L’arte dell’ascolto. Intervista a Nuria Schönberg Nono

La signora Nuria Schönberg Nono è la figlia di Arnold Schönberg, uno dei più rivoluzionari compositori del secolo scorso, e moglie di Luigi Nono, anch’egli compositore e protagonista di un’intensa stagione culturale veneziana e italiana. Per entrambi, pur in modi diversi, il termine “artista” risulta troppo limitato.

Tuttavia vorrei che il suo biglietto da visita per chi non la conoscesse non fosse costituito dai meri dati anagrafici per quanto eccezionali, ma dalla tenacia con cui si dedica alla direzione del centro Schönberg a Vienna e della fondazione Nono a Venezia, dall’orgoglio con cui conduce le visite, dalla sincerità con cui mi dice prima di iniziare “Se non so cosa rispondere semplicemente ti dico che non so” e dalla passione che la accompagna e la guida.

 

Essendo emigrata negli Stati Uniti a solo un anno, Lei non ha vissuto l’esperienza di spaesamento e perdita della lingua materna raccontata da molti ebrei profughi durante la seconda guerra mondiale, come ad esempio Hannah Arendt. I suoi genitori invece?

Io sono nata a Barcellona, ho trascorso un anno a Berlino, ma presto ci siamo dovuti trasferire a Los Angeles [per la salita la potere del partito nazista, ndr]. I miei genitori non mi hanno raccontato molto, mio padre era un uomo che viveva nel presente ed era sempre proteso verso il futuro, non amava piangersi addosso, in ciò era diverso da tanti altri.

Oltre a ciò si aggiunge la ristrettezza del clima culturale americano di quegli anni, che rapporti c’erano tra suo padre e altri illustri emigrati come ad esempio Adorno e Mann?

Non era una vera e propria comunità: Thomas Mann, Brecht, erano grandi personaggi, ma non ci si incontrava spesso. Quando lo si faceva era principalmente per motivi pratici, come dare una mano ad altri ebrei a fuggire dall’Europa. Non erano amici che si trovavano per cena.
Si parla (a proposito) della Weimar di Los Angeles, ma per lo più la si è romanzata. Non so neanche come fosse Weimar, spesso questi luoghi sono stati mitizzati. Molto amici di famiglia erano invece Alma Mahler e suo marito Franz Werfel.

Nel ‘54 conosce Luigi Nono e inizia la seconda fase della sua vita, come ha detto lei stessa. Una seconda fase segnata da impegno politico e artistico.

Ho conosciuto Luigi ad Amburgo nel 1954, alla prima esecuzione di Mose e Aronne, e l’ho rivisto qualche settimana dopo a Roma al festival di musica contemporanea. I dieci giorni successivi li abbiamo passati assieme: mi ha mostrato la città, i monumenti, i musei.

Un po’ come in Vacanze romane?

Sì, tutto quel primo periodo è stato proprio come un film. Poi sono tornata in America e ci siamo sentiti per un anno. Nel 1955 ci siamo sposati.

A questo punto inizia la fase di impegno politico.

Prima di arrivare in Italia avevo una mentalità tipicamente americana. I miei genitori non avevano un’avversione viscerale verso il comunismo come la maggior parte degli americani. Per farle un esempio mio marito mi scriveva lettere dall’Italia con la penna rossa e alcuni amici americani si scandalizzavano per questa cosa.

Quando ho visto cosa faceva il partito comunista qui in Giudecca ho deciso che volevo unirmi a loro. La Giudecca allora era un’isola di operai, c’erano molte fabbriche. Le strade non erano pavimentate, ogni anno c’erano casi di epatite tra i bambini e le scuole dovevano chiudere, non c’erano farmacie, né asili nido. Abbiamo lottato per avere tutto questo. Inizialmente facevo attività di informazione, come per il referendum sul divorzio, senza essere ancora iscritta al partito. Alcune donne erano contrarie al divorzio perché avevano paura di essere abbandonate dai mariti. Per l’aborto invece erano tutte a favore, perché comunque spesso lo praticavano in condizioni pessime.

Mi iscrissi al partito comunista dopo un soggiorno in America latina. In Perù Gigi venne arrestato, io ero in hotel con le bambine, lo avevano portato via perché aveva parlato male della Guardia Civil. All’epoca ti prendevano, ti portavano in campagna e ti fucilavano. Poi semplicemente dicevano che eri fuggito. Io sono dovuta andare in ambasciata e per fortuna c’era un bravo ambasciatore. Dovevo trovare un aereo di ritorno quanto prima, ma quel giorno sembrava impossibile. Prima Gigi venne trattenuto dalla polizia politica, ma dopo ventiquattrore doveva essere consegnato a Guardia Civil e allora non sarebbe andata molto bene. Era un momento in cui l’intero Sud America era in fermento, erano gli anni dei viaggi in motocicletta di Che Guevara e delle rivoluzioni. La situazione alla fine si è risolta. Gigi di ritorno da quel viaggio mi disse che mi ero dimostrata una vera compagna, così decisi di iscrivermi al partito.

Di Venezia Nietzsche ebbe a dire: «dovessi cercare una parola che sostituisca “musica” potrei pensare soltanto a Venezia». Quale fu il rapporto di suo marito con Venezia, che ruolo gioca nella sua musica?

Venezia ha avuto di certo un ruolo importante nella sua arte. Anche suo nonno era un artista, un pittore. Gigi si interessava di tutto. Era amico di Carlo Scarpa e del figlio Tobia, così come di Emilio Vedova.

In quegli anni Venezia era una città molto artistica, grazie alla Biennale era possibile vedere cosa stava succedendo a livello artistico nel mondo. Da parte di Gigi c’era un sentimento molto forte di appartenenza a Venezia – lo stesso che prova ogni veneziano. Era molto attento ai suoni e i rumori della città, dalle campane alle onde.

Inizialmente ebbe molto successo all’estero e in particolare in Germania, a differenza che in Italia, dove ci mise più tempo ad affermarsi, quindi era spesso là, ma appena poteva amava tornare a Venezia.

Il desiderio forte di un’arte che coinvolgesse le persone senza essere di massa è stato condiviso anche da suo marito. Mentre oggi la scissione arte/intrattenimento si fa sempre più netta. Cosa pensa Lei dello stato delle cose sotto questo riguardo? Cosa ne pensava e cosa ne penserebbe oggi suo marito?

Non è che pensasse di poter cambiare il mondo con la sua musica o che tutti dovessero ascoltarla. Nelle sue composizioni con testo, si parla di problemi sociali e di situazioni difficili nel mondo. Ad esempio nella fabbrica illuminata vengono descritte le condizioni terribili del lavoro che vi avviene all’interno. Lui pensava che il suo pubblico potesse essere anche composto di operai (o di altri) se si impegnavano all’ascolto. Ascoltare è una parola centrale dell’opera di Gigi. Forse è, tra tutte, la parola più importante nella sua vita. Ascolto che è ascolto degli altri quando parlano, così come ascolto di ciò che succede nel mondo, ascolto della musica. Non c’è bisogno di analisi o di conoscenze specifiche: il messaggio della musica può arrivarti a chiunque solo ascoltandola.

Per quanto mi riguarda penso che oggi ci siano segnali che vanno (anche) in direzione di tempi migliori. Vengono studenti di liceo a vedere l’archivio, io cerco di far capire l’entusiasmo e l’emozione che si può trovare in questi lavori, e ciò ha un enorme effetto su questi ragazzi. Inizio sempre così: “i vostri insegnanti vi avranno detto che Nono era impegnato politicamente, ma cosa può significare per voi in un mondo politico fatto da Berlusconi e altri?”. All’epoca la politica era fatta da persone che si potevano rispettare, che erano mosse da ideali e non solo desiderio di potere e di denaro. Gigi voleva mostrare le cose orribili che succedevano nel mondo, voleva che tutti ne fossero consapevoli. Le malattie che potevi prendere in fabbrica o la crudeltà di una dittatura. Però alla fine di ogni composizione c’è una affermazione di speranza. Io lo dicevo ai ragazzi qui in visita. I ragazzi non hanno bisogno di conoscere lo sfondo, la musica è immediata.

Come nasce l’idea della fondazione Nono?

Per dirigere questo progetto avevo esperienza sufficiente maturata a Vienna e ho anche avuto l’aiuto di molti amici musicologi. Il materiale era molto, casa mia era colma di libri; qui conserviamo 13 mila libri, manoscritti e lavori preparatori. Solo per il Prometeo abbiamo 14 scatole di schizzi preparatori. C’era la necessità di trovare un posto adatto per conservare tutto questo.

Non c’è stato molto sostegno da parte delle istituzioni: prima ci aiutava il Comune ma sono già quattro o cinque anni che non lo fa più. Alcuni ministeri ci hanno aiutato così come la Regione, ma negli ultimi tempi i finanziamenti continuano a diminuire. Io e le mie figlie sosteniamo da tempo almeno la metà della spesa per l’archivio e stiamo cercando per questo di organizzare una raccolta di fondi.

Padre, marito e figlia sono tutti artisti affermati: si può dire che sia un’arte silenziosa avere a che fare con tutti questi artisti?

È bellissimo, mi ritengo molto fortunata. Queste persone hanno una sensibilità molto particolare e un’umanità molto forte, il senso dell’umorismo, la creatività. A volte viverci vicino può essere difficile, hanno momenti di raccoglimento in sé stessi. In fin dei conti però mi ritengo molto fortunata.

 

La fondazione Nono si trova in Giudecca, vicino all’imbarcadero di Palanca. Trovate tutte le informazioni utili a questo link. Ringrazio Nuria Schönberg Nono per l’intervista.

Francesco Fanti Rovetta

 

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Siamo noi il cambiamento

Oggi è un giorno come tanti altri, un giorno in cui, tramite vari canali di comunicazione, mi è giunta all’orecchio una notizia orribile e disarmante. Ormai al mattino ci svegliamo e subito ci raggiunge l’eco di un orrore perpetratosi in qualche parte del mondo prima ancora di sederci al tavolo della colazione.
Molte volte mi sono detta “Non parlare di queste cose”: ho l’impressione che se ne dica sempre troppo e che invece ci raccogliamo in rispettoso silenzio sempre meno. Però queste notizie ci smuovono completamente dentro, fanno nascere in noi ogni volta un turbinio di pensieri e ne soffriamo – ci toccano da vicino. L’indifferenza totale è impossibile, anche la loro stessa quantità, in realtà, ci cambia. E quindi io sento il bisogno di lanciare un qualche messaggio positivo in mezzo alla catastrofe.

Cominciamo dalla terribile e terribilmente ovvia verità: ogni giorno, in ogni minuto, da qualche parte del mondo è in corso una guerra, c’è un attacco terroristico, delle persone vengono orribilmente sfruttate, dei bambini vengono privati della loro innocenza, tonnellate di cibo oggetti e risorse vengono sprecate e distrutte, degli animali soffrono e soccombono sotto l’implacabile, sconvolgente noncuranza dell’uomo, il Portatore di Distruzione che non guarda in faccia nessuno.
Di fronte a tutto ciò, qualcuno si rifugia nella fede: Dio ci salverà, Allah provvederà, tutto ha una spiegazione nel disegno provvidenziale; altri invece la fede la perdono, e guardano piuttosto ai potenti non-divini, i grandi magnati, i politici, i quali però rispondono con infinite parole, infinitamente retoriche – e non è nemmeno colpa loro, perché come si può dire qualcosa di veramente utile oltre all’ovvio? L’unica risposta sarebbe l’azione: dovrebbero fare qualcosa, mettersi d’accordo, decidere che ormai davvero basta, che davvero siamo al limite, che davvero ci stiamo autodistruggendo. Sanno di dover fare ma non riescono a fare molto. E noi raccogliamo la nostra frustrazione. A chi rivolgersi, a questo punto?

Risposta: a noi stessi. Basta cercare scuse, basta guardare altrove. Pensiamo di non fare la differenza? Eppure il mondo è fatto di persone, perciò se ciascuno facesse quello che può, secondo la sua coscienza ed i suoi mezzi…
È un po’ come andare a votare: non è che siccome il mio voto è solo uno devo smettere di usarlo, pensando che non serva a niente. Certo, questa faccenda è un po’ più complicata rispetto al porre una croce su di un foglio: decidere di agire in prima persona per migliorare prima di tutto noi stessi e di conseguenza anche il mondo, comporta un po’ di fatica. Innanzitutto, bisogna informarsi: qui e oggi abbiamo a disposizione ogni mezzo di comunicazione e di informazione possibile e immaginabile, tutte le notizie e verità del mondo nel palmo di una mano, dunque è nostro dovere (se non altro morale) non sprecare questa gigantesca opportunità. In seconda battuta, si analizza la situazione: “Che cosa posso fare io nel mio piccolo?”. Trovata la prima risposta la si mette in pratica, sopportando una fatica mentale (devo farlo, devo pensare che è davvero utile farlo) e anche fisica (cambiare le proprie abitudini e stili di vita). Poi arriva la soddisfazione: non ho aspettato che il cambiamento piombasse dal cielo (o dalla politica), sono io il cambiamento. Sto facendo qualcosa di buono. E sei così contento che ricominci il processo: “Cos’altro posso fare io nel mio piccolo?”.

«Sii tu il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo»¹.

Non so se ciascuno di noi nasca con uno scopo preciso (è una delle cose che continuo a chiedermi), però penso che veniamo tutti al mondo per perseguire lo stesso obiettivo morale. «Ama il tuo prossimo come te stesso»², «Nessuno di voi è un credente fino a quando non desidera per il suo fratello quello che desidera per se stesso»³, «Quello che tu stesso non desideri, non farlo neppure agli altri uomini»: ce lo insegnano le religioni, nonché le istituzioni, ma anche il buonsenso. Solo che dobbiamo ampliare il raggio d’azione agli sconosciuti, agli animali, al mondo naturale, al pianeta intero. Ogni giorno. Nel nostro piccolo. Perché in questo caso, anche non fare è un’azione (non evitare lo spreco, non difendere un’offesa, voltarsi dall’altra parte…), e comporta delle conseguenze.

«If you want to make the world a better place, take a look at yourself and make that change».

Tutti noi – possiamo – fare – qualcosa. Mettiamocelo in testa. Basta scuse. Basta frustrazione. Seminiamo positività, comprensione, coraggio; seminiamo amore. Insegniamoci l’un l’altro a non odiarci, che è sbagliato farci del male vicendevolmente. Non smettiamo di aggrapparci alla nostra umanità. Non cerchiamo risposte altrove – le risposte sono dentro di noi.

«Ero intelligente e volevo cambiare il mondo, ora sono saggio e voglio cambiare me stesso».

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1. Frase attribuita al Mahatma Gandhi;
2. Cristianesimo ed ebraismo (Levitico 19,18);
3. Islam (Hadith 13);
4. Confucianesimo (Dialoghi 15,23). Potrebbe sorprendervi sapere quanti testi sacri e di quante religioni riportano lo stesso concetto con parole più o meno diverse;
5. Michael Jackson – Man in the mirror : sì, se ne parla anche nella musica pop!;
6. Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama.

 

[Immagine tratta da Google Immagini]