“Grazie ragazzi”: nell’attesa di Beckett uno slancio di vita

Un lavoro, un/a compagno/a di vita, una vacanza, la laurea o il diploma, un’uscita con gli amici, un aumento in busta paga, un figlio, la concessione del mutuo, l’inizio di una nuova attività, un abbraccio o un bacio, il Natale, un successo sportivo, una risposta, la fine di qualcosa, la guarigione, la morte, la vita. Passiamo la nostra esistenza ad aspettare – o meglio, forse, sono tante le cose che attendiamo giorno per giorno, a volte in modo ossessivo, a volte vano. Nessuno meglio dei prìncipi dell’attesa della cultura occidentale può raccontarcelo: Estragone e Vladimiro, protagonisti (presenti) del capolavoro di Samuel Beckett Aspettando Godot (1952), le cui riflessioni apparentemente (o veramente) senza senso continuano ancora oggi a pungolarci.

Siamo nel teatro dell’assurdo, una scenografia scarna con pochi personaggi sul palco che non fanno altro che aspettare questo signor Godot, sulla cui identità – fuori dalla sceneggiatura – da decenni ormai le teorie si sprecano – Dio? Impersonificazione della fortuna? Della morte? –, liquidate tutte fin da subito da Beckett stesso che diceva che non sapeva neanche lui chi fosse Godot. Ed è forse proprio questo il punto che rende l’opera così universale.

Di recente se n’è appropriato anche il cinema italiano con Grazie ragazzi di Riccardo Milani (2023), uscito nelle sale da poche settimane e trasposizione dell’originale francese che racconta la storia vera di un attore svedese. La storia di un gruppo di detenuti al quale viene proposto un laboratorio di teatro per mettere in scena proprio l’opera di Beckett. Chi del resto meglio dei carcerati – vuole convincerci l’attore-insegnante di teatro Antonio Albanese – può interpretare al meglio l’attesa continua? L’attesa “del pasto, dei colloqui, dell’ora d’aria, del giorno dopo”, ma soprattutto del giorno della libertà, la madre di tutte le attese.

E così quattro uomini tra loro assai diversi vestono i panni dei quattro principali personaggi di Beckett, mettendo in scena quei dialoghi magistralmente assurdi proferiti per ingannare l’attesa – o meglio proprio perché ne sono intrappolati. Su quel palco l’esistenza perde e riassume valoreCi suicidiamo oggi o domani?», e poi «Troviamo sempre qualcosa, vero, Didi, per darci l’impressione di esistere?»), si alternano momenti di calma e di tensione, d’ilarità e di rabbia, ritorna puntualmente il tema della memoria: «Sono infelice», «Ma no! Da quando?», «Me n’ero dimenticato», «Sono scherzi che ci fa la memoria». I personaggi dimenticano cos’hanno fatto ieri, non sanno se ricorderanno domani cos’hanno fatto oggi («non ricordo di aver incontrato nessuno, ieri. Ma domani non ricorderò di aver incontrato nessuno oggi»), addirittura si dimenticano quello che stanno facendo, cioè aspettare Godot («Che facciamo adesso?», «Aspettiamo Godot.», «Già, è vero»). Presi talvolta da un’apatia di vita, ogni giorno è sempre uguale nell’attesa.

Così in carcere. In una commedia che strappa più di una risata, Grazie ragazzi ci ricorda il potere salvifico dell’arte, la sua capacità di fare breccia nelle mura dell’isolamento, di un’arroganza e menefreghismo costruiti, riportandoci lì dove vogliamo stare, nelle relazioni autentiche e nella bellezza della vita; l’arte che prova a darci una seconda chance o che semplicemente allevia le nostre sofferenze, ci apre una prospettiva nuova. Però ci fa rivalutare anche il sapore del sole sul viso e di un orizzonte ampio, la possibilità di aprire qualsiasi porta e di andare dove vogliamo: in altre parole, della libertà. Una libertà a volte davvero molto fragile e che quando negata ci rinchiude in questo vortice d’attesa. Il film non indugia nel raccontarci perché Damiano, Mignolo, Diego e Radu (con l’unica eccezione di Aziz) sono in carcere, affinché il nostro giudizio possa andare oltre l’evidente fatto, seppur non trascurabile, che hanno compiuto un gesto illegale, inducendoci a non trascurare nemmeno l’umanità che resta al di là delle azioni. Un’umanità nella quale possiamo ancora a sentirci fratelli. Scevro da pietismo e buonismo, il monologo finale di Albanese vuole parlarci dritti al cuore proprio per non lasciarci inermi di fronte allo scorrere del tempo e della vita, e per non voltare lo sguardo lontano dalle tragedie dell’esistenza e della società, arroccati nel pregiudizio. Soprattutto in vista della conclusione del film, un po’ amara ma reale, svincolata dagli happy ending da commedia per restare aderente alla storia originale e anche a un senso di giustizia terrena.

Qualcosa di particolarmente importante però ci distingue da Estragone e Vladimiro e dagli inaspettati attori del film di Milani, ed è questo: loro restano e noi ci muoviamo. Il duo di Beckett rimane accanto all’albero, immobile, mentre noi sfogliamo l’ultima pagina e chiudiamo il libro; Diego, Damiano, Aziz, Radu e Mignolo (attenzione, spoiler!) tornano in carcere mentre noi ci alziamo dalla nostra poltrona comoda e usciamo dalla sala. Abbiamo la nostra occasione di raccogliere tutte le riflessioni del caso e andarcene, farne qualcosa, non vanificare attese e speranze. Inseguendo con rinnovata grinta Godot, oppure lasciandolo finalmente andare.

 

Giorgia Favero

 

[photo credit Felix Mooneeram via Unsplash]

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Nuovi Eden, o di un’estetica dell’attesa

Da studenti di architettura una delle questioni che più si sente ripetere è quella del significato più proprio del progettare: l’architetto non è colui che costruisce ma è colui che indica come farlo. Per questo “progetta”, ovvero pro-iecta cose future (dal latino: pro-iectum, “gettare avanti”). A parer mio l’implicazione più importante del significato etimologico del pro-iectum è che l’architetto è colui il quale, innanzitutto, sa pazientare. In primo luogo, pro-gettare significa dare importanza all’attesa, e la variabile di cui troppo spesso ci si dimentica è il tempo. Difatti, se lancio qualcosa di fronte a me devo come minimo poi darmi il tempo di percorrere lo spazio che ora mi distanzia da essa. La vera implicazione del latinismo in questione è che il progetto è una questione temporale. Il progetto è tempo dell’attesa.

Una delle riflessioni recenti più interessanti a riguardo la fa Byung-Chul Han che, parlando di giardini, afferma: «Rifletto sulla mano del giardiniere. […] È una mano che […] attende, una mano paziente. […] Guarda in lontananza» (B.C. Han, Elogio della terra, 2022).
La mano del giardiniere non ci sembra quindi molto diversa da quella dell’architetto: entrambe sono mani che “guardano in lontananza” e, nel farlo, pazientano. O così dovrebbero. Invece, spesso al giorno d’oggi si guarda al progetto solamente con gli occhi del presente. Il “gettato avanti” del pro-iectum diventa così qualcosa che ci cade sui piedi. Il “tutto-e-subito” è un mantra all’interno dell’odierna società della prestazione, che Han definisce stanca (cfr. B.C. Han, La società della stanchezza, 2010). Siamo troppo stanchi per “gettare avanti”.
Una nuova tendenza si sta però delineando. Date le premesse del riscaldamento globale e dell’avvenuto salto qualitativo nelle sensibilità ambientale ed ecosistemica, l’architettura odierna cerca salvezza. Basti pensare ai progetti per il Porto Vecchio di Trieste di Alfonso Femia (2022), a quello di ingente piantumazione lungo il Boulevard Périphérique di Parigi (2022), alla Liuzhou Forest City di Stefano Boeri (2017). Qui ed ora, nuovi Eden vanno cercandosi – e costruendosi.

Una delle profetiche voci di questa generale riforestazione è quella di Gilles Clément. Agronomo e paesaggista, si autodefinisce “giardiniere” ed è diventato famoso con il suo Manifesto del Terzo paesaggio (2004), oltre che con progetti come il Parc André Citroën di Parigi (1985) [che è foto di copertina di questo articolo]. Più che questo primo testo però, ne ritorna qui utile un altro, il suo Giardini, paesaggio e genio naturale (2012), nel quale ci rende consci dell’importante variazione di paradigma estetico che stiamo attraversando:

«Dobbiamo […] liberarci dell’assurdo contratto […] per cui il paesaggista (o il giardiniere) sareb-
be garante d’un paesaggio definitivo […]. Alla consegna del suo lavoro, il paesaggista sa che il giardino comincia» (G. Clément, Giardino, paesaggio e genio naturale, 2013).

Infine, si chiede: «Nel corso del tempo, cosa diventa la sua forma?» (ibidem).
La domanda che si pone Clément è significativa: nell’odierna inversione gerarchica tra natura e costruito è in corso anche un cambiamento di tipo estetico. Il palcoscenico ruota, e con il litico che passa in secondo piano si prende ora la scena il naturale: viene cioè in primo piano il cangiante, il vivente. Ma che forma possiede questo vivente? Per l’architetto, ciò significa accettare la «natura quale coautrice della sua opera» (ibidem). Attenderla, ed accettare la sua non-staticità ed il suo costante variare.
Clément battezza poi il concetto di “giardino planetario”, un giardino che ha allargato i suoi confini fino a farli coincidere con la superficie del pianeta: ognuno di noi diventa, in questa visione, “giardiniere planetario”, (più) responsabile della nostra comune casa. Architetti inclusi.

***

La mano dell’architetto-a-venire è quindi, molte più volte di quanto non lo sia ora, ferma. Non è un rifiuto del progettare. Invece, è un nuovo approccio al progetto, un nuovo approccio estetico che, più che disciplinare, accetta.
L’architetto-artista del Novecento, che si pone come scaturigine unica del progetto, cede il pennello al nuovo architetto-giardiniere, che lo prende, lo posa, e indugia. Fermo, attende e contempla – il gioco sapiente, a suo modo rigoroso e magnifico della natura nella luce.

 

Tommaso Antiga

 

[Immagine tratta da Google]

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Il pendolo di Schopenhauer: l’attesa

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«La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente tra dolore e noia, passando attraverso l’intervallo fugace, e per di più illusorio, del piacere e della gioia»1.

Arthur Schopenhauer ritiene che sia un pendolo a giostrare la nostra vita e l’attesa dell’oscillazione che ne scandisce il tempo è ciò che ci è concesso per sperare. Di questo tempo nel mezzo, dell’attesa che impregna ogni attimo parlerà questo promemoria filosofico.

Siamo indiscutibilmente proiettati verso il futuro. Siamo in perenne attesa che qualcosa accada per andare avanti e magari qualcosa possa migliorare.

Aspettiamo una svolta per l’Italia, una politica più trasparente e che si rivolga in primis sempre al bene dei suoi cittadini, ma intanto con il sarcasmo di Crozza ci consoliamo e ridiamo della sua corruzione. Ci crogioliamo nel tempo in attesa di una democrazia più vera e concreta, se mai sarà possibile.

C’è chi aspetta una casa dopo che il terremoto gli ha rubato la sua. Le macerie che sono rimaste non sono solo che briciole di quel tetto pieno di ricordi che era una volta. E il freddo e il gelo che non dà tregua in quelle zone non fa che peggiorare la situazione e sperare però che torni il prima possibile il sole o uno squarcio di primavera. Si attendono aiuti e volontari perché possa tornare un po’ di normalità dopo tante scosse che non hanno travolto solo la terra.

Si attende una proposta di lavoro, o almeno si cerca un posto. La disoccupazione è solo uno stato di passaggio dal non fare al fare che non dovrebbe farsi attendere troppo. Se sei giovane c’è chi dice che di tempo ce n’è sempre e bisogna fare esperienza per trovare un lavoro stabile, ma non si vive di sole esperienze se manca il sostegno economico dietro a queste. La voglia di imparare e l’impegno dovrebbero essere ripagate come giusto meritano e non essere sottopagate o peggio, sfruttate.

Se sei una mamma o un papà anche tu hai aspettato con pazienza per nove mesi qualcosa di meraviglioso, che poi è arrivato e ti ha sconvolto la vita. Meritava, non è vero?

L’importante è il viaggio e non la meta, qualcuno diceva, e aveva ragione: siamo bloccati nel tempo che passa, un attimo prima era ora, e qualche secondo dopo è passato. L’unico modo per sopravvivere a questo è lasciare che gli eventi ci attraversino, rimanendo però saldi e presenti per viverli.

In fondo è una vita che aspettiamo qualcosa e la risposta forse è molto semplice: speriamo sempre in un futuro che sia migliore.

Al prossimo promemoria filosofico

Azzurra Gianotto

NOTE:

1.Aforisma tratto dall’opera “Il mondo come volontà e rappresentazione” 

[Immagine tratta dall’opera L’attesa di Baron Daniele (Google immagini)]

Attendere il deserto

Stai bene?

Penso di sì, perché?

Che significa “penso di sì”? O stai bene o non stai bene.

Facile per te. Ad ogni modo, perché me lo chiedi?

Non è facile per me: lo è per tutto il mondo; meno che per te, a quanto pare. Non hai detto una parola per tutta la cena.

È che ho una strana sensazione…

A cui non è così semplice dar nome, sì: conosco il gioco.

Mi fai sembrare un coglione, fammi finire.

Vai.

È la strana sensazione che accompagna la fine di un romanzo, è come un senso evanescente di incompiutezza.

Perché incompiutezza? Se l’hai finito, hai compiuto un percorso, sei arrivato fino in fondo. Dovresti essere felice: dici sempre di non aver mai tempo per leggere un romanzo dall’inizio alla fine, che ti capita sempre meno di leggere cose “scritte con un pizzico di spirito”.

Non mi fare il verso, mi fa…

Sembrare coglione

Appunto, grazie. Comunque: prima di leggere un romanzo sei entusiasta perché attendi di iniziare a frugarci dentro, sei come un bambino con un giocattolo nuovo. Hai solo voglia di sederti da qualche parte, in santa pace, e leggerlo.
Mentre lo leggi, se è un buon romanzo, un romanzo scritto bene – magari non un capolavoro, ma almeno scritto bene -, sei affascinato dalla trama, vuoi capire come diavolo fa a finire e inizi a prenderlo in mano ogni volta che hai cinque minuti. Mi segui?

Vai avanti.

Quando l’hai finito, se è un romanzo scritto bene, sei a posto: hai anche il diritto di sentirti bene in coscienza, perché nonostante viviamo in una società impazzita et cetera et cetera, hai trovato il tempo per leggere un buon romanzo. Ti senti una persona migliore, magari.

E quindi perché questo senso di incompiutezza? Quello che hai letto non era scritto bene?

Era scritto molto bene.

Mi stai facendo innervosire: finito di leggere un romanzo scritto bene, ti senti meglio. Ma tu ti senti strano. Ergo il romanzo non era scritto bene. Che mi sono perso?

Era scritto molto bene. Il problema non è con quello che c’era scritto ma con quello che diceva; c’è sempre qualcosa che un romanzo ti dice, qualcosa che, tuttavia, non è scritto lì, nero su bianco.

Un significato implicito?

Ma che implicito! È tutto fin troppo esplicito. Immagina di essere in salotto; io, dalla cucina, ti dico una cosa: non una qualsiasi, ma qualcosa il cui significato è così potente che sembra ti sia stato sussurrato appena accanto al cuore. Se distogli gli occhi dal televisore e ti guardi intorno, noti la mia assenza: io non ci sono, lì con te.

Ma mi hai parlato.

Appunto! L’assenza è l’altro lato della presenza, fa da contrasto e quello che deve essere notato veramente, certe piccole parole essenziali, di una brillantezza limata (come le figure delle miniature, sui vecchi codici, hai presente?), risuonano più chiare che mai. È solo nel deserto che senti le parole le più belle e importanti di tutte. E l’assenza è il deserto!

E perché questa cosa non va bene?

Va benissimo!

Ma ti fa sentire strano…

Perché è la verità: e con la verità ci devi sempre fare i conti!

E cosa ti ha detto ‘sto libro?

Mi ha detto qualcosa a proposito delle occasioni perdute, di un soldato, Giovanni Drogo, coraggioso come pochi, la cui esistenza non era, di per sé, inferiore a quella dei suoi commilitoni, degli altri soldati che, mentre se ne scendeva dalla Fortezza, ormai vecchio e consunto e debole, gli davano il cambio, sorpassandolo con passo guerresco.

Un romanzo di soldati: da quando ti sei messo a leggere romanzi di guerra?

Ma che guerra!

Va bene, allora un soldato troppo vecchio per far la guardia a questa fortezza: non mi pare un gran coraggioso.

Ma il coraggio sta nell’andarsene, nel fuggire dal posto in cui questo nemico non si palesa mai. Nel coltivare le proprie speranze fino all’ultimo momento e nel capire che la guerra è già tutta nell’attesa: è guerra contro noi stessi, contro la nostra pigrizia, contro l’incapacità di aspettare ­– fosse anche per tutta la vita- il momento della propria nascita. Lui se ne sta lì per anni, senza mai accontentarsi: senza neanche dar colpi di testa, sia chiaro; facendo sempre il suo dovere scrupolosamente, ma senza mai accontentarsi di quello che vedeva, toccava. Mentre viveva lì, assaporava il gusto di qualcosa di lontano che lo aspettava chissà dove; o forse che lui, Giovanni Drogo, stava aspettando: chi può dirlo? Fatto sta che mi ha fatto capire qualcosa in più su di me, su come funziona per me questa attesa.

E come funziona per te?

Non posso dirtelo, è un segreto. Hai capito perché non parlo? Quello che ho udito sfugge affinché non sia detto o ripetuto. Funziona così con le grandi parole: devi agire.

Non ti seguo.

E non devi! Leggi il libro, è sul divano, di là: è il “Deserto dei Tartari”.

Emanuele Lepore

[Immagine tratta da Google Immagini]

Dino Buzzati, “Poema a fumetti”

Oggi lo si definirebbe una graphic novel e sarebbe riconoscibile all’interno di un vero e proprio genere letterario, che negli ultimi decenni ha prodotto opere di autentico rilievo e si è creato un pubblico attento; ma nel 1969, quando Dino Buzzati pubblica il suo Poema a fumetti, provoca una clamorosa sorpresa. L’autore di un piccolo classico come Il deserto dei Tartari, che in trent’anni di carriera letteraria ha inventato una sua originale interpretazione del fantastico e ha reinterpretato generi letterari come l’erotismo (Un amore, 1959) o la fantascienza (Il grande ritratto, 1960), propone un’opera narrativa del tutto inedita, il cui breve testo si intreccia a immagini realizzate dallo stesso autore.

Dino Buzzati 1 - La chiave di SophiaI critici e molti lettori sono spiazzati da un romanzo che impone una lettura del tutto nuova. Eppure non si tratta, per l’autore, di una novità: già nel 1945 ha pubblicato e illustrato personalmente il libro per ragazzi La famosa invasione degli orsi in Sicilia; da tempo è conosciuto anche come pittore, Dino Buzzati 2 - La chiave di Sophiae pochi anni dopo, nel suo ultimo libro (I miracoli di Val Morel, 1971) ripropone attraverso una raccolta di surreali Dino Buzzati 3 - La chiave di Sophiaex-voto un’originale commistione tra testo e immagini.

 

 

La vicenda, invece, si riallaccia a una tradizione illustre, e si ispira alla mitologia: la storia di Orfeo che commuove col suo canto le divinità degli Inferi per riportare in vita la sposa Euridice, ma finisce col perderla nuovamente.

Dino Buzzati 4 - La chiave di SophiaE insieme il suo libro è una storia d’amore e di morte, secondo una tradizione illustre e antica. Una storia ispirata alla mitologia, la storia di Orfeo che scende negli inferi a commuovere le divinità col suo canto per riportare in vita la sua sposa Euridice, ma finisce per perderla nuovamente. Un racconto già cantato infinite volte in letteratura, in arte, in musica, qui alluso attraverso la storia del giovane Orfi, un cantante di successo che rimane sconvolto dall’improvvisa morte della sua amata Eura. Ma Orfi scopre un passaggio che porta nell’aldilà: un’anonima porta a pochi passi da casa sua, a Milano nell’inesistente via Santerna (immaginata nelle vicinanze di via Solferino, dove Buzzati lavorò per tutta la vita al Corriere della Sera).Dino Buzzati 5 - La chiave di Sophia

Un singolare “diavolo custode”, rappresentato nella forma di una giacca vuota, gli rivela che ogni scomparso vive in un luogo che gli ricorda la sua vita precedente («Per te, Orfi, è Milano, Milano essendo la tua vita, per un altro è Zagabria, Karlsruhe, Paranà»). Ma ciò che manca nell’aldilà è lo scorrere del tempo: l’esistenza non ha variazioni, è solo «ottusità indistruttibile, uniformità, prevedibilità, noia», agli antipodi della nostra vita preziosa proprio per la sua brevità. Dino Buzzati 6 - La chiave di SophiaCosì Orfi offre agli spiriti la cosa più preziosa, un canto che restituisca loro il ricordo del piacere e della bellezza.

In questo modo, Orfi ottiene 24 ore di tempo per cercare Eura. Sotto le volte di una gigantesca stazione ferroviaria, le anime stanno salendo su giganteschi treni a molti piani che li porteranno alla inconoscibile destinazione finale. Dino Buzzati 7 - La chiave di SophiaOrfi trova Eura tra loro, cerca di riportarla indietro, ma è lei a resistere: a differenza di Orfi, lei è già consapevole che la morte è una potenza irresistibile. I morti sono tutti stanchi, incapaci di opporsi al loro destino. In un’affannosa sequenza il tempo lasciato a Orfi si consuma del tutto, Dino Buzzati 8 - La chiave di Sophiae il giovane si ritrova davanti alla soglia, in via Santerna, incerto se tutto non sia stato un sogno. Ma il piccolo anello di Eura, rimasto nelle sue mani, gli dice che invece tutto è realmente avvenuto.

 

 

Dino Buzzati 9 - La chiave di SophiaUn breve riassunto come questo può solo dare una vaga idea di un romanzo per immagini, nel quale ogni singola tavola costruisce la Dino Buzzati 10 - La chiave di Sophiavicenda e insieme propone continui omaggi (dichiarati dall’autore nei ringraziamenti iniziali) che vanno da Salvador Dalì ai fumetti pornografici; ma in questo magma Buzzati riesce a essere sempre fedele a se stesso, ai temi che ha raccontato in tutta la sua vita di scrittore: il senso dell’attesa, il destino che incombe sugli uomini, la morte come presenza inesorabile nella vita umana.

 

 

 

Giuliano Galletti

DINO BUZZATI, Poema a fumetti, Milano, Mondadori, 2016

Il subconscio trae in inganno, i sensi cadono in fallo, la mente corre

Sono giorni che sento il tuo profumo, lo stesso che ti nebulizzavi sui vestiti e sulle lenzuola prima di andare a dormire… e oggi è così penetrante, tanto da farmi scorgere tra le mille vie della mente il maglione lilla e bianco. E’ come se la nostra città, il nostro mondo, fossero annebbiati… quasi la rabbia superficiale che nutro per tutto ciò che è accaduto fosse diventata patina spessa, che si insinua tra me e te.

È difficile riuscire a comprendere ciò che sento per te, in superficie la rabbia opacizza ogni cosa, nel profondo, cercando di andare oltre a quei sentimenti alimentati dall’impulso; ti auguro il meglio, perché meriti la felicità, ma la felicità vera, la più alta che sia concepibile, la felicità che inebria ogni atomo del proprio sé, l’unica in grado di farti realizzare che ogni sacrificio ne valeva la pena.

Solo che un figlio può divenire sacrificio? Ognuno di noi usa scusanti, perché entrambe sappiamo che per molto tempo hai ingannato gli altri, e soprattutto te stessa. Hai vissuto in un mondo che mai comprenderò, di cui, forse, mai vorrò nemmeno spiegazione, perché talvolta la conoscenza delle ragioni reali che sottostanno ad azioni e decisioni incomprensibili, destabilizza molto più che l’ignoranza che ha condotto a quello strano e paradossale susseguirsi di eventi, quello che ci ha condotte ad un oggi che mai io avrei potuto immaginare.

Divenire sconosciute.

E tu per me non eri solo mia madre, tu eri la mia migliore amica, il mio sorriso sulle labbra, la mia coccola della sera, il mio buongiorno… il mio canto in macchina, la mia risata, la mia complice in un mondo così ostile…

E si, mi manchi. Mi manca ogni cosa di quei nostri vent’anni, mi manca la nostra silenziosa colazione, il tuo allungare la mano sul tavolo per trovare la mia; mi mancano quei nomi sciocchi, i nostri segreti; mi manca appoggiarmi a te e prenderti in giro; mi manca la mia mamma

Mi manca la donna che per 20 anni ho avuto accanto, che da un po’ di tempo non trovo più, mi manca la donna che tu tanto hai rinnegato; mi manca ciò che eravamo noi, ciò che tu non hai più voluto…

Per quanto, forse dovuto alla giovane età, forse solo dettato dalla volontà di conservare un po’ di quel tempo in cui le mie lacrime ricadevano sul tuo animo e tu le asciugavi, portandole lontano dal mio cuore, vorrei continuare a piangere, sperando di rivederti un giorno tornare da me, io ti ho lasciata andare…

“Se ami qualcuno, rendilo libero”.

Sei libera… e non perché io mi sono arrogata il diritto di concederti tale cosa, non potrei mai, ma perché, in cuor mio, ho compreso come ciò che mi hai dato, l’amore che hai emanato ad ogni battito per 20 anni, mi basti per il resto di ciò che sarà.

Non so come sarà quest’anno, la festa della mamma, lo devo confessare. Forse camminerò senza meta, persa tra la folla in modo che la nostalgia non si nutra di tutto l’animo; forse tornerò nei nostri posti, forse sarò pronta a sorridere, consapevole che ogni accadimento ha un suo perché, consapevole che il nostro non essere più noi ha un perché.

So che leggerai, so che vorrai dirmi qualcosa, forse per sentirti un po’ meglio, forse per dirmi che tu non te ne sei andata, ma noi lo sappiamo, mamma, che non è così. Non sto parlando alla genitrice che oggi sei, ma alla mamma che ieri eri.

Sto parlando all’unica persona in grado di capirmi, di riuscire a camminare tra le fila del mio gomito emotivo. Parlo a te – e sai, devo ringraziarti molto più per gli ultimi anni, perché se fossi rimasta, forse la sera, cullata dal tuo amore, avrei chiuso gli occhi al posto di combattere per i miei desideri. Ti ringrazio, per essere stata, in ogni caso, indicazione della via.

Questi anni mi hanno insegnato molto: mi hanno insegnato a conoscermi, a valutare i miei limiti, la forza derivante dalla determinazione, il grado di tolleranza del dolore… E lo devo unicamente a te, all’effetto domino che hai scatenato con un respiro, con un soffio che è stato in grado di abbattere ogni mia difesa, rivelando, però, un percorso molto più vero e valido rispetto a quello che stavamo percorrendo insieme.

Quanto è strana la vita vero? Credevo che a legarci fosse un filo di diamante, indistruttibile: oggi ho compreso che era solo nylon.

Quindi auguri, alla mia mamma, se mai da qualche parte uno spiraglio di lei è rimasto… E auguri a te, che mi hai dato la forza di affrontare il dolore, di non aver paura se alle mie spalle non c’è nessuno pronto a prendermi in caso di caduta. Auguri a te che mi hai insegnato che non importa da dove si arriva, importa dove si va e come si percorre la strada, e anche se il mio sarà parzialmente un pellegrinaggio in solitaria, ad un certo punto della via so che davanti a me ci sarà un qualcuno, un qualcuno che difenderò sempre, che proteggerò e afferrerò nelle cadute… e forse, anche se è un bel forse, mi avvicinerò alla conoscenza di tutti i perché ti hanno spinta lontana da me.

Nicole della Pietà

[Immagine tratta da Google Immagini]

Un Dostoevskij ancora attuale: la percezione del tempo

Il soggetto in questione vive un’esperienza tragica, il tempo è visto come un mostro che sta davanti alla porta della fine.
Tutto svanisce: parole come speranza, progetto, in generale la parola futuro non hanno più senso. Cosa può sperare un individuo che si trova nel braccio della morte sapendo che tra un mese, una settimana, due giorni morirà?

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Fede nella realtà

Cos’è che ogni mattina ci fa svegliare e alzare dal nostro letto? Cos’è che ci manda avanti, giorno dopo giorno, in questo mondo da noi tanto criticato e tanto malvissuto? Interrompete per un attimo le quotidiane critiche e lamentele nei confronti di quanto v’è offerto e che sta tutto attorno a voi. Vi pongo questo invito per farvi comprendere quanto sia assordante la chiacchiera ininterrotta che si viene a creare con le vostre voci, fatte di ‘perché’ che stanno ovunque. “Perché perché perché perché perché… Ho l’impressione che sulla terra sprechiate troppo tempo a chiedervi troppi perché. D’inverno non vedete l’ora che arrivi l’estate. D’estate avete paura che torni l’inverno. Per questo non vi stancate mai di rincorrere il posto dove non siete: dove è sempre estate.”

I vostri sono gli stessi ‘perché’ che cita Novecento, protagonista del film La leggenda del pianista sull’oceano, ovverosia un continuo ciclo di insoddisfazione, di inadeguatezza che spinge l’uomo a domandare senza tregua, a porsi sia fisicamente sia mentalmente in uno stato di moto. Non v’è l’ombra di alcuna possibile quiete in tutto ciò, come non v’è nemmeno il senso di questo nostro movimento nel caso in cui ci soffermassimo a riflettere su di esso. Infatti, posti in tal modo non riusciremmo a rispondere alle mie domande all’inizio del testo, o meglio, il tutto si risolverebbe in un lungo silenzio imbarazzante, ove una risposta vorrebbe poter essere in grado di uscire dalle nostre bocche. Ci ritroveremmo davanti a qualcosa di immenso ed incomprensibile come sa essere il mondo, la realtà che ci circonda. Si tratta di una realtà che non è affatto promettente, non segue forzatamente una logica o una regola che la bilanci tra bene e male, giusto e sbagliato, consegnandoci ad un’esistenza di giudizio e classificazione. Noi lo vorremmo, forse ne siamo anche convinti, ma è un errore fatale che ci fa attendere quel bene che cerchiamo e al quale tendiamo, ma vediamo le cose da una prospettiva offuscata e inadatta. Ebbene siamo così costantemente in movimento tra le nostre indecisioni e insoddisfazioni, tanto da ricadere in una immobilità verso quello che è il nostro fine, credendo questo nostro attendere la quiete del bene che dobbiamo raggiungere, o che comunque raggiungerà noi. Capovolgendo, dunque, la nostra condizione arriviamo alla risposta data dall’affermazione di Cesare Pavese “Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?”.

Questa realtà non ci ha difatti promesso nulla, non ci è stato assicurato niente ma noi lo attendiamo lo stesso, rendendoci ciechi di fronte alla vita e alla realtà stessa. Si, alla realtà poiché essa non richiede una fiducia a priori, bensì un atteggiamento di fede che si sviluppi attimo dopo attimo, andando a formare quella che è la nostra via. È il presente che permette la formazione del futuro, un qui ed ora che va a determinare secondo la nostra volontà quello che sarà il nostro avvenire. La meta che scorgeremo non sarà da interpretare come un qualcosa a noi dovuto, qualcosa di predestinato, facente parte di un disegno per noi, bensì il risultato delle nostre azioni, del nostro esserci resi attivi nei confronti della vita. L’attesa, difatti, ci avrebbe consegnato ad un’infinita passività, una speranza teleologica irrealizzabile, proprio perché priva del suo elemento motore, priva di noi come soggetto. È qui che si vede la possibilità che rappresentiamo, il nostro essere soggetti infiniti che danno consequenzialmente l’oggetto e il mondo circostante, un mondo nostro che dobbiamo imparare a vedere e prendercene cura. Un mondo che sarà secondo la nostra visione e in cui dovremo porre la nostra fede, perché vissuto attivamente da noi e solo da noi, rendendolo sempre costantemente la nostra potenza più grande e bella.

Cos’è che mi fa alzare ogni giorno, dunque? Ebbene si tratta della fede che ho nella realtà, ovverosia una realtà che viene vissuta da me e che avrà da offrirmi nient’altro che il risultato di quanto da me fatto o detto. Sarà una realtà mia e di cui mai mi pentirò, anche dopo aver scelto tante vie sbagliate e dolorose, ma che mi porteranno comunque al bene che cerco, e chissà che esso alla fine non risulti essere qualcosa che ho sempre avuto davanti ma che non ho mai voluto veramente vedere.

Alvise Gasparini

[immagine tratta da Google Immagini]

attesa: il tempo dell’altrove

Una delle più forti e significative esperienze della nostra vita è l’attesa: l’enigmatico tempo in cui il controllo di sé si fa più labile che mai, le emozioni e le ansie più disparate affollano la mente ed il cuore di chi si ritrova ad attendere.

È un’esperienza comunemente equivocata: di una persona in attesa si dice che ” se ne sta lì ad aspettare”, descrivendo una quiete che è solo apparente e persuade solo gli sguardi meno attenti, dietro la quale si v’è c’è il vuoto di un’assenza, un perpetuo moto verso l’altrove. Dell’attesa il senso comune afferma sbrigativamente, con fiera supponenza, la vanità: le espressioni del dire più distratto, in tal senso, sono molteplici.

È tutt’altro che vana l’attesa e ció deve scoprire chi desidera, colui al quale manca (pur se non del tutto, ché altrimenti non cercherebbe) qualcosa di cui ha sentore, di cui avverte il richiamo, da cui è continuamente attratto; cioè è strappato, tirato con firza indicibile: ecco, di nuovo, la quiete è solo la forma visibile di unmovimento troppo veloce per essere descritto altrimenti, almeno a prima specie.

La vanità dell’attendere, che per il senso comune è certezza, è per la persona interessata la consistenza di un dubbio, anzi,del dubbio piú importante poiché dalla sua risoluzione dipende l’esito piú o meno catastrofico di un’innumerevole serie di interrogativi, non da ultimo quello circa la propria identità: io, che attendo, chi sono?

Quando di risposte non se ne hanno, bisogna cercarne e, per farlo, è necessario trovare un punto di partenza, un punto fermo su cui far leva.

Ebbene, per chi è in attesa, un interlocutore possibile è Publio Ovidio Nasone, autore – tra le altre opere- delle Heroides, una raccolta di epistole composte da personaggi della costellazione letterario-mitologica classica. I libri XVIII e XIX di questa opera contengono due lettere particolarmente interessanti ( per il nostro tema, s’intende), scritte da due giovani amanti, Leandro ed Ero, i quali erano divisi da uni stretto di mare, l’Ellesponto. Quando gli dei erano loro propizi, Leandro poteva tuffarsi coraggiosamente in mare e nuotare nuota da Abido – sua città natale- a Sesto, città natale dell’amata Ero che gli faceva da guida tenendo accesa una lucerna. Cosa accade, peró, quando Borea fa infuriare le acque, rendendo troppo pericolosa la traversata? Ecco che la domanda fondamentale sorge a tormentare il cuore: “perché l’attesa?”.

<<Cur ego viduas exegi frigida noctes?>>[1]

Perché Ero,nel fiore dei suoi anni, ha dovuto vegliare al freddo dell’incertezza, traendo la propria forza da una lucerna accesa, simbolo della speranza costante che vince la tribolazione? Perché ella non è presso di sé quando Leandro è altrove; perché vive l’alienazione che solo un potente desiderio puó causare, non vede ció che dovrebbe stargli dinnanzi ed è sospinta a vagare tra le fumose vie della memoria per ritrovare il ricordo dei giorni felici; di quelle gioie che << non si possono contare, non piú delle alghe dell’Ellesponto>>[2] ; per ritrovare l’immagine di Leandro, del suo corpo che ogni notte usciva dai flutti e lei stessa correva ad asciugare, del giovane che bruciava per lo sforzo e ardeva d’amore. Non essere dinnanzi a ció che si desidera invita ad abbandonarsi al ricordo: << nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria>>[3] . Eppure non si puô farne a meno.

Il tormento della memoria, di contro, proietta la persona che attende verso un futuro in cui la speranza non trova immediato riscontro: si piomba nell’angoscia del presente. << Cur totiens a me, lente morator, abes?>>[4] .

Perché Leandro non è sulle rive di Sesto, tra le braccia dell’amata Ero? La tempesta ed il mare in burrasca sono davvero la sola causa? Non è forse plausibile che il giovane uomo abbia dimenticato Ero, distratto dalle sue attivitá, dalla caccia e dai poderi; che la sabbia delle palestre abbia offuscato i suoi occhi a tal punto che questi non riconoscono piú l’assenza di lei? Se cosí fosse, chene sarebbe di lei, della giovane donna che è ormai una sola cosa con la sua attesa?

La risposta è nel suo corpo: nel corpo di Leandro che è da sempre suo, che costantemente gridava il proprio non autopossesso, il proprio essere presso altro, il proprio voto di alteritá permanente. É nel corpo del giovane amante che i soffi impetuosi del vento hanno deposto, ricoperto di alghe, sulle rive di Sesto.

La risposta alla domanda circa la presunta vanità dell’attesa è in quelle membra che hanno affrontato il mare in tempesta per avvicinarsi all’amata , sprezzanti del pericolo, per le quali il pezzo piú alto era un nonnulla, se paragonato all’onorevole ricompensa di un ultimo tocco da parte di Ero.

” L’attesa non è stata vana”, grida Leandro, che tante preghiere aveva mormorato al cielo, chiedendo compassione al dio sbagliato; Leandro che, vegliando per sette lunghissime notti seduto su di una rupe, tentava di colmare la distanza come poteva, finendo con l’affidare ad una lettera i suoi sentimenti inquieti. Avendo, insonne, ricordato le prime gioie del suo amore furtivo, cessa di sperare in una tregua dalla tempesta, in un momento di bonaccia in cui nuotare con tutte le forze verso Ero, per mai piú tornare.

<< Arte egeo nulla:fiat modo copia nandi; idem navigum, navita, vector ero>>[5] Nessun aiuto occorre all’amante dolente d’attesa, nessuna nave che tagli sicura il mare: il suo ultimo respiro sarà sufficiente.

Una preghiera inaudita è il seme di una sfida titanica il cui esito è sancito dalle leggi non scritte degli dei superi e inferi, i quali non tollerano di essere oltraggiati dal coraggio di quegli uomini cui Prometeo insegnó l’arte della disobbedienza necessaria. Ma l’ira è cieca, anche quella degli dei: essi comandano la morte e su ritrovano ad aver donato la vita; ordinano al mare di separare la speranzosa Ero dal disperato Leandro e si ritrovano ad averlo condotto lí dove lui stesso avrebbe voluto essere, sin dal principio. E lo desiderava a tal punto tuffarsi in quelle acque che avevano già annegato altre giovani speranze [6] . Leandro è lí, morto per aver sacrificato ad Ero un respiro di troppo, per aver inseguito, una bracciata dopo l’altra, il battito lontano del suo cuore: e l’ha raggiunto.

A cosa serve, dunque, attendere?

A misurare se sé stessi, a trovare le energie necessarie per abbracciare il destino, a comprendere che per nascere al domani é inevitabile morire all’oggi. Morire qui per nascere altrove.

Che l’altrove sia Sesto, le braccia di una persona amata, l’esaltante luogo in cui si assapora la realizzazione dei propri sogni piú urgenti, non importa.

 Emanuele Lepore

 

Note

[1] Ovidio, Heroides, XIX, 69: << Perché ho trascorso, al freddo,tante notti vedove?>>

[2] Ovidio, Heroides, XVIII, 84:<< non magis illus numerari gaudia noctis/ Hellespontiaci quam maris alga potest>>.

[3] Dante, Inferno, V,121-122.

[4] Ovidio, Heroides, XIX, 70:<< Perché tante volte, pigro, rimani lontano da me?>>.

[5] Ovidio, Heroides, XVIII, 147-148:<< Non ho bisogno di alcuna arte: purché Perché abbia modo di nuotare; saró al tempo stesso nave e pilota e passeggero>>

[6] Il riferimento é al mito di Elle che, fuggendo in groppa ad un montone dal vello d’oro insieme a suo fratello Frisso, cadde nelle acque dell’odierno stretto dei Dardanelli, da allora chiamato “Ellesponto”: “mare di Elle”.