mai, come nell’epoca odierna, esso si rivela più pertinente. È infatti innegabile che, attraverso i mezzi di comunicazione, gli uomini vivano come perennemente affacciati alla finestra, a osservare gli altri, ma senza esperirli davvero e dunque senza conoscerli.

Le immagini di uomini e donne che ci passano continuamente sotto gli occhi non sono che frammenti di vite, delle quali in realtà non sappiamo nulla. Credendo che intere esistenze felici siano racchiuse in scatti durati meno di un secondo, e delle cui restanti ore non resta niente, subito si sente il bisogno non solo di emularli ma anche di superarli in sorrisi più smaglianti, in foto più sgargianti.

Tuttavia, l’ostentazione della felicità ci distoglie dal ricercare che cosa sia realmente il nostro bene. Ecco perché l’ultima lettera di Seneca non è rivolta soltanto a Lucilio ma alla nostra stessa epoca storica e al suo malessere.

In quest’ultima lettera Seneca riflette sul fatto che il bene appartenga alla ragione, alla mente. Il bene, cioè, non è una pura soddisfazione dei bisogni o un accumulo di piaceri. Se così fosse, i visi sorridenti che scorrono sui nostri schermi sarebbero sinonimo di felicità; se il posto del bene si trovasse nei sensi, nel materiale appagamento, la società di massa sarebbe stata la mossa vincente per raggiungere e tenere stretta a sé la felicità. Al contrario, avere tutto a portata di mano, ottenere prima ancora di dire “vorrei”, non ci ha garantito il nostro bene. Siamo invece più fragili, insicuri, peggio che sulla corda di un equilibrista.

È perciò evidente che il bene si trovi altrove e Seneca individua appunto come suo luogo la ragione. Perché la ragione e non qualsiasi altra cosa? Perché il bene è «un’anima libera e retta, che pone tutto sotto di sé, niente al di sopra»2. La schiavitù di questo tempo è di certo la felicità altrui; così, gli uomini si sono privati in un nuovo modo di una vecchia libertà, quella di trovare ed essere se stessi. Il bene, che conduce così alla felicità, è restare saldi in se stessi ed esserne conformi. In altre parole, trovare il bene significa non essere a disagio nella propria pelle e non essere schiavi delle ostentazioni altrui. Inseguire e superare gli altri, in bellezza, ricchezza e possesso, ci fa dimenticare di noi stessi, e la lettera di Seneca fa emergere che questo è in realtà un antico problema, che i tempi odierni hanno solo esasperato.

La via che conduce al bene, e dunque a una vita che sia degna di essere vissuta, è in se stessi. Solo quando ci si troverà al centro di se stessi, il bene sarà autentico.

«È, senza dubbio, un animo casto e puro, […] che tende ad elevarsi al di sopra delle cose umane e si concentra tutto in se stesso»3. Questo è il bene che Seneca cerca di trasmettere a Lucilio ma, insieme a questo, emerge nello stoico anche una certa preoccupazione. Che utilità ha, infatti, ricercare la natura del bene? Non basta davvero possedere e soddisfare ogni desiderio? La risposta è che non può essere sufficiente, perché tradirebbe la natura stessa dell’essere umano, che è ragione, sentimento, meraviglia e non un puro e semplice groviglio di sensi.

In che modo si saprà di essere sulla giusta strada verso il bene?

«Non considerarti felice che il giorno in cui tutte le tue gioie nasceranno in te; quando, alla vista di quegli oggetti che gli uomini cercano ad ogni costo di conseguire e di tenere bramosamente per sé, non troverai niente che ti sembri, non dico preferibile, ma neppure desiderabile»4.

 

Fabiana Castellino

 

NOTE
1. Seneca, Lettere a Lucilio, BUR, Milano 2014, p. 1067.

2. Ivi, p. 1063.
3. Ivi, p. 1067.
4. Ibidem.

[Photo credit Aziz Acharki via Unsplash]

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La politica incontra il male per il bene: Machiavelli e il Divo di Sorrentino

“Lei ha sei mesi di vita”, mi disse l’ufficiale sanitario alla visita di leva. Anni dopo lo cercai, volevo fargli sapere che ero sopravvissuto. Ma era morto lui. È andata sempre così: mi pronosticavano la fine, io sopravvivevo; sono morti loro.

Inizia così Il Divo, film del regista Paolo Sorrentino su la vita di Giulio Andreotti.
Giulio Andreotti non era solo un politico, il Divo così soprannominato, fu l’immortale uomo di Stato, tra i maggiori esponenti della Democrazia Cristiana nel lasso 1948-1993 e pilastro indiscusso della Prima Repubblica, conclusasi in merito allo scandalo Tangentopoli.
Un uomo che ci viene raccontato magistralmente dal regista napoletano Paolo Sorrentino, in quello che lui stesso definisce il proprio capolavoro cinematografico, facendosi beffe del premio Oscar La grande bellezza.
Una pellicola dirompente tra realtà e menzogna perché tutto si è scritto sul Gobbo, ma nulla si è veramente compreso. Tutto nascosto dalla sua criptica mimetica, dall’impassibilità nel volto e dell’impenetrabilità della prassi politica. Non è bastata neppure la nota pop voluta nel film, per rendercelo familiare e neanche la maschera di Toni Servillo come interprete. Ma nei dialoghi e nelle citazioni desideranti di immedesimare l’ironia cronica del Senatore, è possibile delineare le dinamiche che lo hanno reso tale nella storia e la formazione politica che lo ha introdotto nelle istituzioni repubblicane.

Il film è ambientato tra il 1991 e il 1993, quando Giulio ancora occupava la vita politica nel Paese. Diventato per la settima volta presidente del Consiglio è in corsa per la successione a Cossiga al Quirinale. Gli ultimi ruggiti pacati del democristiano prima degli scandali giudiziari che lo videro imputato per presunte collisioni con la mafia.
Scene arricchite dai palazzi di potere, dalle correnti di partito, dalle cene e dai festini nelle più celebri palazzine di Roma. Tutto contrapposto alla perenne solitudine nella quale riversava e alle frequenti emicranie che gli impedivano lunghi periodi di lavoro.
Due soli anni per poter delineare, quello che oggi viene definito il politico di professione.
Tralasciando le sue peculiarità fisiche e intellettuali, è doveroso indagarne la formazione politica in termini di opere nelle quali è possibile collocarlo.
Uno di questi è Il Principe1 scritto da Machiavelli nel 1513 trattato di dottrina politica. Fu dedicato a Lorenzo de’ Medici, nipote del Magnifico e duca di Urbino, allo scopo di educare il giovane esuberante e ambizioso alla vita politica, che richiedeva non solo abilità intellettuali ma astuzia, scaltrezza, virtù e resistenza. Tutto per il bene della Repubblica seppur i mezzi da utilizzare possano essere definiti poco benevoli e dall’esito incerto.
Andreotti quest’opera la conosceva bene come la maggior parte della classe dirigente non solo della Democrazia Cristiana ma di tutto il mondo politico. L’ambiente d’allora lo esigeva. Infatti nella Prima Repubblica veniva attuata una democrazia puramente rappresentativa, ancora poco soggetta alle trasformazioni odierne di sistema e ad un’opinione pubblica onnipresente.

La sezione diciottesima intitolata Quomodo fides a principibus sit servanda2, ovvero in che misura i principi debbano mantenere la parola data, è uno dei capitoli più controversi del Principe, in cui Machiavelli affronta la delicata questione della possibilità o meno per il sovrano di comportarsi con astuzia e venir meno agli impegni sottoscritti ufficialmente.
Viene descritto come il principe d’allora potesse governare servendosi della forza e come dovesse essere per metà uomo e per l’altro bestia.
Una bestialità divisa tra volpe (astuzia) e leone (violenza), entrambe necessarie all’azione di governo. L’astuzia si manifesta soprattutto nella capacità di venir meno agli impegni presi e nel non mantenere la parola data, quando ciò è necessario per conservare lo Stato. Tema che si lega strettamente a quanto affermato nel capitolo XV relativamente alla necessità per il principe di comportarsi in modo non etico perché lo Stato è un valore assoluto da preservare a ogni costo, baluardo contro il disordine e l’anarchia.
Inoltre il concetto della simulazione e della dissimulazione rappresentano i mezzi utili al sovrano per, non avendo tutte le buone qualità che ci si aspetta da lui, parere di averle. Ciò non significa che il sovrano debba necessariamente compiere il male ma non deve rifuggire dal compiere azioni delittuose se necessitato e, al contempo, badare che non gli esca mai di bocca qualcosa che contraddica le migliori qualità che normalmente ci si attende dall’uomo di governo, per cui egli deve apparire pietoso, fedele, umano, leale, religioso. Un’immagine che identifica Andreotti con tutti i suoi segreti e ben è stata rappresentata nel monologo finale del film di Sorrentino.

“(…)Non hanno idea delle malefatte che il potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo del Paese. Per troppi anni il potere sono stato io. La mostruosa, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. La contraddizione mostruosa che fa di me un uomo cinico e indecifrabile anche per te, gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sanno la responsabilità. La responsabilità diretta o indiretta per tutte le stragi avvenute (…) Confesso: è stata anche per mia colpa, per mia colpa, per mia grandissima colpa. Questo dico anche se non serve. (…) Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo, e noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta.”

La politica così rappresentata deve includere dentro di sé il male – nella simulazione e dissimulazione – per il bene. Il fine che giustifica i mezzi3 riutilizzando le parole di Machiavelli così che il Principe possa conservare lo Stato nei momenti di crisi.
L’epoca odierna della politica al cui centro risiede la trasparenza incondizionata, ostacola tutto ciò considerando il bene per il bene. C’è da chiedersi dove stia la verità e il buon ordine di governo. Comunque sia, il primo passo è prendere consapevolezza della realtà, agendo di conseguenza, senza dimenticare che la politica prima delle sue correnti è partecipazione.

 

Simone Pederzolli

 

NOTE:
1. Il Principe, Niccolò Machiavelli, Feltrinelli, 2013, a cura di Dotti
2. Quomodo fides a principibus sit servanda, capitolo diciottesimo del Il Principe, N. Machiavelli, Feltrinelli, 2013, a cura di Dotti p.154
3. Il Principe, Niccolò Machiavelli, Feltrinelli, 2013, a cura di Dotti, cap. XVIII p.155

Immagine di copertina tratta da una scena del film.

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