Nulla da vedere nell’arte contemporanea? Basta riflettere

Chi ha un minimo di confidenza con l’arte contemporanea sa che, a differenza delle precedenti, in molti casi essa ci presenta gli stessi oggetti della vita di tutti i giorni: il caso principe è l’orinatoio che Marcel Duchamp espose nel 1917 ad una mostra d’arte a New York. A questo primo episodio ne seguirono molti altri, tanto che oggi è forse più comune vedere alle mostre opere “fatte di” oggetti banali che non dipinti e sculture: certo, l’arte ha in questo secolo calcato diversi sentieri, si sono adoperati neon, animali impagliati, addirittura ora si utilizzano file digitali come opere. Tuttavia la Fontana di Duchamp è un evento paradigmatico poiché rappresenta l’inizio dell’irruzione del quotidiano nell’arte: e ciò è stato ed è genuinamente spiazzante. Il senso comune infatti dice che le opere d’arte sono cose ben diverse dagli oggetti normali, poiché, generalmente, belle ad un livello speciale.

Il problema con la bellezza, è che essa è un valore che, come tutti i valori, è riconosciuta per certe qualità solamente da coloro che credono che quelle qualità la esprimano: non ne esiste un’idea condivisa da tutte le culture, né da tutte le società e gli individui. Chi pensa che qualcosa sia bello lo fa sempre per dei preconcetti che ha riguardo alla bellezza stessa. Qualcuno può dire che bello è ciò che dimostra in tutte le proprie parti una proporzione perfetta, chi invece crederà che alla bellezza serva un minimo di disarmonia per vivacizzarla, chi pensa che certi colori stiano bene assieme perché gli danno una sensazione positiva, e chi il contrario: tutti questi giudicheranno bello soltanto quell’oggetto che possono pensare secondo i loro parametri.

Infatti, in ognuno di questi casi, prima del giudizio si ha un’associazione di idee, il che è sostanzialmente un tipo di pensiero: anche nel caso dei colori, chi li trova belli connette la sensazione di piacere che ha con altre simili, alle quali ha imparato ad associare un evento positivo. L’idea è che un quadro lo “faccia sentire come”, e che perciò sia bello. Si risponde secondo dei presupposti: il problema è che pure questi presupposti possono a loro volta essere relativi. La bellezza infatti non è l’unico valore che risente di una tale situazione: le idee di proporzione, armonia, disarmonia, positività, piacere sono a loro volta suscettibili di condizionamento da parte di memoria, esperienza, cultura e storia. Anche l’espressività e il trovare qualcosa espressivo, fattori solitamente associati con l’arte, sono sia dipendenti dai, che varianti nei, vari contesti in cui il giudizio viene espresso.

Per cui non si può effettivamente pensare che l’opera d’arte – se si vuole che sia tale per tutti coloro che la potrebbero guardare (conditio sine qua non di una buona definizione della realtà) – si possa basare su qualche caratteristica specifica. Altrimenti, per qualcuno qualcosa sarebbe arte, per qualcun altro no. Ciò che permane, sicuramente, è che quando un oggetto è esposto al pubblico, come in un museo o in una galleria, le persone saranno portate a giudicarlo: si potrà dire che è bello o brutto, espressivo o inespressivo, che presenta certe qualità o non lo fa, ad un livello sufficiente o no. Di sicuro, quando mostrato, l’oggetto riceverà un giudizio, anche rispetto alla sua artisticità, giacchè affibbiargli o no le caratteristiche che, secondo chi lo fa, lo denotano come un’opera d’arte, significa infine giudicarlo “arte”.

Dunque, quello che le opere d’arte fanno è sempre stimolare un giudizio, cioè far associare delle premesse con altre idee. L’intuizione di Duchamp fu quella per cui, se un’opera non può essere razionalmente caratterizzata, ma tutto ciò che possiamo dire è che ci fa pensare, allora ogni cosa può mettere in moto la mente umana, dato che su tutti gli oggetti noi possiamo formulare pensieri: anzi, vien da chiedersi, che cosa più di un orinatoio in una galleria d’arte può dar modo di riflettere? Vedendolo, infatti, si potrà pensare che non è arte, che però qualcuno ha pensato che lo fosse, o non sarebbe stato esposto, che se è arte allora la bellezza non c’entra nulla con l’arte, e che questo è controintuitivo ecc. Inoltre, si potrebbe pensare anche che ci sono opere d’arte che non sono “belle” ma espressive (si pensi a Munch), ma che tuttavia anche l’espressività è relativa, perché in un contesto un gesto può essere considerato espressivo mentre in un altro per nulla…

Si potrà pensare che arte (considerata qui come arte visiva, solco in cui si mosse l’ex pittore Duchamp) è solo ciò che rappresenta qualcosa: ma allora l’astrattismo? Che fare arte significa dipingere o scolpire, produrre qualcosa: ma perché farlo, se non devo avere particolari qualità? In breve, si rifarà il ragionamento che ci ha condotti sin qui, e tutti quelli che hanno portato gli uomini nei secoli a fare arte in un certo modo ed altri ad accettarla come tale, per capire cosa diavolo ci faccia un orinatoio in museo.

 

Simone Costantini

Simone Costantini ha studiato Storia dell’arte a Udine e a Milano, focalizzandosi sulla contemporaneità perché ama essere sempre a conoscenza degli ultimi fatti del pensiero e dell’attività umana, e per personale predisposizione. La considerevole quantità di ragionamento dietro alle opere d’arte contemporanea e al loro studio ben si sposa con la sua passione per la filosofia, sorta al liceo, che ha poi felicemente portato avanti per comprendere sempre meglio il suo nuovo oggetto d’interesse. Alterna, così, il girovagare tra chiese, musei e mostre alla lettura e alla riflessione.

 

[Photo credit Khara Woods via Unsplash]

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La soggettiva oggettività della bellezza

Quando ci sorprendiamo catturati dallo spettacolo della natura o dai capolavori dell’arte e ci ritroviamo a fissare con uno scatto fotografico la sensazione di piacere che stiamo provando, siamo ben consapevoli di aver preso parte all’esperienza della bellezza. Eppure, se ci chiediamo: che cos’è la bellezza? ci ritroviamo prigionieri di uno strano paradosso; ci rendiamo conto che la bellezza sappiamo riconoscerla, ma non siamo in grado di darne una definizione precisa.
E come ad un bivio, ci si presentano una serie di ulteriori domande nelle quali il pensiero si incaglia: è bello è ciò che è bello oppure bello è ciò che piace? Ovvero, la bellezza è qualcosa di assoluto e oggettivo, che tutti riconosciamo allo tesso modo, oppure è relativa ai gusti personali di ognuno? E ancora: la bellezza risiede nell’oggetto che ci ha riempito gli occhi di stupore, oppure in noi stessi che siamo in grado di percepirla?

Cerchiamo di dipanare questi aut-aut, provando a descrivere cosa succede quando siamo partecipi dell’esperienza della bellezza.

Il filosofo Immanuel Kant, nella sua Critica del giudizio (1790), afferma che «chiamiamo bella una cosa per la sua proprietà di accordarsi col nostro modo di percepirla». In altre parole, diciamo bello quell’oggetto che avvertiamo in perfetta sintonia con il nostro gusto e i nostri canoni estetici.

Tante volte formuliamo giudizi estetici in linea con i nostri gusti personali, come quando, anche conformemente alla moda del momento, consideriamo bello e da noi preferibile, per esempio, un pantalone taglio sigaretta piuttosto che a zampa di elefante, il colore blu piuttosto che il rosso. Questa discrezionalità di scelta ci dimostra che la bellezza ha qualcosa di soggettivo in quanto è vincolata a noi, è condizionata dal nostro modo privato di percepirla e di viverla.
È possibile, però, percepire la bellezza anche in un modo “condiviso” e intersoggettivo, e questo può succedere nel momento in cui si verificano le condizioni per le quali la bellezza ci si mostra come qualcosa di oggettivo e assoluto, ovvero quando «la soddisfazione che determina il giudizio di gusto è disinteressata» (Kant, Critica del giudizio, 1997). In definitiva, quando l’alchimia che si sprigiona tra noi e l’oggetto contemplato non è condizionata dall’interesse materiale nei confronti di quell’oggetto.

Fruiamo della bellezza pura e assoluta quando il piacere estetico non scaturisce da alcuna previsione di utilità, né tanto meno da un principio morale o etico oppure da un’attrattiva o desiderio personali. E ciò si verifica quando, ad esempio, godendo della bellezza di un campo di biondeggianti spighe di grano, non penso al guadagno che ne posso ricavare, oppure quando, giudicando bello il dipinto La libertà che guida il popolo di Delacroix, prescindo dall’ideale etico e morale a cui mi esorta e ne ammiro semplicemente l’armonia, il perfetto e interiore accordo tra tutti gli elementi che lo costituiscono e il mio spirito.
Non è poi raro che, quando estasiata esclamo: “Che bello!” al cospetto della vista de La nascita di Venere di Botticelli, del Colosseo o ancora delle splendide spiagge della costiera amalfitana, mi aspetto di condividere la mia soddisfazione estetica anche con chi mi sta accanto, «pretendo il consenso d’ognuno, come se il piacere fosse oggettivo» (Kant, Critica del giudizio, 1997), come se l’esperienza della bellezza che sto vivendo, sia appunto qualcosa di assoluto, che valga allo stesso modo per tutti.

Allora, se la bellezza ha la capacità di suscitare, allo stesso tempo, uno stato di piacere che è sì privato, ma anche universalmente condivisibile, non si potrebbe definire la contemplazione della bellezza come un’esperienza intersoggettiva o “soggettivamente oggettiva”?
Non è forse vero che, quando ci troviamo in coda con tanti altri, al Louvre, per godere della bellezza del quadro più famoso del mondo, la Gioconda di Leonardo da Vinci, o quando a un concerto veniamo piacevolmente rapiti dall’ascolto del Chiaro di luna di Debussy, proviamo un’affinità con chiunque partecipi con noi al medesimo spettacolo della bellezza?

Il miracolo della bellezza ci fa riscoprire accomunati dal medesimo sentimento estetico e dalla medesima capacità di giudicare la bellezza. E questo succede perché, in realtà, la bellezza che pensiamo di ritrovare nella natura o dell’arte, non è altro che la bellezza che portiamo dentro di noi.
Nulla sarebbe bello se alcun uomo o donna non lo recepisse come tale, non solo perché nessuno si accorgerebbe della bellezza racchiusa, ad esempio, in un bocciolo di rosa che si schiude, ma anche perché quel bocciolo di rosa può essere giudicato bello solo dalla comunità umana, costituita da individui capaci del medesimo sentire e il cui animo è strutturato esattamente come il mio.

 

Maria Buonadonna

 

[Photo credit Léonard Cotte via Unsplash]

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La bellezza educherà il mondo

Affermava Dostoevskij che «è la bellezza che salverà il mondo», non il maquillage. Eppure la cultura odierna sostiene il contrario: la cosmesi e i suoi trucchi salveranno il mondo con le mirabili opportunità offerte dalla chimica e dalla tecnica, dall’intelligenza artificiale e dalla chirurgia, dal wellness e dal body care. No problem. C’è una soluzione a tutto. Ma a quale prezzo?
Essere concentrati su vite da copertina, selfie e like, impone l’adozione di modelli convenzionali, codificati e replicabili. La cosmesi costruisce il mondo nel quale viviamo e ne definisce valori, ruoli e appartenenze. È l’inganno dell’effimero, prodigo di giudizi e insoddisfazioni. Crescere e vivere con l’ossessione dell’apparenza, non sentendosi mai adeguati e soddisfatti di sé è però estremamente dannoso e può determinare vissuti di insicurezza e di scarsa autostima.

La bellezza, invece, porta con sé e invoca il riconoscimento dell’alterità, dell’ulteriorità, dell’indicibile e del mistero. Afferma Bruno Forte:

«La bellezza scova, non cattura, suscita, non arresta, invoca, non presume» (B. Forte, La via della Bellezza, 2007).

Hans Urs Von Balthasar parla perfino di una «bellezza disinteressata» (H.U. Von Balthasar, Gloria, 1. La percezione della forma, 1975) – disinteressata al calcolo, agli apprezzamenti, che non si allinea alle mode – lontana dal mondo dei profitti, dalla sua cupidigia e tristezza. Sì, la bellezza disinteressata alle logiche del mondo salverà il mondo, e lo farà con piccole ma rivoluzionarie azioni di speranza e di costruzione di futuro, educando e offrendo la possibilità di sguardi nuovi sulle cose, sulla storia, sul mondo, soprattutto per i giovani. E lo farà stupendo, provocando o disorientando, indignando o facendo sognare.

Il discorso sulla bellezza pronunciato da Peppino Impastato, ucciso dalla mafia a Cinisi il 9 maggio del 1978, nel film I cento passi, esprime appieno questo concetto, anche nella sua dimensione etica e nelle positive ricadute sociali e politiche: «Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore».

La bellezza sembra allora evocare una sintesi inscindibile di vero, bene e bello. In un mondo senza bellezza perdono la loro forza di attrazione anche il vero e il bene, la capacità generativa di gioia e di storie.
Il mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non rassegnarsi alla disperazione e alla prosaicità, per resistere al logorio del tempo, per dare senso e valore ai giorni che riceviamo dalle generazioni precedenti, che viviamo nel presente e che doniamo alle generazioni future.

Nella storia dell’umanità sono stati diversi i nomi dati alla bellezza: l’ebraico tov che dice inseparabilmente bontà e bellezza; il greco kalós, il bello che attira a sé, amabile, che viene incontro; il latino pulcher, con il quale si indica un soggetto concreto: la bellezza è qualcuno, ma è anche fragile e finita. Sempre dal latino deriviamo un quarto nome della bellezza, formosus: bello è ciò che ha forma, dove la proporzione fra le parti rispecchia l’armonia. Con formosus definiamo la bellezza come ordine, armonia, pace. Dal germanico shön deduciamo l’idea di bellezza come irradiazione di luce, luminosità, splendore; dal termine bello l’immagine di una bellezza che si contrae nella debolezza (bello deriva, infatti, da bonicellum, ovvero “piccolo bene”); infine sublime, che induce alla visione di una bellezza elevata. Secondo Bruno Forte c’è un ulteriore nome della bellezza: «la bellezza oltre ogni bellezza, il silenzio di Dio oltre le tante parole degli uomini che cercano di dire l’indicibile» (B. Forte, La via della Bellezza, 2007). La bellezza è sempre oltre.

E nel silenzio di Dio troviamo anche il silenzio di uomini e donne che quotidianamente, come buoni artigiani nelle loro botteghe, si fanno costruttori di bellezza, non di maquillage. È la bellezza che vive e si realizza nel cuore, nelle menti e nelle mani di ogni persona giusta e di buona volontà che forse non realizzerà mai un’opera d’arte nella sua vita, ma avrà fatto della sua vita un’opera d’arte.

 

Massimo Cappellano

 

[Photo credit Element5 Digital via Unsplash]

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La bellezza oggi, tra social e profondità dell’immagine

Nella frenetica epoca delle tecnoscienze, del digitale e dell’avvento dei social media, com’è possibile respirare l’integralità dell’esperienza della bellezza?

Il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han, col suo lucido sguardo sul presente, nel suo libro La salvezza del bello propone una tesi alquanto angosciante: l’essere umano che nasce e cresce nell’era digitale fatica sempre più a dialogare con la profondità dell’esperienza della bellezza artistica. Condensando in poche pagine la lunga storia del bello, citando grandi capisaldi della filosofia come Platone, Nietzsche, Walter Benjamin, Gadamer e Adorno, Han ci invita a riflettere sulla deriva estrema della nostra esperienza estetica nell’epoca dei social media, di quelle immagini che lui definisce levigate. La prima riga del testo preso in questione recita proprio: «La levigatezza è il segno distintivo del nostro tempo» (B.C. Han, La salvezza del bello, 2019).  Il nostro tempo è prigioniero di immagini piatte, levigate, setose: aggettivi perfettamente calzanti per la superficie degli smartphone che tutti noi abbiamo in tasca e che sembrano essere divenuti parte integrante del nostro organismo. La levigatezza di tali immagini rappresenta la superficialità, la fatuità, la corrività di immagini che quotidianamente sottoponiamo ai nostri occhi, a partire dalle decine di stories di Instagram o i diversi TikTok che si susseguono senza fine secondo un algoritmo e che guardiamo attraverso un rapido movimento dell’indice.

Ma è questo l’unico modo d’incontrare l’immagine? Cosa accadrebbe se ciascuno di noi interrompesse tale vacuo ed irriflessivo flusso di figure per provare ad addentrarsi in un’esperienza del bello abissalmente profonda? L’incessante proliferazione di immagini ci spinge ad impigliarci sempre più nella rete del consumismo che genera una produttività spinta all’estremo, dannosa sia per i suoi effetti ansiogeni sulla vita degli individui sia per il sovrasfruttamento del pianeta che abitiamo. E questo sistema bulimicamente consumistico mostra la vita nel suo strato più superficiale: un andirivieni di frammenti lisci, levigati, come le sculture dell’americano Jeff Koons.

A questa visione che ristagna nella piattezza, è possibile contrapporre un nuovo metodo per affrontare l’immagine, senza relegarle il compito di puro intrattenimento: soffermarsi sull’esperienza del bello che non accarezza soltanto, bensì ferisce, trafigge. È la bellezza abissalmente profonda della teatro greco, che fa esclamare che «lì c’è qualcosa che mi scuote, mi sconcerta, mi mette in questione» (ibidem). Secondo il grande filosofo tedesco Gadamer, fare esperienza dell’arte (e quindi anche dell’immagine) significa riconoscere che essa ha un potere trasformativo sull’esistenza umana, essendo una scossa estetica ben diversa dalla riduttiva immagine digitale che s’incontra quotidianamente e con più facilità.

La potenza dell’immagine impigliata nella rete digitale viene spogliata delle proprie increspature, delle proprie ferite e viene così ridotta a un’eccitazione momentanea destinata a non riemergere dalla massa di ricordi che nel corso dell’esistenza si sedimentano e vengono sommersi da altri eventi più importanti. E tale operazione – come mostra Han in un altro suo testo, La società senza dolore – non è altro che il riflesso di un mondo terrorizzato dalla sofferenza, la quale viene sempre più mascherata e celata in una società, che potremmo definire digitale, che delega al dito indice di coloro che ne fanno parte il compito di muoversi in un’infinita costellazione di volti, luoghi ed immagini che, salvo alcune eccezioni, difficilmente restano impresse tanto quanto la vista coi propri occhi di un mare burrascoso, di un roseo tramonto o di una grande opera artistica. Per questo è importante promuovere e fare esperienze di reale ed autentica bellezza, togliendo la polvere da uno sguardo (ahimè) talvolta assuefatto dalla natura, dai paesaggi e dalla grande arte di cui il nostro mondo pullula. Sta a ciascuno di noi scegliere quotidianamente se accontentarci dell’acqua limpida e cristallina della superficie o sforzarci di scandagliare i fondali di quell’acqua profonda, intensa la cui bellezza non accarezza bensì colpisce, trasformandoci.

 

Elena Alberti

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Riflessioni sulla relatività del bello

Quando si pensa al concetto di bello, la prima domanda che viene da porsi è quella sulla diversità dei gusti e se esista o meno quello che i greci definivano to kalón, il bello assoluto.
Le esperienze estetiche provengono non solo dall’arte, ma anche dalla quotidianità – come tutte le volte che esprimiamo giudizi osservando semplicemente una persona, un oggetto o un fenomeno naturale – facendo sì che l’apprezzamento o la delusione diventino l’unico strumento di misura dell’esperienza appena fruita.

Ma quale parametro viene utilizzato affinché un giudizio di gusto possa ambire a divenire universalmente condiviso? E soprattutto, esiste davvero un modello perfetto di bellezza? Un’idea di bello platonico?
Se si pensa all’essere umano e al suo modo di giudicare i fenomeni, comprendiamo come egli si basi su un determinato modello di bellezza, che viene posto come ideale, per poi categorizzare oggetti e persone in base ad esso, fermo restando che tale idealizzazione sia inevitabilmente condizionata dalla cultura e dalla società. Esempi interessanti ci vengono dal mondo artistico, che per eccellenza risulta essere la culla delle esperienze estetiche: quando, ad esempio, a Parigi nel 1874 si tenne la prima esposizione delle nuove opere impressioniste, i fruitori la considerarono un’azione eversiva che poco aveva a che fare con le loro abitudini artistiche.
Come sappiamo, la pittura impressionista prendeva le distanze dal classicismo – e da quelle forme ideali e canoniche di bellezza – traendo spunto dal romanticismo e dal realismo che propendevano verso l’assoluta libertà dell’artista di esprimere le proprie emozioni.

L’arte rimanda a sua volta ad un altro tema concernente il giudizio estetico: il cambiamento nel corso dei secoli dei canoni di bellezza. Basti pensare a come si sia modificata nel tempo la visione del corpo di donna, che nelle rappresentazioni antiche veniva esaltato nella rotondità e generosità delle forme. Se oggi si pensa ad una donna “perfetta” non la si identificherà certo con la Venere del Botticelli o con la Maya desnuda di Goya, e questo perché sono visibilmente mutati i gusti della società e collettività. Il che porta a pensare alla labilità dei modelli che oggi i più inseguono per potersi omologare a ciò che viene ritenuto appunto “bello”.

Si pensi alle tendenze del momento dettate dai social network, in particolare da Instagram, e a quanto queste influenzino il gusto a livello universale, muovendo verso l’uniformazione delle personalità. Lo stesso accade anche per parte della musica di oggi, che tenta di cavalcare l’onda delle tendenze del momento. Tali brani musicali vengono chiaramente considerati “belli”, non perché lo siano realmente, ma per ciò che rappresentano all’interno della società, facendo appunto sentire i giovani più omologati. Lo stesso accade nel mondo dell’arte, in particolare quando si parla di mostre d’arte contemporanea o performativa, che espongono il più delle volte opere non propriamente belle ma ricche di concettualità; ed è proprio in favore di questa che molti considerano “belle” opere che di fatto non posseggono tale caratteristica.

Riflettendo su quanto detto, si è portati a pensare che il giudizio estetico collettivo si formi a partire da idealizzazioni primariamente soggettive, in quanto è necessario riconoscere la soggettività del gusto e dunque la sua relatività, cosa che ci potrebbe portare ad affermare che in qualche modo esista una sorta di “idea del bello” – che a differenza di quella platonica non si troverebbe in una dimensione iperuranica ma sarebbe frutto del gusto umano basato su esperienze fenomeniche. Contemporaneamente, ci si rende conto di quanto tali posizioni particolari, essendo solitamente influenzate da fattori esterni, vadano a formare un tipo di giudizio che potremmo definire universale.
Tuttavia, potremmo chiederci se tale universalizzazione di un determinato giudizio estetico conduca ad una definizione univoca e realistica di ciò che è bello. Secondo la famosa prospettiva di Kant ne La critica del giudizio (1790), i giudizi, per essere condivisi intersoggettivamente, non devono essere fondati su concetti ma devono svincolarsene.

Possiamo quindi affermare che il concetto di “bello” (ugualmente a quello di “brutto”) sia essenzialmente ambiguo, relativo e assolutamente mutevole nel tempo; ciò porta a concludere che tali concetti, non essendo liberi da condizionamenti esterni, rientrino nel campo del gusto personale, e che, come qualsiasi opinione, non stiano nella verità assoluta. Per questo, anche laddove venissero espressi giudizi di gusto negativi rispetto ad un qualsiasi fenomeno, persona, oggetto, opera d’arte è necessario ricordare che molto probabilmente un giorno ciò che attualmente viene considerato in un determinato modo potrebbe venir considerato nel modo opposto, a dimostrazione del fatto che non esistano il bello e il brutto assoluti.

 

Federica Parisi

 

[Photo credit Erol Ahmed via Unsplash]

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Marcello Ghilardi racconta il rapporto arte-natura in Giappone

Per me che ho approcciato la filosofia in un secondo momento rispetto agli anni dell’università, affrontare un tema senza mettere a confronto pensieri e schemi di pensiero differenti non può che impoverire gli orizzonti di significato che lo riguardano. Ecco perché nelle nostre riviste cartacee faccio il possibile affinché la tematica prescelta abbia anche interlocutori “altri” rispetto a quelli formatisi e “rimasti” entro una cultura di pensiero occidentale.

Nelle pagine della rivista #12 dedicata al tema del corpo ho avuto il piacere di confrontarmi con Marcello Ghilardi, professore associato di Estetica presso l’Università di Padova, i cui ambiti principali di ricerca sono l’alterità, il pensiero interculturale e l’estetica giapponese. In questo breve estratto dell’intervista viene trattato il tema dell’arte, naturalmente legato a quello della natura fino a quel momento discusso.

 

Marcello Ghilardi – Arte è un termine che noi usiamo per tradurre un binomio giapponese che è geijutsu 芸術 o geidō 芸道 , in quanto “Via (spirituale) delle arti” –  esso ha nel suo “radicale” (in questo caso, la parte in alto del primo carattere) della scrittura calligrafica il senso delle piante che crescono, come a dire che anche in questo caso nella sua costituzione fondamentale l’arte è qualcosa che cresce spontaneamente. Una volta ancora l’uomo è il mezzo con cui un dipinto si fa, una composizione floreale si fa, una poesia si compone e così via. Non c’è né uno sforzo mimetico-rappresentativo, né tradizionalmente (e qui intendiamo prima dell’incontro con l’Occidente) un’espressione dell’animo umano e della soggettività. Certo, ci sono esempi di componimenti e dipinti del paesaggio che sembrerebbero alludere a una interiorità che noi chiameremmo “soggettiva”, per esempio è vero che un bosco scosso dal vento ci può richiamare lo stato d’animo del pittore, tuttavia non è quella l’idea di fondo. L’arte raggiunge il suo apice quando l’artista, il pittore, il poeta, il danzatore e così via si fa luogo vuoto per l’accadimento di qualcosa che lo supera; si dispone alla ricezione di questa energia vitale, del soffio che prende forma in musica, in poesia, in pittura. È lo stesso ki [o qi in cinese è il soffio, l’energia vitale, ndR] che permea il paesaggio che diventa anche paesaggio dipinto, tanto che in cinese classico uno stesso carattere, xiang, può significare sia “fenomeno” che “immagine”. Il fenomeno e l’immagine del paesaggio dipinto quindi è xiang, mentre per noi occidentali c’è sempre stato il dibattito tra “cosa” e “immagine”, distinguendo nettamente l’immagine di qualcosa dalla cosa in sé. Il carattere cinese che noi traduciamo come “creazione” infatti sarebbe piuttosto “trasformazione” o “modificazione”, perché l’artista non è tanto un “creatore” ma un “modificatore” dell’energia, del ki.

Anche lo spettatore fa parte del flusso, è compreso nel sistema di circolazione energetica: quando leggo una poesia o ascolto una musica, nella mia interiorità, nel mio cuore/mente (xin), ricreo quell’energia, le do spazio. In entrambi i modi la circuitazione energetica continua a prodursi ed è così raggiunto l’apice dell’arte, ovvero la naturalità, ciò che accade in quanto assoluta spontaneità. Non la perfezione imitativa, dunque, e nemmeno la creazione di qualcosa di bello, tanto che proprio il termine “bello” come lo intendiamo noi nella lingua giapponese manca. Attraverso il gesto artistico del corpo l’uomo rinnova il flusso costante di energia e può incontrare l’accadere del mondo, sia facendola sia godendone.

 

L’intervista a Marcello Ghilardi continua nella rivista La chiave di Sophia #12 – I sentieri del corpo, in uscita il 22 giugno 2020.

 

Giorgia Favero

 

[Photo credits su unsplash.com]

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Io, corpo mostruoso. Perfezione e grottesco nell’arte e nella vita

Per anni mi sono sentita, e a tratti continuo a sentirmi, un corpo mostruoso.

Osservando le modelle, le pubblicità più o meno patinate e i film americani non posso far altro che sentirmi così, piccola e mostruosa in un mondo di gente perfetta. In passato ci pensava l’arte a proporci modelli di perfezione inarrivabile: dal canone policleteo alle Madonne medievali e poi le vergini rinascimentali, passando per le donne formose di Rubens e per contro poi il corpo snello Art Déco. Ma la cosa peggiore è che oggi la bellezza viene sbandierata come il frutto di un duro lavoro: “A lovely girl is an accident; a beautiful woman is an achievement” è lo slogan che Vogue ha lanciato addirittura negli anni Trenta e che ancora oggi ci annichilisce. Se non sei bello, insomma, è colpa tua e della tua pigrizia. Non puoi nemmeno mettertela via.

 

Si diventa un ibrido. Che però è anch’esso mostro. E si torna al punto di partenza.

orlan_la-chiave-di-sophiaÈ evidente che se la società ha da sempre ricercato la perfezione, come conseguenza ha anche da sempre scacciato i cosiddetti mostri, i “freaks”, gli altri-da-sé. Lo racconta già Mary Shelley quando scrive Frankenstein nel 1816: ciò che è diverso da noi è brutto e ci fa paura; per questo lottiamo così strenuamente per scacciarlo (a volte anche solo inconsapevolmente). Alterità e bruttezza vanno di pari passo e la loro conseguenza è la paura. Secondo il semiologo Jurij Lotman, infatti, l’Altro è ciò che irrompe negli schemi del consueto e che si colloca al di fuori delle funzioni chiare e consolidate, “costringendo” ogni società culturale a creare un proprio sistema di marginali. Eppure, quasi paradossalmente, sarebbe proprio questa interruzione degli schemi e della consuetudine a trasformare il nostro modello di appartenenza, a metterlo in moto, a renderlo dinamico. Il mostro, l’ibrido, l’Altro, avrebbe dunque una valenza del tutto positiva1, ci renderebbe in qualche modo migliori.

Un pensiero consolante.

Del resto, il nostro mondo è completamente multiforme, un’accozzaglia di aspetti, suoni, menti, ondate e risucchi di opinioni e di forme. Inutile uniformare, ancora più inutile uniformare sotto l’egida della perfezione. Un mondo incasinato, poi, non può che ispirare un’arte incasinata: ed ecco allora che la forma artistica sbriglia totalmente la fantasia sui corpi, nasce un groviglio di alterità e deformità esagerate che riempie l’arte. Il grottesco, da sempre resistito nella storia dell’arte, trovando espressione in meno note opere di artisti come Dürer e Raffaello e attraversando il Rococò, ha raggiunto anche le stampe di Odile Redon. Nel grottesco dell’arte oggi si superano i limiti della sessualità, si scardinano gli ideali di bellezza, mutano e si ridefiniscono le dinamiche di appartenenza, perché secondo il filosofo russo Michail Bachtin «il corpo grottesco è un corpo in divenire. Non è mai dato né definito: si costruisce e si crea continuamente, ed è esso che costruisce e crea un altro corpo»2.

jenny-saville_la-chiave-di-sophiaLe figure visionarie del Cremaster Cycle di Matthew Barney, le mutazioni genetiche di Patrizia Piccinini tra animale e umano, i corpi deformi di Jenny Saville, le creature di Karin Andersen, i personaggi silenziosi di Korzhev, ma anche i corpi menomati di Marc Quinn e i volti non-volti di Francis Bacon, che anelano a rivelare qualcosa che sembrava non potesse essere detto. Adesso si può dire tutto: tormento, esclusione e dolore possono essere espressi e possono diventare protagonisti di uno slancio di forza e di speranza, di accettazione.

Cerco allora di osservare questi corpi grotteschi dell’arte, di arrivare alla loro dignità espressa, all’essenza che emerge dall’apparenza, e tento di vedere in essi la mia immagine. L’immagine di chiunque si guardi e si veda sbagliato nel mondo dei perfetti. Penso che è nei mostri che pulsa la vita, che si nasconde la vera bellezza, che è insito il senso del nostro esistere. E che quindi forse, ma solo forse, sono quei corpi perfetti a essere profondamente imperfetti e che è nel “normale” a nascondersi ciò che dobbiamo tentare di evitare.

 

Giorgia Favero

NOTE
1 J. Lotman, La caccia alle streghe. Semiotica della paura, in Incidenti ed esplosioni, Aracne Editrice, 2010
2 M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare

[Immagine di copertina: un famoso frame dal Cremaster Cycle di Matthew Barney;
prima immagine interno articolo: l’artista Orlan (da notare le protesi sulle tempie);
seconda immagine interno articolo: opera di Jenny Saville.
Tutte le immagini sono tratte da Google Immagini]

 

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