Derrida e l’11 settembre. Il terrorismo come malattia autoimmune

L’11 settembre 2021 ricorrono i vent’anni dall’attentato alle Torri Gemelle, uno degli eventi più iconici e drammatici della nostra storia recente. Alle ore 8.45, circa, il primo aereo si schiantò contro la Torre Nord: in pochi minuti quelle immagini fecero il giro del mondo, che incredulo rimase a guardare col fiato sospeso. Tutti si ricordano cosa stessero facendo in quel momento e tutti pensarono più o meno alla stessa cosa, e cioè che era in atto un cambiamento irreversibile.

Per approfondire le implicazioni di questo evento, in particolare, e del fenomeno terrorismo in generale, la filosofa Giovanna Borradori, professoressa del Vassar Collage, intervistò due dei massimi pensatori contemporanei: Jürgen Habermas e Jacques Derrida. I due dialoghi sono stati raccolti nel libro Filosofia del terrore del 2003 e pubblicato in Italia da Laterza.

È proprio grazie a questo incontro che Derrida elaborò, in linea col suo stile suggestivo e simbolico, la definizione di terrorismo come malattia autoimmune. Un’affermazione a primo acchito provocatoria e inaccettabile; è come se il filosofo volesse sminuire questa tragedia e deresponsabilizzare, addirittura giustificare, gli attentatori. Ovviamente si tratta di un’analisi molto più profonda, ma certamente in contrasto con i luoghi comuni del dibattito pubblico post 11 settembre e con la retorica della War on Terror.
Con malattia autoimmune si intende una serie di patologie molto particolari che derivano da un’anomalia del sistema immunitario, il quale, trattandoli come agenti estranei, attacca alcuni tessuti sani del nostro organismo. In altre parole, Derrida ci dice che solo in apparenza il terrorista è un nemico esterno, non rappresenta l’atto di guerra di organizzazioni straniere, ma è il sintomo di una crisi intrinseca nel nostro sistema politico e geopolitico. 

Maurizio Cattelan

Maurizio Cattelan, “Blind”, Hangar Bicocca 2021

L’osservazione di Derrida si sofferma sul fatto che gli attentatori hanno utilizzato armi, tecnologie e tecniche tradizionalmente occidentali. Da dove hanno assimilato queste competenze? La risposta non lascia alibi: sono stati gli Stati Uniti che durante la guerra fredda hanno addestrato gli afgani per sottrarre quella regione al controllo dell’URSS. È stato dunque l’Occidente che, in prima battuta, ha preparato le basi per quello che si sarebbe concretizzato nell’11 settembre.
Perciò, secondo Derrida, questo avvenimento non può essere considerato una data storica; non inizia un’epoca nuova, ma si pone in continuità con quella precedente. Non può essere nemmeno definito un major event, ovvero un evento di importanza tale da segnare una generazione intera. Non è stato un avvenimento inaspettato e improvviso, non è stato un “terremoto culturale”, ma la diretta conseguenza di una catena di responsabilità chiaramente attribuibili. Non irrompe nella storia e, in senso arendtiano, non è portatore di novità.

A mio avviso, l’aspetto più interessante dell’analisi di Derrida è il fatto che essa sia una chiave interpretativa valida anche per fenomeni successivi all’11 settembre. Caso emblematico sono i due principali attacchi terroristici che hanno colpito Parigi nel 2015: l’attentato alla sede del periodico satirico Charlie Hebdo, avvenuto il 7 gennaio, e quello al Bataclan del 13 novembre. I fratelli Chérif e Saïd Kouachi, autori del primo attentato, erano nati a Parigi da una famiglia di origine algerina e all’epoca dei fatti avevano rispettivamente 32 e 34 anni. Il loro complice, Amedy Coulibaly, aveva 33 anni ed era nato in Francia da una famiglia originaria del Mali. Il secondo caso ha coinvolto una decina di attentatori, tra questi anche il ventiseienne Salah Abdeslam, nato in Belgio da una famiglia originaria del Marocco. Nelle foto che circolavano durante le ricerche si vede un ragazzo in jeans e giacca, con il gel tra i capelli pettinati all’indietro; un’immagine molto lontana dallo stereotipo di jihadista.

Questi quattro nomi sono quattro esempi di giovani uomini nati e cresciuti in Europa, membri della cosiddetta “seconda generazione” che, per vari motivi, si sono successivamente radicalizzati fino a diventare autori di stragi. Di fronte a questi casi l’allegoria del terrorismo come malattia autoimmune è ancora più evidente. Questi attentati nascondono il fallimento di un preciso sistema istituzionale e politico: la Francia post-coloniale e multiculturale non ha saputo prevedere e prevenire quello che sarebbe successo. 

La riflessione derridiana, per quanto efficace, è mancante almeno in un aspetto: la sua impostazione è prettamente analitica e non risulta capace di proporre soluzioni percorribili. La malattia diagnosticata è una crisi dell’intero Occidente, dalle cause profonde e dai sintomi a lungo termine, ma per quanto riguarda il dopo non viene detto nulla. Qui Derrida si ferma e implicitamente passa il testimone, per uscire dalla lunga degenza spetterà alle nuove generazioni trovare la cura.

 

Leonardo Rosa

Leonardo Rosa (1994) si è laureato in filosofia prima a Trento e poi presso l’Università degli Studi di Milano. I suoi principali settori di interesse sono la filosofia politica e il pensiero politico contemporaneo. Attualmente lavora come redattore e editor presso alcune case editrici. 

[Photo credit Aidan Bartos via Unsplash]

Nizza. La sofferenza e la domanda di senso

Io chiedo come può un uomo uccidere un suo fratello.[…]

Io chiedo quando sarà che l’uomo potrà imparare a vivere senza ammazzare

F. Guccini

Parigi, Bruxelles, Istanbul, Dacca, Nizza: la spada di Damocle del terrorismo incombe sulle nostre esistenze. Posti di fronte a questi tragici eventi, dai cuori piangenti e dalle menti pensanti sorgono forti e spontanee le domande che interpellano l’uomo dalla notte dei tempi. Lame affilate che squarciano “il velo di maya” della superficiale quotidianità. Perché il dolore? Perché il male? Perché la violenza? Perché la sofferenza? Interrogativi che assumono un contorno ancor più straziante e incomprensibile, quando è l’uomo stesso a uccidere l’altro uomo, a provocarne la morte e l’annientamento.

Tali domande si fanno largo fra le nostre vite, reclamano risposte concrete, interpellano le nostre coscienze. “L’umanità – scrive Salvatore Natoli – in tutta la sua storia è stata attanagliata dall’esperienza del dolore e ad essa ha voluto dare un senso, di essa, in qualche modo, ha tentato una giustificazione”.1

Al di là dell’inconsistenza di certe risposte, l’uomo si sente chiamato a dare un senso alla sofferenza, in mancanza del quale ogni cosa assumerebbe le grigie tinte del non senso, con la conseguente svalutazione di ogni valore umano. Il dolore è quanto di più proprio, peculiare, individuale possa darsi nella vita degli esseri umani, i quali non potrebbero vivere la sofferenza se in qualche modo non le attribuissero un senso. Scrive Natoli:

Il dolore […] si fa experimentum crucis, sottopone a prova l’individuo che lo vive e si erge a controprova del senso dell’esistenza. […] il dolore è un’esperienza a suo modo originaria. L’umanità, provata dal dolore, si cimenta con esso e tenta risposte: ora lo sublima, ora lo subisce, ora lo vanifica come apparenza, ora lo percepisce come ineluttabilità. Il dolore, come contrassegno di ciò che esiste, diviene allora occasione di prova e di giudizio per l’intero senso dell’esistenza.2

Come Natoli, anche Viktor Frankl ha l’indiscusso merito di aver posto al centro della sua riflessione filosofica e psicologica, il senso della sofferenza a partire dal dolore. La singolarità di quest’esperienza, la solitudine di ogni soffrire segna e in qualche modo anticipa la più peculiare e solitaria delle esperienze umane: la morte. Per questo, una fenomenologia della sofferenza è possibile solamente alla luce di una profonda e strenua ricerca del suo significato.

Di fronte a un destino tragico e ineludibile, l’uomo si coglie come una struttura ontologica attraversata dal male e dalla sofferenza. Si coglie, non più come homo sapiens o homo faber, ma come homo patiens. La sofferenza diviene concreta possibilità di significato. Frankl sostiene che, anche nella tragedia, ciascuno di noi può trovare un senso alla propria vita, proprio nella misura in cui sottrae creativamente spazi di dominio  alla sventura e alla sofferenza.

L’uomo, anche rispetto alle gravi sciagure di questi giorni, è posto di fronte ad una sfida: affrontare il male a testa alta o soccombere. Egli può imparare a soffrire solo se non rinuncia alla sua dignità e alla sua responsabilità di fronte alla vita e al dolore irreversibile. Frankl, nella baracca del lager, cerca di aiutare i propri compagni a riscoprire il senso della vita. Proprio lì, proprio all’inferno:

Parlai delle molte possibilità di dare un senso alla vita. Raccontai ai miei compagni […] che la vita ha sempre, in tutte le circostanze, un significato, e che quest’ultimo senso dell’essere comprende anche sofferenze, morte, miseria e malattie mortali. […] li pregai di mantenere il loro coraggio […] perché la nostra lotta senza via di scampo aveva un senso e una sua dignità. Dissi loro che in queste ore difficili qualcuno guardava dall’alto, con sguardo d’incoraggiamento, ciascuno di noi, e specialmente coloro che vivevano le ultime ore: un amico o una donna, un vivo o un morto – oppure Dio. E questo qualcuno s’attendeva di non essere deluso, che sapessimo soffrire e morire non da poveracci, ma con orgoglio!3

Il compito dell’uomo è dunque quello di contrastare e superare interiormente il dolore inevitabile che lo colpisce dall’esterno. Un vita contrassegnata dalla sofferenza, può essere inondata di senso quando il singolo trova una ragione di vita idonea a sopportare la sofferenza stessa. Scrive Frankl: “è possibile affrontare la sofferenza e coglierne tutta la portata significativa solo se si soffre per amore di qualcosa o di qualcuno. […] Una sofferenza ha senso quando è sofferenza ‘per amore di…’. Mentre la si accetta, non solo la si affronta ma, attraverso di essa, si ricerca qualcosa che non è ad essa identica: la si trascende”.4

Imparare a dare un senso alla sofferenza è un lungo e faticoso cammino che richiede la capacità di soffrire. L’uomo non possiede questa capacità “deve acquistarsela, deve guadagnarsela: se la deve soffrire”.5 Essa rientra fra le doti con un alto valore umano e spirituale. Può essere acquisita dal singolo a partire da una libera scelta interiore. La sofferenza diviene così occasione di maturazione psicologica per l’uomo. Una maturazione che conduce alla riscoperta della libertà interiore, la quale anche di fronte agli eventi più tragici rimane sempre libera di scegliere come disporsi dinnanzi agli eventi stessi. Proprio per questo Frankl sostiene che “l’uomo è libero di dominare – almeno – interiormente il proprio destino”.6 Forse, questa è l’unica possibile risposta costruttiva e positiva alle domande suscitate dalle immagini di morte e disperazione, che in queste ore scorrono sotto i nostri occhi attoniti.

Alessandro Tonon

Note

1 S. NATOLI, L’esperienza del dolore, Milano, Feltrinelli, 20105, pp. 12-13.

2 Ivi, pp. 8-13.

3 V. E. FRANKL, Uno psicologo nei lager, tr. it di N. Schmitz Sipos, Milano, Edizioni Ares, 200113, p. 138.

4 V. E. FRANKL, Homo patiens, tr. it. di E. Fizzotti, Brescia, Queriniana, 20012, p. 86.

5 Ivi, p. 77.

6 Ivi, p. 83.

Terrorismo del XXI secolo: un punto di vista fuori dal coro

<p>Attentati di Parigi, un punto di vista fuori dal coro</p>

Al diluvio generalista, qualunquista, razzista e guerrafondaio della gran parte degli internauti sugli attentati perpetrati dal terrorismo contemporaneo, pacatamente, rispondo: Davvero siamo convinti che bombardando a tappeto il mondo risolveremo qualcosa? Se non sbaglio la Germania nazista fu sconfitta a suon di bombe ma non per questo il nazismo, il razzismo e la xenofobia le abbiamo completamente depennate.

Ma siamo davvero convinti che sia l’Islam il problema? Che sia solo ed esclusivamente una religione a fomentare il terrorismo? Se fosse così, crediamo di essere da meno? Lasciamo perdere per una volta tutte le marachelle cristiane passate in giro per il mondo e concentriamoci sul presente: pensate davvero che cento, duecento, mille morti siano eventi più gravi di tutti gli scandali in cui Santa Chiesa Romana – se proprio vogliamo focalizzarci esclusivamente sulla religione quale veicolo di violenza e morte – è invischiata? Che nei primi il male sia gratuito, palese, violento e da condannare senza se e senza ma, non c’è dubbio, ma nei secondi, in noi bravi cristiani, il male mi sembra sottile, egoista e materialista e fa altrettanti morti e forse forse anche più danni sul lungo termine.

Come? Perché? Semplice, l’attico del Bertone, i festini e le chincaglierie e la droga dell’abate, tutte le imprese commerciali e le strategie finanziarie del Vaticano con quali soldi vengono portati avanti se non con quelli dell’8×1000? E questi soldi non dovrebbero andare ai bisognosi? Ai poveri? Agli affamati? Questi vedono arrivarsi uno anziché dieci per il loro sostentamento e non sappiamo nemmeno se quell’uno arrivi per davvero: pensiamo davvero che stiamo solo noi dalla parte illuminata della terra? Pensiamo davvero che semplicemente rubando, morti non ne facciamo in giro per il mondo? Forse non ci è dato saperlo, ma se tu, caro lettore, fossi povero e – che so – dello Zimbabwe e non hai un soldo seppure ti abbiamo promesso aiuto, e vieni a conoscenza di quanto sia stato utile il tuo denaro – donato dalla collettività tra l’altro – a rendere agevole la vita di un prelato o di chissà quale altro benpensante e benestante di turno, ebbene come reagiresti? Non dico che gli attentanti di Parigi siano l’effetto degli scandali vaticani, piuttosto sono l’effetto di politiche meschine, materialiste, guerrafondaie e accattone dal dopoguerra sino ad oggi. D’altronde, pensandoci, buona parte del terrorismo del XXI secolo fa leva proprio sull’immoralità della nostra società.

Pensiamo davvero che le bombe di una nazione democratica siano più morali di quelle di una nazione o di un gruppo o di un movimento antidemocratico? La verità è che non possiamo pensare di esportare i valori occidentali a suon di bombe, con gente armata fino ai denti, con la bandiera del nostro paese in un territorio straniero e con tutte le balorde contraddizioni che stanno via via venendo fuori dalla nostra opulenta società (vedi gli scandali vaticani, le bugie sulla guerra degli ex premier Tony Blair e G.W.Bush, l’incredibile inefficienza del sistema politico europeo e l’uso di grandi multinazionali per depredare, ancora oggi, paesi inermi e allo sbaraglio).

Il vero nocciolo della questione, a mio avviso, sta, nel contesto occidentale, nella perdita del valore dello spirito nell’uomo a causa dello smembramento e deterioramento della struttura che ne detiene il monopolio, ossia santa romana chiesa, mentre per quanto riguarda il contesto islamico, troviamo un innervamento di questo stesso spirito e di una sua fatale congiunzione con i mezzi tecnologici, economici e con le finalità politiche contemporanee. Alla stregua di quando il capitalismo prese piede in occidente, grazie al matrimonio tra economia e tecnologia con la vocazione spirituale (vedi Spirito del Capitalismo di Max Weber), oggi l’islam si ripropone fatalmente usato ed abusato per questioni squisitamente economiche, politiche e geopolitiche: come agli albori del sistema capitalistico, oggi un nuovo spirito si sta risvegliando e attraverso un’altra fede, non cristiana, ma pur sempre attraverso una fede, per vocazione. Vi è comunque una profonda differenza che ne determina l’azione e la portata di tale vocazione, di tale spirito, ossia la mancanza di una struttura centralizzata nell’Islam: ma questo è un altro, interessante, punto di partenza per analizzare quanto e in che misura si possa condannare in toto tutti i credenti musulmani.

Isis, Al Qaeda, repubbliche islamiche e quant’altro sta venendo alla ribalta in questi periodi non sono altro che i primi sintomi del risveglio dello spirito di un nuovo (profondamente morale quindi intollerante e spietato con chi tenta di sbarrargli la strada) concetto di società che sta trovando nei mezzi, nelle tecnologie e nell’immoralità del suo nemico l’humus ideale per potersi espandere, farsi ideale in una massa e in uno Stato e vocazione in un singolo individuo.

Signori miei, rassegnamoci, rimbocchiamoci le maniche perché la storia ci descrive – tutti! Occidentali e non – come bambini che vedono per la prima volta una presa elettrica e per puro esperimento, ci mettono due dita.

Cosa abbiamo imparato dalle due grandi guerre? Che ci ritrovammo con una rivoluzione industriale, con nuove tecnologie, combustibili, colonie, un gran numero di soldati e dei risentimenti da sfruttare e così ci inventammo due grandi guerre: distruggemmo l’Europa, buona parte dell’Asia e ci avviammo verso il disincanto da qualunque etica e morale. Perché? Perché come bambini testammo tutto il nostro nascente potenziale.

Mentre oggi ci ritroviamo dentro un mondo volutamente senza frontiere e laddove ancora resistono è facile eluderne i controlli. Abbiamo sofisticati mezzi di comunicazione che vanno oltre lo spazio ed il tempo, un sistema economico molto più feroce e geloso di qualunque sistema statale e politico mai visto sulla terra e così, come dei bambini, ci stiamo ritrovando nuovi giocattoli per le mani e per indole innata ne facciamo esperimento con un terrorismo a macchia di leopardo. Noi occidentali non siamo esenti dal terrorismo e a tal proposito vorrei ricordare quando fornimmo armi ed equipaggiamenti ai mujaheddin afghani o il sostegno ai terroristi nicaraguensi contras o i finanziamenti al sindacato polacco Solidarność; senza scrupoli e senza alcuna prospettiva futura applicammo la Dottrina Reagan e sostenemmo individui e gruppi ambigui per arginare l’egemonia sovietica.

Dai primi del novecento sino ad oggi, si sta sistematicamente smantellando il senso puro e netto della rivoluzione francese, della libertà, del sogno di un’umanità senza confini, dell’uguaglianza, della ragione e dello spirito di fratellanza. Il mio augurio è che ognuno nel suo piccolo faccia del suo meglio per impedire questo nuovo sfacelo, che mantenga a freno la propria emotività di fronte a simili atti di terrorismo e che si comporti da adulto, senza andar incontro ad un odio gratuito, di stampo eurocentrico e liberticida: Pensiamo al futuro.

Umanità, resisti!

Salvatore Musumarra