Tutto e niente

Nei giorni che ho passato tra le strade fotocopiate di Barcelona il mondo è impazzito, e mentre la guerra e il sangue rumoreggiano alle porte di casa, un morbo sottile si diffonde, l’epidemia si propaga dai telefoni e dalla musica campionata, dal cadavere tumefatto di una filosofia sempre derisa e messa alla berlina, una malattia che infetta un’umanità disinteressata, nervosa, inquieta e tesa come un elastico sul punto di spezzarsi. È il desiderio di prolungarsi e procrastinare, lo sbuffo annoiato che posticipa e rimanda a quel momento imprecisato in cui pensi che vorrai afferrare le redini della tua esistenza, in cui vorrai sacrificare te stesso per seguire il cammino dei figli, per lasciare il tuo contributo alla storia fortuita della vita, ma l’umanità è intossicata, avvelenata dal tumore del non volerci pensare più, del farsi distrarre ancora un po’, altri 5 minuti solo per vedere come finisce il sogno.

Eppure, in quella città spiaggiata, cocorite verdi continuano a volteggiare e cinguettare di palma in palma e da Montjuic l’azzurro del mare si stende ben oltre la proverbiale siepe di Leopardi: è sempre quello, sempre il tutto e il niente, il riempito e il vuoto che cozzano in eterno senza possibilità di soluzione, di compromesso, di sintesi edificante, l’essere che in questo cosmo amorale è sensato solo per volontà di chi lo vive nel mondo, il capire che è proprio là dove nulla dovrebbe esistere che ogni cosa può e deve accadere, questa è la grande risposta, la continua costrizione al voto e alla scelta, allo schierarsi e al suggellare la separazione, l’esser spronati a valutare se andare all’acquario di Barcelona sperando di vivere qualcosa di nuovo o restare al coffee shop sapendo che qualcosa di nuovo ormai non se ne vede da troppo tempo per essere anche solo ricordato. E nonostante tutto ciò, la risposta di questa filosofia non condanna nulla, perché ognuna delle due scelte concerne un bene e un male che sotto forma di conseguenze cooperano per dar vita e respiro al contesto vissuto. Ma esse cooperano, non possono chiedere al terzo poiché esso è quello che sceglie, non è quello che accontenta le parti con la diplomazia, ma colui che predilige una rispetto all’altra, che decide e condanna secondo i suoi propri criteri, come se fosse un giudice capriccioso e preferenziale.

Mi è facile credere che la mia permanenza sia stata tutta un’assurdità sfasata, un’allucinazione sconnessa che si è trascinata per inerzia attraverso una decina di giorni privi di una qualsiasi continuità temporale, un delirio pigro e lavativo che non si è lasciato nulla alle spalle, che non ha seminato alcunché per il futuro e che non prova rimorsi per il niente che ha perseguito. È la filosofia del tutto e del niente, del volere qualunque cosa e non andarsi a prendere nulla, dell’agire giusto mai sbilanciato, dell’ignavia e dell’impossibilità di ancorarsi a una posizione, del lasciarsi travolgere dalla marea della vita e del ridere spassionatamente galleggiando sulle sue acque, del disprezzo verso la responsabilità coatta e angosciante, verso l’etica del dovere e dell’obbligo mai voluto, è la filosofia che non vorrebbe dire alcuna parola perché ognuna è già stata detta, è la filosofia del comprendere universale e della globalità, la filosofia del cosmopolita, dell’internauta, del viaggiatore che pur di ascoltare voci nuove si getta nei più freddi meandri della nostra terra, è la filosofia del pensare al mondo come un immenso paese, è la filosofia dell’alzarsi ogni giorno dimenticandosi di quello precedente, dell’accettare che non si può sempre arrivare dove davvero si vuole, quello lo vogliono solo i bambini, è la filosofia che in sala ti si avvicina e tutta sconsolata ti sussurra che il film ha una visione troppo eccitante della vita, quel che viene omesso è in realtà ciò che occupa prepotentemente la nostra quotidianità, pensi davvero che un volo d’aereo duri qualche secondo di pellicola?, ma per piacere!, qui si parla di una filosofia che vede in Barcelona solo una Jesolo gigantesca comunque divertente da frequentare.

È una filosofia che non ti lascia andare a letto quando sei stanco, vuole che te ne freghi dei convenevoli, vuole che tu, che io, che noi, che voi corriate sotto la pioggia anche solo per noia e che poi vi asciughiate a casa lasciandovi deprimere dallo scroscio delle gocce, è la filosofia che trova una giustificazione al male e non se ne vergogna, è la filosofia che taglia le gambe e fa lo scalpo, che non ti guarda neanche se non le vai a genio, che ti molla un pugno ad ogni aspettativa espressa e poi ride bonaria quando vede il dente rotto perché tanto un giorno starai peggio, è la filosofia che scuote il capo rassegnata e ti dice di lasciar perdere, ma che poi ti esorta di nuovo a volere ogni cosa, a voler vedere, sapere, esperire tutto ciò che questa gabbia di fango sa offrire. E se la tua, la mia, la nostra, la vostra scelta ricadrà sul proprio volere, bene, perfetto, sarà giusto così, non vi sono obblighi verso sé stessi, l’uomo non vuole ciò che deve, ma deve ciò che vuole. Lascia che sia questa filosofia senza ossatura a guidarti!, ti mostrerà il mondo intero senza mai farti muovere dal punto in cui ti trovi meglio.

Leonardo Albano

[Immagine tratta da Google Immagini]

+HUMANS A Barcellona in mostra il futuro (possibile) della nostra specie.

La bioingegneria creerà una nuova razza umana? Che superpotere ti piacerebbe avere? La realtà virtuale sarà la nuova realtà? La longevità: un’aspirazione magnifica o una minaccia terribile per il pianeta?

Queste e altre domande accompagnano lo spettatore lungo le varie sezioni dell’esposizione +HUMANS (mès humans in catalano, più che umani), sottotitolo El futur de la nostra espècie, già da ottobre in scena al CCCB, il centro culturale della città di Barcellona, nel quartiere del Raval, e che rimarrà aperta fino al 10 Aprile. Non rimane molto tempo certo, ma se si ha in programma un weekend nella capitale catalana vale una visita. Questa però non vuole essere una recensione o non solo, perché questa non è arte, o non solo. Infatti la mostra prende le mosse da un’ esigenza trascendente l’arte e si inserisce in un discorso sempre più sfaccettato e ampio: il rapporto prossimo venturo (e ovviamente contemporaneo) degli uomini con la tecnologia, ma si potrebbe dire tecnica.
Ecco allora che grazie alle opere di più cinquanta artisti, molte interattive (una su tutte da provare la camera rallentata), e con alcuni laboratori per adulti e bambini, il visitatore si trova immerso per un paio d’ore in tantissimi scenari futuribili, in cui ogni opera cerca di rispondere alle domande di cui sopra o di porne della altre; ma tutte ruotano intorno a una riflessione: saremo umani nel futuro? E lo siamo ancora o non lo siamo già più grazie o per colpa di tutti i dispositivi che oggi utilizziamo giornalmente e che ci fungono da prolunga e proiezione del nostro essere uomini.

Nel complesso sono vari gli obiettivi che un’esposizione del genere si pone: informare certamente sulle nuove trovate e possibilità delle scienze, dalla medicina alla chirurgia estetica, all’ingegneria biomedica.
La prima sala si concentra sugli strumenti che l’uomo (praticamente da sempre) ha creato per adattarsi al mondo circostante e sopperire alle sue carenze. Questa sezione va dalle ali di Icaro e varie macchine per volare al mondo delle protesi e agli strumenti per aumentare i nostri sensi (c’è un apparecchio che simula l’udito dei pipistrelli) e le nostre capacità, in cui campeggia la domanda fondamentale: dalle lenti al pacemaker, siamo già tutti dei cyborg?
E poi naturalmente c’è l’intento di provocare: un’intera parete è costellata di teschi bionici i cui occhi sensibili al movimento umano seguono incessantemente chi gli si avvicina. Menzione speciale anche per le opere di Neil Harbisson, artista che si autoproclama cyborg e lotta per i diritti di questi, fino alla bellissima e sorprendente trovata del progetto (tra scherzo e realtà) di una montagna russa eutanasica con cui mettere fine ai propri giorni per ipossia, in modo molto adrenalinico e con un ultimo istante di piacere. Lascia abbastanza straniti anche la sezione riguardante il sesso e la riproduzione, che mostra come sia già in commercio un test che permette di calcolare il livello di compatibilità tra due individui grazie alla comparazione dei loro DNA, e determinando quindi se siano adatti o meno alla formazione di una coppia e di una famiglia, sconcertante, ma tutto vero. Inoltre il romanticismo sembra giunto veramente ad un punto di non ritorno se si guardano i congegni messi in commercio da un’azienda americana, con cui avere rapporti sessuali a distanza, via internet, con un partner.

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I grandi temi etici che ci mettono di fronte la tecnologia e la medicina, come eugenetica, fecondazione assistita, eutanasia, realtà aumentata, ci sono tutti, e ci vengono presentati senza alcun timore reverenziale e scavalcando molti tabù.
Come a dire che nessun invenzione o nuova tecnica è di per sé sbagliata e che qualcosa che oggi troviamo difficilmente concepibile tra cinquanta o cent’anni potrebbe salvare la specie, o esserne motivo di distruzione ovviamente. Il problema è nell’uso che se ne vuole fare. Lo spettatore è lasciato da solo a giudicare, ponderare e farsi un’idea.
Si oscilla continuamente e sapientemente tra scenari possibili e provocazioni che mettono a volte a dura prova il senso comune e l’etica consolidata, come l’artista che prospetta una migliore vita sulla Terra se l’uomo riuscisse a regredire fino ai 50 centimetri di altezza, consumando di conseguenza molta meno energia, in un certo senso una decrescita felice; oppure quando il visitatore viene messo al corrente che oltre a vegetariani e vegani esistono i breathariani, sedicente setta che crede di poter sopravvivere solamente grazie al nutrimento fornito da aria e sole. O ancora molto inquietanti sono le proposte di modificazioni estetico-funzionali da attuare su neonati nel primo loro periodo di vita.

Centrale è poi il tema della meccanizzazione della forza lavoro e della vita in generale, ben rappresentato, tra gli altri, dal braccio bionico che fa dondolare una culla: i robot entreranno sempre di più nelle nostre vite?
La mostra si conclude con il problema della longevità e della morte. Una cassa da morto che recupera l’energia chimica generata dalla materia in decomposizione e la convoglia in una batteria può essere un’idea, ma vengono anche toccati i rapporti sociali e familiari. Arrivare a vivere 150 anni cambierebbe il concetto di famiglia e generazione? Certamente si, le famiglie sarebbero più estese che mai e i rapporti parentali molto diversi e persino ironici, lo spiega un divertente album fotografico e un possibile albero genealogico.

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La mostra è complessa, anche se ben ripartita, e riesce a stupire e a volte a scioccare. Non sembra casuale che un’esposizione del genere abbia trovato casa a Barcellona, città che come poche riesce a coniugare passato e futuro, dal lato architettonico a quello delle nuove tendenze, sempre attenta all’innovazione tecnologica, dato che è anche la sede del Mobile World Congress, appena terminato e tanto discusso. Ne si esce con più dubbi che risposte, ma con tantissimi spunti di riflessione e con la convinzione che la strada che imboccheremo nel futuro più prossimo sia decisiva per determinare chi saremo e dove andremo, come uomini.

Tommaso Meo

[Copertina tratta da manifesto; immagini tratte da Google Immagini]

È tutto un caso. È tutto assurdo. È tutto adesso.

Io ne ho presi cento di quei Germanwings. Prenotavo sempre la prima fila. Vicino al finestrino. Che stai più larga, che ti portano un panino freddo e un pezzo di cioccolata, che ti godi il panorama. L’Italia. Le Alpi. E poi il Lago di Costanza. Che ti dice che ormai è fatta. Allora ti alzi, vai in bagno, ti dai una pettinata, una ritoccata al trucco. Pronta per riallacciare le cinture, atterrare, slacciartele proprio mentre ti stanno chiedendo di aspettare prima il segnale, accendere il cellulare, scrivere “sono qui” e finalmente buttarti tra le braccia di chi ti sta aspettando all’aeroporto.
Non c’è necessità di usare frasi di circostanza. La parola tragedia sembra ridicola. Tutto sembra ridicolo. Tutto lo è.
È tutto assurdo. È tutto un caso. È tutto adesso.

Aprire il sito. E davvero non avere più parole. Ma solo preghiere.

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Donatella Di Lieto

[Le opinioni espresse sono a carattere strettamente personale / Views are my own]