Nulla da vedere nell’arte contemporanea? Basta riflettere

Chi ha un minimo di confidenza con l’arte contemporanea sa che, a differenza delle precedenti, in molti casi essa ci presenta gli stessi oggetti della vita di tutti i giorni: il caso principe è l’orinatoio che Marcel Duchamp espose nel 1917 ad una mostra d’arte a New York. A questo primo episodio ne seguirono molti altri, tanto che oggi è forse più comune vedere alle mostre opere “fatte di” oggetti banali che non dipinti e sculture: certo, l’arte ha in questo secolo calcato diversi sentieri, si sono adoperati neon, animali impagliati, addirittura ora si utilizzano file digitali come opere. Tuttavia la Fontana di Duchamp è un evento paradigmatico poiché rappresenta l’inizio dell’irruzione del quotidiano nell’arte: e ciò è stato ed è genuinamente spiazzante. Il senso comune infatti dice che le opere d’arte sono cose ben diverse dagli oggetti normali, poiché, generalmente, belle ad un livello speciale.

Il problema con la bellezza, è che essa è un valore che, come tutti i valori, è riconosciuta per certe qualità solamente da coloro che credono che quelle qualità la esprimano: non ne esiste un’idea condivisa da tutte le culture, né da tutte le società e gli individui. Chi pensa che qualcosa sia bello lo fa sempre per dei preconcetti che ha riguardo alla bellezza stessa. Qualcuno può dire che bello è ciò che dimostra in tutte le proprie parti una proporzione perfetta, chi invece crederà che alla bellezza serva un minimo di disarmonia per vivacizzarla, chi pensa che certi colori stiano bene assieme perché gli danno una sensazione positiva, e chi il contrario: tutti questi giudicheranno bello soltanto quell’oggetto che possono pensare secondo i loro parametri.

Infatti, in ognuno di questi casi, prima del giudizio si ha un’associazione di idee, il che è sostanzialmente un tipo di pensiero: anche nel caso dei colori, chi li trova belli connette la sensazione di piacere che ha con altre simili, alle quali ha imparato ad associare un evento positivo. L’idea è che un quadro lo “faccia sentire come”, e che perciò sia bello. Si risponde secondo dei presupposti: il problema è che pure questi presupposti possono a loro volta essere relativi. La bellezza infatti non è l’unico valore che risente di una tale situazione: le idee di proporzione, armonia, disarmonia, positività, piacere sono a loro volta suscettibili di condizionamento da parte di memoria, esperienza, cultura e storia. Anche l’espressività e il trovare qualcosa espressivo, fattori solitamente associati con l’arte, sono sia dipendenti dai, che varianti nei, vari contesti in cui il giudizio viene espresso.

Per cui non si può effettivamente pensare che l’opera d’arte – se si vuole che sia tale per tutti coloro che la potrebbero guardare (conditio sine qua non di una buona definizione della realtà) – si possa basare su qualche caratteristica specifica. Altrimenti, per qualcuno qualcosa sarebbe arte, per qualcun altro no. Ciò che permane, sicuramente, è che quando un oggetto è esposto al pubblico, come in un museo o in una galleria, le persone saranno portate a giudicarlo: si potrà dire che è bello o brutto, espressivo o inespressivo, che presenta certe qualità o non lo fa, ad un livello sufficiente o no. Di sicuro, quando mostrato, l’oggetto riceverà un giudizio, anche rispetto alla sua artisticità, giacchè affibbiargli o no le caratteristiche che, secondo chi lo fa, lo denotano come un’opera d’arte, significa infine giudicarlo “arte”.

Dunque, quello che le opere d’arte fanno è sempre stimolare un giudizio, cioè far associare delle premesse con altre idee. L’intuizione di Duchamp fu quella per cui, se un’opera non può essere razionalmente caratterizzata, ma tutto ciò che possiamo dire è che ci fa pensare, allora ogni cosa può mettere in moto la mente umana, dato che su tutti gli oggetti noi possiamo formulare pensieri: anzi, vien da chiedersi, che cosa più di un orinatoio in una galleria d’arte può dar modo di riflettere? Vedendolo, infatti, si potrà pensare che non è arte, che però qualcuno ha pensato che lo fosse, o non sarebbe stato esposto, che se è arte allora la bellezza non c’entra nulla con l’arte, e che questo è controintuitivo ecc. Inoltre, si potrebbe pensare anche che ci sono opere d’arte che non sono “belle” ma espressive (si pensi a Munch), ma che tuttavia anche l’espressività è relativa, perché in un contesto un gesto può essere considerato espressivo mentre in un altro per nulla…

Si potrà pensare che arte (considerata qui come arte visiva, solco in cui si mosse l’ex pittore Duchamp) è solo ciò che rappresenta qualcosa: ma allora l’astrattismo? Che fare arte significa dipingere o scolpire, produrre qualcosa: ma perché farlo, se non devo avere particolari qualità? In breve, si rifarà il ragionamento che ci ha condotti sin qui, e tutti quelli che hanno portato gli uomini nei secoli a fare arte in un certo modo ed altri ad accettarla come tale, per capire cosa diavolo ci faccia un orinatoio in museo.

 

Simone Costantini

Simone Costantini ha studiato Storia dell’arte a Udine e a Milano, focalizzandosi sulla contemporaneità perché ama essere sempre a conoscenza degli ultimi fatti del pensiero e dell’attività umana, e per personale predisposizione. La considerevole quantità di ragionamento dietro alle opere d’arte contemporanea e al loro studio ben si sposa con la sua passione per la filosofia, sorta al liceo, che ha poi felicemente portato avanti per comprendere sempre meglio il suo nuovo oggetto d’interesse. Alterna, così, il girovagare tra chiese, musei e mostre alla lettura e alla riflessione.

 

[Photo credit Khara Woods via Unsplash]

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Arte ed esperienza: l’artistico nella vita quotidiana

Nel 1961 Allan Kaprow riempì il cortile retrostante alla Martha Jackson Gallery di New York di vecchi copertoni d’auto. Moltissimi, tutti accatastati l’uno sull’altro. Con questo nuovo e inaspettato spazio, i visitatori della galleria, inizialmente disorientati e perplessi, hanno cominciato ad interagire: hanno corso sopra i copertoni, li hanno spostati, ci si sono distesi, ci hanno giocato, ci sono saltati sopra, hanno creato delle costruzioni e poi le hanno distrutte.
Allan Kaprow era un artista e quella appena raccontata un’opera d’arte in piena regola e con tanto di titolo: Yard, 1961.

Se dovessi chiedervi a bruciapelo di definire il concetto di arte, sono certa che di primo impulso mi parlereste di oggetti: la Venere di Milo, la Monna Lisa, il Taj Mahal; magari a qualcuno verrebbe giustamente da citare la nona di Beethoven e una poesia di D’Annunzio, o magari altri si spingerebbero addirittura a nominare pure il proprio MacBook Pro fino al disegno che ha fatto a scuola il nipotino. Se ne potrebbe discutere in tutte le salse, ma tutto sommato non ci troveremmo nulla di troppo strano. A pensarci bene, però, l’arte ha a che fare con la nostra vita quotidiana in una quantità pressoché infinita di modalità, e dunque non riguarda solamente gli oggetti che la popolano, ma anche le esperienze che facciamo di essi. Arte, per esempio, è l’esperienza di Michelangelo che scolpisce la Pietà vaticana, ma anche quella del visitatore di San Pietro che se la trova davanti: è dunque un’esperienza sia del creatore che del fruitore. Per qualcuno può essere anche la Pietà vaticana stessa perché in effetti, se ci pensiamo, sarebbe difficile stabilire se l’opera d’arte sia la partitura del notturno di Chopin oppure la sua esecuzione.

Quello che gli Environment di Allan Kaprow (come il sopracitato Yard) hanno voluto dimostrare, e con loro tutta la performance art e in particolare la vivacità degli happening degli anni Sessanta, è che l’arte non si limita a essere oggetto d’arte, e nemmeno solo l’esperienza che facciamo di quell’oggetto: arte può essere l’esperienza stessa. Anche sdraiarsi su un ammasso di vecchi copertoni.

Certo, parliamo di una tipologia molto specifica di esperienza. Considerando l’esperienza come la continua interazione dell’uomo con l’ambiente in cui è inserito, il filosofo americano John Dewey ha voluto distinguere la routine, intesa come un susseguirsi di avvenimenti che rimangono impressi come mera successione, da una esperienza compiuta – traduciamo noi –, una consumatory experience – scrive Dewey, quindi letteralmente consumata, vissuta fino alla fine e interiorizzata, come si consuma del cibo. Poiché l’interazione dell’uomo con il mondo è di tipo qualitativo, dunque dipendente da percezioni, sensazioni e suggestioni, l’esperienza ordinaria viene intensificata dall’arte diventando appunto esperienza “consumata” (compiuta). Scrive infatti il filosofo ne L’arte come esperienza (1934) che «è questo grado di compiutezza della vita nell’esperienza del fare e del percepire che fa la differenza tra ciò che è arte e ciò che non lo è».

Per Dewey allora l’arte (work of art) non si esaurisce nell’opera d’arte (art product). Se volessimo proprio rispondere all’impossibile domanda “che cos’è l’arte” diremmo dunque che, almeno secondo Dewey, l’arte è proprio nell’esperienza generata dall’opera d’arte. Per esempio dunque l’arte si compie nel momento in cui io leggo il romanzo e non nel romanzo stesso.

L’esperienza artistica si “stacca” dalla routine, dall’esperienza ordinaria e appena abbozzata (contrariamente alla consumatory experience), ma da essa deve partire, da essa si sviluppa: l’arte deve permeare la nostra quotidianità e dunque ha valore soprattutto nella propria contemporaneità. La riflessione di Dewey infatti va ancora più a fondo, arrivando a sostenere che senza la sua connessione al sociale, l’arte viene snaturata. Per fare un esempio chiaro, il Partenone che svetta sull’acropoli di Atene per noi non può essere altro che un work of art: gli manca quel valore politico e sociale che aveva per gli antichi greci e che noi oggi possiamo riconoscere ma non vivere sulla nostra pelle. Questo anche perché l’arte non si dà solo in un’esperienza “subita”, dunque recepita, ma è ugualmente fondamentale la dimensione del fare e dell’agire; recepire e fare devono essere in perfetto equilibrio affinché si possa parlare di arte.

Chissà cosa avrebbe detto John Dewey dei copertoni di Allan Kaprow…?

 

Giorgia Favero

 

[Photo credit arttribune.com]

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Un paio di scarpe e null’altro. Una lettura di Van Gogh

Nel famoso scritto L’origine dell’opera d’arte del 1935, Martin Heidegger (1889 – 1976) afferma che il quadro di Vincent Van Gogh (1853 -1890), che rappresenta un paio di scarpe da contadino, è un’opera d’arte non perché imita perfettamente delle calzature, ma perché raffigura un attrezzo, colto in un non-funzionamento, capace di aprire un mondo. L’intero mondo del contadino che ha calzato quelle scarpe viene alla luce. Secondo il filosofo tedesco, infatti, l’opera d’arte ha la capacità di dischiudere la verità sull’ente e questo scaturire della verità che in essa accade può essere colto soltanto a partire dall’opera. Non è chiaro a quale dei tanti quadri di Van Gogh in cui compaiono scarpe Heidegger si riferisca (probabilmente a Vecchie scarpe con lacci del 1886); ciò che più conta per il pensatore, di fronte all’opera d’arte, è la dimensione dell’ascolto e della meditazione e non il giudizio soggettivo che si può dare su di essa.

Nella voluminosa opera Vincent Van Gogh del 1950, il critico d’arte Meyer Schapiro (1904-1906), invece, vede nell’arte il destino personale del pittore olandese, che libera nei suoi quadri tutte le aspirazioni e le angosce contenute nel proprio io, anche se il suicidio rappresenta la chiara e definitiva testimonianza del fallimento di questo tentativo di salvezza attraverso l’arte. All’interno di questa cornice, secondo lo studioso, rientra il modo di Van Gogh di dipingere gli oggetti (come, ad esempio, il paio di scarpe). Il suo io è così attaccato alle cose da riprodurle ostinatamente più volte. Nell’interpretazione di Schapiro, l’artista dipinge oggetti, siano essi fiori, una sedia, un cappello, una pipa o delle calzature, in quanto estensioni del suo essere.

Le riflessioni del filosofo e dello storico dell’arte di fronte al quadro di Van Gogh sono alla base della disputa sorta tra i due studiosi sulla giusta interpretazione e sulla corretta attribuzione delle calzature dipinte dall’artista olandese. La contesa tra Heidegger e Schapiro ha luogo attraverso uno scambio di lettere intorno agli anni sessanta del secolo scorso. La polemica viene innescata dal secondo, che accusa il primo di aver attribuito ingenuamente, e senza troppe precisazioni, la proprietà delle scarpe a un contadino, anche se appartengono allo stesso Van Gogh, trascurando l’importante aspetto della presenza dell’autore nella tela per adattarne il contenuto a una elucubrazione filosofica. Jacques Derrida (1930 – 2004) nel saggio La verità in pittura (1978) tenta di porre fine al problema delle scarpe di Van Gogh contese tra Heidegger e Schapiro. Il filosofo francese non condivide l’esasperato bisogno dei due contendenti di assegnare la proprietà delle scarpe e mette in luce come entrambi commettano diversi errori di interpretazione.

Un paio di scarpe e null’altro. Tuttavia…

È interessante rilevare che dal confronto serrato tra Heidegger e Schapiro emerge la capacità intrinseca di un’opera d’arte di innescare un confronto, seppure con risvolti polemici, tra diverse discipline. La celebre disputa sorta attorno al dipinto di Van Gogh riassume in modo emblematico due particolari punti di vista davanti a un’opera: da un lato un atteggiamento ermeneutico-filosofico e dall’altro un atteggiamento critico-artistico. Si tratta di due modalità diverse di accostarsi a un quadro che ognuno di noi può intraprendere, di volta in volta, senza necessariamente dover propendere in modo definitivo per l’una o per l’altra.

Quando visitiamo una mostra, attraversiamo con calma le sale, indugiando di fronte alle opere che ci colpiscono maggiormente. A volte ci poniamo davanti a una tela lasciando che dall’immagine raffigurata affiori un significato, che diventa fonte d’ispirazione per riflessioni su aspetti particolari della nostra esistenza o su concetti filosofici astratti. In altre parole, entriamo in una dimensione di ascolto, confidando che sia il quadro a parlarci. Altrimenti possiamo provare a definire il dipinto in modo più critico mettendolo in rapporto con altri dello stesso autore o con le vicende biografiche dell’artista, oppure, ancora, con l’epoca in cui è stato dipinto e, più in generale, con l’intera storia dell’arte.

È forse questo uno dei caratteri essenziali dell’opera d’arte, ossia quello di aprirsi liberamente allo sguardo degli spettatori. Un quadro ha la facoltà di generare molteplici rimandi, di volta in volta differenti a seconda del punto di vista da cui si vuole guardare il suo contenuto, diventando lo sfondo su cui stabilire un dialogo culturale vivo e fecondo. Un paio di scarpe dipinte, nel loro semplice mostrarsi all’interno di una cornice, si rende disponibile alle varie interpretazioni di chi osserva, aprendo dei mondi e generando confronti e riflessioni.

 

Umberto Anesi

 

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Ecologia, arte contemporanea e filosofia del riciclo: RE.USE a Treviso

Finalmente a Treviso c’è una grande mostra di arte contemporanea che non vuole farsi bastare un grande nome per avere il suo perché, ma punta invece sui temi e sui valori.

Questa mostra, curata da Valerio Dehò, si chiama RE.USE. Scarti, oggetti, ecologia nell’arte contemporanea e ha inaugurato lo scorso 27 ottobre di quest’anno in ben tre sedi espositive: la sala ipogea del Museo di Santa Caterina, la sede espositiva di Casa Robegan e l’elegante sala di Ca’ dei Ricchi, sede dell’associazione ideatrice e organizzatrice della mostra TRA – Treviso Ricerca Arte.

I temi, dunque – il riciclo, la riflessione sullo scarto, l’attenzione per il quotidiano, uno sguardo accorto sulle cose che questo quotidiano lo riempiono – e anche i valori – la condivisione, il lavoro di squadra, la volontà di coinvolgimento – evidenti anche solo dalla scelta di realizzare una mostra dislocata che va a mettere in moto luoghi, attori, istituzioni, associazioni, ordini professionali ed esercizi commerciali di tutto il capoluogo veneto, finalmente libero da monoliti autoreferenziali. Non poteva del resto che venire da qui, dalla storica provincia più green friendly d’Italia, questa lunga immersione nel tema artistico del riutilizzo, che attraversa l’arte contemporanea a partire da inizio Novecento e che ancora fiorisce di spunti e riflessioni da parte degli artisti attualmente all’opera.

È un’arte che fa bene e che va nella direzione giusta quella che osa riflettere sull’assenza di riflessione. La riflessione, come hanno ben spiegato i filosofi della Scuola di Francoforte, è stata soppiantata dai bisogni indotti del Capitalismo e le cose – la merce, gli oggetti – ci sommergono, ci soffocano, e noi li lasciamo fare; come sostiene giustamente il curatore Valerio Dehò, sono loro che ci possiedono. Allora l’arte cerca di rovesciare questo paradigma e di riprendere il controllo sugli oggetti, esponendo allo sguardo il pericolo; spesso con grande ironia, a volte con austerità e monito, ma spesso entrambi tragicamente mai presi del tutto sul serio dalla Storia.

Le opere conservate al Museo di Santa Caterina sono come una lezione di storia dell’arte, da conservare come insegnamento prezioso per conoscere le opere di tutti gli artisti che sono venuti dopo i grandi maestri. Duchamp (il suo primo ready-made è del 1913 ed è stato il seme di un nuovo pensiero), Man Ray e Alberto Burri aprono la strada a un’arte della scelta (in luogo dell’esecuzione) e del contenuto (in luogo della cosiddetta, semplicemente, “estetica”): l’arte raggiunge una dimensione puramente intellettuale e gli oggetti, strappati dal banale e dal quotidiano ma ancora dichiaratamente oggetti, assumono significati nuovi. Seguono gli anni Sessanta, l’arte concettuale e il Nouveau Réalisme, che porta la riflessione sugli oggetti al problema dello spreco: l’arte si fa con oggetti di scarto, che nell’assemblage diventano qualcosa di nuovo e comunicano anche (più o meno velatamente) un messaggio di critica. Artisti del livello di Mimmo Rotella Tony Cragg e Christo sono fondamentali in questa fase. Da quel momento l’arte porta con sé la denuncia ecologica, il testimone passa ai nuovi giovani che cercano nuovi mezzi per esprimere questa presa di coscienza. Queste nuove riflessioni vengono accolte nelle sedi di Casa Robegan e Ca’ dei Ricchi, dove vengono esposti il neon fluo di Matteo Attruia, le intense fotografie tra natura e artificio di Giuseppe La Spada, gli scultorei plastiglomerati di The Cool Couple, l’enorme città distopica di Marco Bolognesi (solo per citarne alcuni). Vi invito a scoprire tutti gli altri e a sondare, attraverso le tre sedi espositive, la pluralità di tecniche artistiche e di visioni a confronto su questi temi. Le opere del gruppo Cracking Art, infine, che invadono la quotidianità del panorama cittadino trevigiano con i loro animali colorati, costringono a una riflessione in mezzo alla linearità delle nostre giornate a proposito della manipolazione dell’uomo sulla natura, continua e ancora troppo incapace di etica.

Una mostra da guardare per pensare. Guardare e non vedere. Non per nulla RE.USE non si limita alle opere esposte ma continua, spalanca i suoi confini spaziali, coinvolge anche le orecchie, perché tante sono le iniziative e gli incontri organizzati in questi quattro mesi di mostra (chiuderà i battenti i 10 febbraio) di cui anche noi de La chiave di Sophia faremo parte. Non limitatevi dunque a venirla a vedere: seguitela, ascoltatela, fatevi coinvolgere, portate la riflessione con voi al di là del museo e tenetela con voi, dentro la vostra testa, vicino al vostro animo.

 

Giorgia Favero

 

Abbiamo ospitato questa grande e lodevole iniziativa anche all’interno della nostra rivista cartacea La chiave di Sophia #7 – L’esperienza del bello con un articolo firmato da Marcello Libralato. Scopritelo a questo link!

[Photo credits Karen Barbieri]

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Banksy e l’opera che (non) svanisce

Se ne è parlato in tutte le salse; chiunque ha detto la sua, taluni elevando il gesto “distruttivo” del misterioso artista britannico ad autentico colpo di genio, altri smontando l’entusiasmo dei primi sostenendo la vuotezza e il carattere scarsamente innovativo della performance artistica.

A distanza di un po’ di tempo, analizzando con distacco ciò che è accaduto il 5 ottobre all’asta Sotheby’s tenuta a Londra, cercherò di tirare alcune conclusioni in merito alla tanto chiacchierata autodistruzione di un’opera del celebre street artist Banksy (una riproduzione del suo murales Balloon Girl del 2002), avvenuta immediatamente dopo l’aggiudicazione della stessa per la cifra di circa un milione di sterline (sottolineo che l’opera non è propriamente distrutta, bensì presenta circa mezzo foglio calato al di sotto della cornice e tagliuzzato da un tritadocumenti inserito nella medesima).

Le immagini dell’artista inglese, di grande efficacia comunicativa, sono popolari in tutto il mondo grazie alla loro semplicità disarmante e al costante riferimento all’attualità socio-politica. Ogni opera parla un linguaggio comprensibile da tutti, e la grande abilità figurativa del loro creatore viene largamente apprezzata dal pubblico. Sono ovviamente i contenuti a dare maggior lustro alle sue invenzioni artistiche: la sua esplicita critica al sistema capitalista, al consumismo e alla violenza è senz’altro il punto cardine dei suoi lavori. Grazie a questo carattere “mainstream” (ma non banale) del suo operare, Banksy è attualmente lo street artist più famoso al mondo.

Merito di ciò, tuttavia, è anche il fatto che il nostro personaggio non abbia un volto. Un po’ come succede in Italia con la scrittrice (o scrittore?) Elena Ferrante, Banksy è la firma di un artista (o forse più di uno) operante nell’ombra, del quale non si conosce l’identità. Questo fatto ovviamente aumenta a dismisura l’interesse generale su di lui, perché, si sa, il mistero da svelare affascina chiunque. Tuttavia appare piuttosto evidente che non conoscere l’identità di una persona preclude necessariamente la comprensione dei suoi movimenti e dei suoi gesti. E se ciò, da un lato, risulta intrigante, dall’altro può risultare anche ambiguo, specie quando succedono fatti rilevanti come quello del 5 ottobre scorso avvenuto presso la casa d’aste Sotheby’s.

Poste queste premesse, è necessario elencare tutte le cose di cui non siamo a conoscenza all’interno della vicenda in questione: il precedente proprietario dell’opera; l’attuale acquirente; le possibili relazioni tra l’artista e l’ex proprietario del pezzo; le possibili relazioni tra l’artista e l’attuale proprietario; l’identità dell’artista (sì, lo ripeto, perché questo crea ancora maggiori difficoltà a trovare delle risposte ai punti appena elencati). Lasciando ora da parte questi quesiti, che vanno però tenuti bene a mente, mi concentrerò sulla valenza artistica e quella socio-economica del gesto di Banksy.

Sì, innanzitutto la performance di autodistruzione dell’opera, avvenuta mediante l’attivazione di un trita documenti inserito nella cornice, è senz’altro stata architettata dallo stesso Banksy, che sul suo profilo Instagram ha postato il video amatoriale del misfatto citando Picasso: “The urge to destroy is also a creative urge”.

Ma che significato ha un’azione di questo tipo? Senza dubbio si tratta di un atto artistico memorabile, che ha sorpreso chiunque e che, per come è stato concepito, non ha precedenti nella storia. Moltissimi vi hanno ravvisato sin da subito una critica tagliente alle logiche di mercato che regolano il mondo dell’arte contemporanea. Ma a questo va sicuramente aggiunta la volontà, confermata dalla citazione di Picasso, di modificare di proposito l’opera, mettendo in atto una vera e propria performance artistica svoltasi in significativa concomitanza con l’aggiudicazione all’asta, quasi a voler suggerire l’aspetto effimero e talvolta illusorio del possedere l’arte. L’opera, così, ha già cambiato nome: ora si intitola Love is in the bin, ed è il risultato di questa straordinaria invenzione dell’artista. L’opera d’arte non è dunque svanita, ma è rinata, con un significato tutto nuovo.

Così considerata, però, l’azione geniale di Banksy appare sotto una luce in parte fuorviante, sicuramente troppo disincantata e, ancor di più, ingannevole nei confronti di chi, quasi gioendo, vi ha ingenuamente letto una spietata condanna al concetto di arte come investimento. In realtà i fatti stanno diversamente, e per capirlo è sufficiente riflettere sulle dinamiche dell’accaduto e sul riscontro mediatico che ha avuto.

Il fattore che più di tutti mi colpisce, all’interno di questa vicenda, è il contesto in cui essa è avvenuta: un artista di strada come Banksy, noto per l’amara critica costantemente rivolta alle classi dirigenti e alla mercificazione dell’arte, decide di compiere la performance artistica destinata a renderlo memorabile all’interno di una nota casa d’aste, in uno spazio dunque estremamente elitario, nell’ambito di un giro d’affari di milioni di euro. Forse il gesto avrebbe assunto quella sfumatura di pesante critica se il quadro fosse stato totalmente distrutto. Ma, visto come stanne le cose, questa critica diviene effimera, se non totalmente inesistente. Infatti, appurato il fatto che l’artista non è certo uno sciocco, è altrettanto certo che egli fosse ben consapevole delle conseguenze della sua azione, prima di tutto dell’enorme impatto a livello mediatico, che rappresenta probabilmente l’obiettivo primario da lui ricercato (e chi non vuole far parlare di sé?), e in secondo luogo dell’immenso valore che la nuova opera avrebbe acquisito (e di fatto ha acquisito realmente) in seguito alla tanto discussa vicenda. Non è forse un caso che la fortunata collezionista che ha vinto l’asta abbia comunque deciso di tenere l’opera. E ti credo!  

È chiaro, alla luce di ciò, che l’atto teatrale messo in scena da Banksy non è per nulla ingenuo, e nemmeno innocente. Per quanto mi riguarda, anche la credibilità stessa dell’artista andrebbe discussa. Nonostante le sue numerose prediche a un Occidente malato di capitalismo, lo abbiamo visto, questa volta, fare il gioco dei leoni, essere non solo complice, ma addirittura fautore e protagonista assoluto di dinamiche di mercato già ben stabilite e irremovibili. Specie se si considera il fatto che, come già accennato in precedenza, non sappiamo chi sia l’acquirente e nemmeno chi sia l’artista, cosa che favorisce la possibilità di sodalizi segreti assolutamente leciti ma astuti, che mal si sposerebbero con la filosofia di chi si è sempre rifiutato ufficialmente di commercializzare la propria arte.  

Come sarà dunque la prossima sorprendente performance di Banksy? Certamente qualcosa di nuovo e mai visto. Qualcosa di artisticamente geniale, ma anche estremamente ed inequivocabilmente furbo.  Molto furbo.

 

Luca Sperandio

 

[Photo Credits: Dominic Robinson su flickr.com]

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Al MAMbo l’arte incontra la rivoluzione

«Mosca ribolliva – del banchetto, del comizio, dello strillo degli editoriali: sulla primavera in ottobre e dell’ottobre in primavera; ribollivano i salotti; bruciavano di protesta anche i camini delle case; l’uomo al fronte alzò gli occhi: “Non si può vivere così […]”».

Queste parole tratte dal libro di memorie Tra due rivoluzioni (1934) di Andrej Belyj sono stampate su un pannello rosso in apertura della mostra Revolutja. Da Chagall a Malevich, da Repin a Kandinsky, visitabile al MAMbo, Museo d’Arte Moderna di Bologna, fino al 13 maggio 2018.

In occasione della ricorrenza del Centenario della Rivoluzione Russa, Evgenia Petrova, Vice Direttore del Museo di Stato Russo, e Joseph Kiblitsky, hanno curato una mostra entusiasmante e irripetibile per ripercorrere quei giorni tumultuosi attraverso gli occhi di celebri artisti quali Kandinsky, Chagall, Malevich, Rodčenko, Serov, Filonov, Alt’man, Repin − autore della tela cover della mostra intitolata 17 ottobre 1905 −, foto d’epoca, video storici e i costumi di scena disegnati da Malevich per lo spettacolo teatrale Vittoria sul Sole, in cui comparve per la prima volta l’idea del celeberrimo Quadrato Nero, presente in mostra.

bologna-17-febbraio-2018-23-300x254Revolutja intende restituire il fermento culturale di quel periodo che, tra il 1910 e 1920, ha visto nascere a un ritmo incalzante associazioni di artisti e movimenti d’avanguardia, dal primitivismo della Venere di Michail Larionov (olio su tela 1912) al futurismo del Ciclista di Natal’ja Gončarova (olio su tela, 1913) o del Ritratto perfezionato di Ivan Kljun di Kazimir Malevich (olio su tela, 1923), fino al suprematismo del medesimo Malevich o di Ivan Kljun, amico e fedele seguace.

 

Il suprematismo, promosso da Malevich che nel 1916 organizzò l’associazione Supremus, si delinea come una nuovabologna-17-febbraio-2018-44-175x300 corrente dell’arte che permette senza narrazione di esprimere la propria interpretazione del mondo attraverso il ritmo e il colore e che distrugge il concetto di prospettiva, di “alto” e di “basso”, come si vede nella tela intitolata, appunto, Costruzione di colore n. 4 (1920) di Vladimir Stenberg o in Architettonica pittorica (1916) di Ljubov’ Popova, attratta dalle forme regolari da sovrapporre l’una all’altra per creare superfici pittoriche.

In Composizione non-oggettiva (Suprematismo) dipinto intorno al 1926 da Ol’ga Rozanova emerge una vera e propria “scrittura a colori”, termine adottato dalla pittrice stessa che si distingue sostanzialmente dal suprematismo di Malevich − legato a contenuti sacrali − per il suo caratteristico e irrinunciabile amore per il decorativismo.

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Nel lasciare l’ala dedicata al Suprematismo incontriamo le parole di Marc Chagall tratte da L’angelo sopra i tetti (1989): «La rivoluzione mi ha scosso con tutta la sua forza, impadronendosi della personalità, del singolo uomo, del suo essere, traboccando dai confini dell’immaginazione e irrompendo nel mondo sentimentale delle immagini, che diventano a loro volta parte della rivoluzione». Del sognante Chagall la mostra ospita un celeberrimo capolavoro, La passeggiata (1917), corredata dal verosimile commento di una singolare visitatrice, una bimba di otto anni di nome Elena: «È come l’amore: pensi di volare ma non stai volando. L’amore può cambiare tutte le cose. Si ama talmente tanto che cambia anche il mondo circostante. Nel quadro le cose hanno cambiato colore». Chagall tiene per mano la moglie Bella che si alza in volo come una sorta di angelo, a simboleggiare un amore che si libra al di sopra del trascendente verso una dimensione irrazionale. Nell’altra mano il pittore, che guarda sorridente verso gli spettatori, ha un uccellino a significare l’accordo del loro amore con la natura. Sullo sfondo un cavallo su un prato in un paesaggio placido, ai piedi dell’artista una tovaglia da pic-nic a fiori in un’atmosfera irreale e fiabesca.

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bologna-17-febbraio-2018-52-235x300Altro capolavoro della mostra è Sul bianco (1920) di Wassily Kandinsky, cui il bianco sembra simbolo dell’universo, di quel mondo da cui «non giunge alcun suono. Da lì proviene un grande silenzio […] Questo silenzio non è morto ma pieno di possibilità». Colori scuri, invece, e forme appuntite e aggressive dominano la tela astratta Crepuscolare (1917), che incarna il turbamento di Kandinsky per gli avvenimenti rivoluzionari, la paura e l’insicurezza per il futuro.

 

 

In uscita l’attenzione dello spettatore è catturata da un cartellone pubblicitario del film Partigiani Rossi realizzato da bologna-17-febbraio-2018-104-300x235Michail Veksler nel 1924: l’uso di forme geometrizzate non-oggettive, la composizione del testo con caratteri elaborati appositamente creano un tutt’uno che agisce sullo spettatore attraverso il colore e il ritmo. La Rivoluzione del 1917 era stata accolta come la possibilità di un rinnovamento non solo della struttura della società ma anche dell’arte che pullulava di nuovi movimenti artistici diametralmente opposti l’un l’altro: alla fioritura della Non Oggettività si contrapponeva un’arte subordinata alla realtà sociale e all’ideologia. Nacque così l’Istituto di decorazione che, nel considerare anacronistici i dipinti a cavalletto destinati all’interno delle case, si dedicava al cambiamento dell’ambiente che circonda l’uomo, elaborando schizzi per manifesti pubblicitari, vassoi, porcellane, stoffe e oggetti d’uso quotidiano con slogan, simbologia sovietica e testi di carattere ideologico. In occasione del primo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre Natan Alt’man e Vladimir Stenberg trasformarono la piazza del Palazzo con il Palazzo d’Inverno in uno spazio dipinto di rosso.

E in occasione del Centenario della Rivoluzione Revolutja nasce per raccontare tutto questo: «la fame, il freddo, il tifo, la mancanza del pane, del combustibile, dei vestiti», come si vede nelle tele algide e crude di Pavel Filonov, come Stacanovisti (1934-1935), come si legge dalle parole di Aleksandr Labas che in Ricordi (anni cinquanta del Novecento) continua: «La poesia e il romanticismo vivevano dentro noi stessi. Speravamo che sarebbe andata meglio e in tutto quello che ci circondava vedevamo i semi di questo futuro favoloso». Futuro favoloso che si intravede nel quadro di Il’ja Repin Che vastità! (1903) che avvolge lo spettatore in un’atmosfera alla Anna Karenina, futuro fiabesco e sognante nelle commoventi tele di Kandinsky e di Chagall.

 

Rossella Farnese

 

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Tracce di natura e ambiente nella VII Rassegna di Arte Contemporanea di Treviso

La trevigiana Rassegna di Arte Contemporanea si è conclusa questa domenica ma fortunatamente ho avuto modo di visitarla ad un passo dalla chiusura, approfittando di una visita guidata con lo stesso curatore, Daniel Buso.

Quest’anno siamo giunti alla settima edizione: rincuora ed entusiasma il fatto che anche la piccola Treviso offra annualmente ai suoi abitanti e visitatori un tuffo nelle ricerche e nella creatività dei nostri giorni. Ca’ dei Carraresi, grazie all’organizzazione progettuale di Artika Eventi, ha raccolto ed accolto per una settimana (dal 17 al 25 giugno) le opere di ottantotto artisti, prevalentemente italiani, che attraverso diverse tecniche e modalità e secondo le più personali ed intime sensibilità interpretano con l’arte la visione e le tematiche dell’oggi. Molte sono infatti le questioni che emergono durante la visita, che si snoda in un percorso di sedici sale pensate per accogliere opere che riflettono, seppur in modi diversi, su tematiche comuni: dai migranti agli enigmi, dalle vedute urbane al packaging.

La mia sensibilità ed interesse hanno fatto emergere però un aspetto che non è stato scelto di riunire in un’unica sala – cosa che ho apprezzato perché penso che questa riflessione possa costituire un fil rouge che unisce diversi autori senza bisogno di essere esplicitato, come se fosse una loro caratteristica propria ed intrinseca riscontrabile più o meno apertamente nelle loro produzioni artistiche. Parlo delle tracce di una sensibilità nei confronti dell’ambiente naturale e dell’ambiente Terra più in generale. Alcune opere sono più esplicite di altre, altre si soffermano su un livello apparentemente superficiale di rappresentazione dell’ambiente naturale, come la laguna quasi eterea di Sabrina Grossi, ma la riflessione si svolge su più fronti.

Rino dal Pos ritrae un volto su una tela sulla cui superficie compone materiali creati dall’uomo ed impropriamente dispersi nella natura, per esempio gli ormai inutili oggetti di plastica gettati negli oceani; in quanto biologo il suo trarre dal mare materiali che non gli appartengono e riportarli proprio in un ritratto l’ho trovato un atto velato di denuncia di un atteggiamento che ormai ci è proprio come esseri umani, tristemente disattenti ed incuranti nei confronti di ciò che vive attorno a noi. Diversi altri artisti in effetti utilizzano nelle loro opere dei materiali di scarto: è il caso per esempio delle composizioni di Lili Mascio, in cui questi materiali si fondono in un vorticoso fluire per veicolare sensazioni di bellezza e leggerezza.

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Rino dal Pos, 2015

La riflessione attenta sull’ambiente però si riscontra anche attraverso l’umano costruire ed una lettura che viene fatta di esso. Ne riscontro una traccia nelle opere di Gemma Zoppitelli che attraverso una tecnica di foto trasferimento riporta le fotografie dei porti di Palermo e Genova su assi o scarti di legno trovati proprio in quei luoghi: il loro recupero e il riportarli ad una nuova vita, che è tuttavia profondamente legata alla precedente, li rende idoli di memoria, simboli apparentemente nostalgici di un mondo in continua corsa e progresso. Così come la monumentale archeologia industriale di Walter Marin, relitto abbandonato di un passato che sembra schiacciato dalla smania del nuovo.

L’azione incurante dell’uomo è anche violentemente denunciata, in particolare attraverso l’opera scultorea di Ralph Hall, simbolo oltretutto di questa rassegna: Rabbits. È ben esplicito il significato di quel tubo al neon, violentemente acceso e quasi fastidioso, che trafigge una coppia di conigli dall’aspetto del tutto adorabile, con le lunghe orecchie dall’aria apparentemente morbida e persino delle gorgiere secentesche che avvolgono i loro colli, una bellezza estetica che ne rappresenta l’innocenza. La denuncia è infatti proprio di quell’azione violenta e noncurante dell’uomo perpetrata su creature innocenti ma anche “vicine” (quasi addomesticate) all’uomo.

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Chiara Lorenzetto, 2016

Ci sono infine opere che sottolineano il completo fluire delle cose della natura, all’interno del quale l’uomo convive con tutto ciò che vive, e il suo essere si trova in piena connessione con la natura. Il Pensiero fluttuante di Monica Sarandrea per esempio è nato da un sasso gettato nello stagno: i colori, i movimenti ed i disegni della natura si ricollegano anche attraverso l’arte nel nostro vivere più profondo e che (anch’esso) ci è proprio, dal limite fluido della tangibilità dell’acqua alla fuggevolezza del pensiero. È di fatto nella dimensione spirituale che si apre il dialogo. Da questo punto di vista, concluderei con le opere che più di tutte sono riuscite a raggiungermi: quelle di Chiara Lorenzetto. Attraverso la tecnica del frottage l’artista riporta il disegno ciclico e sinuoso di un tronco tagliato: con la matita su di una carta molto leggera racchiude l’anima dei tronchi di tiglio di un viale in cui, a seguito di un programma di abbattimento, tali alberi sono stati tagliati. La forma che viene riportata sul supporto ricorda molto da vicino le impronte digitali di una mano umana, manifestando in modo delicato ma palese l’assoluta comunanza tra uomo e albero, e dunque l’appartenenza dell’uomo ad  un contesto di connessioni naturali in cui non può esistere, a livello profondo, una vera gerarchia. Ogni singolo albero, in questa lunga serie di tele di cui sono due quelle scelte per questa esposizione, ha una sua individualità ed è portatore di una sua storia di vita e cultura, così come ogni essere umano è un individuo unico ed irripetibile, ed in quanto tale degno di vivere la propria vita.

 

Giorgia Favero

Riferimenti più approfonditi alla mostra qui.

Damien Hirst e il paradigma dell’arti-star

Le buone pratiche per diventare un arti-star sono poche, ma devono essere seguite con coerenza e in modo rigoroso sin dall’inizio: costruisci il tuo marchio personale con attenzione, snobba il sistema istituzionale, diventa miliardario, alterna periodi di silenzio a grandi eventi. Stupisci, sempre.

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E su questo non si può dire niente, Mr Hirst ha stupito il suo pubblico un’altra volta. Dopo mesi di febbrile attesa, lo scorso 8 aprile a Venezia, La Fondazione Pinault ha inaugurato la totemica personale dell’artista, allestita in contemporanea nelle due sedi di Palazzo Grassi e Punta della Dogana. Una scelta che fino ad oggi non si era mai vista.

Ma d’altronde il ritorno di Hirst, dopo quasi dieci anni di assenza dalle scene, non poteva che puntare all’eccesso. Ed infatti l’artista ci offre il privilegio di scoprire niente di meno che il più grande successo archeologico dell’ultimo decennio: il ritrovamento del tesoro della nave Apistos (che in greco significa incredibile, l’unbelievable che dà il titolo alla mostra), naufragata secoli fa nelle profondità dell’Oceano Indiano. Leggenda vuole che questo tesoro appartenesse al liberto Cif Amotan II, vissuto tra il I e il II secolo a.C. in Antiochia.

Il signor Hirst si presenta dunque come il mecenate della spedizione di archeologi che nel 2008 ha scoperto il luogo dove tale immensa ricchezza si era inabissata. Questa dunque, sarebbe la storia.

Attraverso l’esposizione l’artista ci spiega tutti i passaggi del ritrovamento, esattamente come farebbe uno storico: dallo studio alla catalogazione dei reperti, tutto è documentato da fotografie e filmati dettagliati, e le opere sono accompagnate da didascalie esplicative, proprio come in un museo d’archeologia e storia naturale. La messa in scena è precisa, chiara e coerente.

Ogni tanto però Hirst ci fa l’occhiolino: evidentemente Mikey Mouse ricoperto di alghe e coralli non può essere un reperto archeologico, né la statua del faraone con il volto di William Pharrell o Mowgli disteso sulla pancia dell’orso Baloo. Si tratta di espedienti che ci permettono di uscire dalla narrazione per riappropriarci del nostro sguardo critico − che sia solo una favola colossale?

E nel concreto danno il ritmo ad una mostra che effettivamente per la sua ridondanza e tendenza alle dimensioni esagerate, tende ad opprimere lo spettatore.

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Insomma, solo Damien Hirst poteva fare una cosa del genere, e forse proprio per riconfermare il suo essere Hirst, nel caso ci fossero dubbi: l’enfant terrible dell’arte, sempre sopra le righe e irritante per più di qualche gallerista. D’altronde per ogni arti-star è fondamentale ricamarsi addosso una propria mitologia, lavorare bene sulle aspettative, dare ogni tanto una spolverata al brand. In fondo Damien Hirst è un marchio, che ha dimostrato di essere ancora attuale individuando nello storytelling la mossa vincente per l’autopromozione.

Ma questa è solo una prima lettura del suo lavoro, e forse quella più semplice di fronte ad un artista diventato letteralmente miliardario e inseritosi nel mercato con idee efficaci, per certi versi geniali, ma che sanno tanto da escamotage.

Effettivamente il problema di essere un arti-star è che spesso la tua poetica passa in secondo piano.

Molti hanno visto in quest’ultimo lavoro dell’artista la sua capacità di rinnovarsi e di sorprendere con idee nuove. A me sembra invece tutto molto coerente, semmai scorgo un certo smussamento di un carattere indagatore più radicale, crudo e impulsivo, probabilmente dovuto alla maturità. Resta di base, e ben evidente, l’ossessione per il tempo che passa, per la deperibilità di esseri e oggetti, tra la fascinazione e la paura. Non ci troviamo più di fronte allo squalo in formaldeide da 12 milioni di dollari, oppure al teschio umano ricoperto da 8.601 diamanti purissimi. Se qui Hirst metteva in teca la morte stessa, ora con The treasures on the wreck of the unbelievable, c’è una riflessione sul valore del ricordo e la memoria, che appaiono facilmente falsificabili. Ma anche sul fascino che esercita la storia per il suo carattere immaginifico, mentre insinua sottilmente il dubbio sulla sua autenticità. Le certezze non sono così solide, e il cinismo si è addolcito, la domanda non è più cos’è la morte ma semmai cosa significa la storia: un infinita collezione di ricordi, vite passate, ricchezze inabissate, appunto.

Senza dimenticare però che Hirst è anche collezionista, e che già in precedenza si era espresso più volte su questo tema:

«Collezionare è come raccogliere oggetti portati a riva, in un posto sulla spiaggia, e quel posto sei tu. Quando poi muori tutto sarà di nuovo portato via».

Risulta quindi naturale vedere nella figura di Amotan – divenuto da schiavo signore ricchissimo – una citazione dell’artista stesso.

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L’abisso come metafora della morte e dello smarrimento del passato potrebbe essere un livello di lettura; d’altronde una riflessione sul mare che inghiotte e poi restituisce è particolarmente attuale, anche se purtroppo nelle profondità marine più spesso si ritrovano corpi che tesori.

Ma considerando quanto questa interpretazione strida con lo sfarzo e l’opulenza percepita, con il senso di autocelebrazione – sia dell’artista che del collezionista – che emerge dall’inizio alla fine dell’esposizione, mi riservo di considerarla una riflessione totalmente personale.

D’altronde è la prima regola di un arti-star: lasciare che il pubblico la pensi come vuole.

Claudia Carbonari

INFO:

Treasures from the Wreck of the Unbelievable — Palazzo Grassi, Punta della Dogana 09/04 – 03/12/2017, Venezia
Maggiori informazioni qui.

Indagare l’immagine e l’oggetto: intervista a quattro artisti

Il mondo di oggi, che corre sulle ali di una comunicazione rapida ed immediata, fa un uso molto ampio dell’immagine ma senza mai avere il tempo di soffermarsi ad indagarne la complessità. Questo è invece proprio ciò che si propone la mostra From Object To Exposure inaugurata giusto ieri (sabato 18 febbraio 2017) dall’associazione TRA – Treviso Ricerca Arte nella sempre suggestiva cornice di Ca’ dei Ricchi a Treviso.
L’esposizione è curata da Carlo Sala e presenta alcune opere di quattro giovani artisti italiani. I loro lavori giustappongono fotografia e scultura ed in tal modo intendono creare delle ambiguità tra l’oggetto reale e quella che invece è l’immagine dell’oggetto: le sculture vulcaniche di Paola Pasquaretta si accompagnano alle sculture di schiuma immortalate nella cornice dello scatto, il cielo stellato di Silvia Mariotti si fa da immateriale a scultoreo tramite la stampa a lambda, i detriti di Marco Maria Zanin sono esposti ma viene esposta anche la fotografia che li ritrae sotto una veste più attraente, mentre Mimì Enna ricostruisce un luogo nello spazio espositivo utilizzando sia immagini a grandezza naturale che veri e propri oggetti di arredamento.
Ma non voglio svelare oltre: vi suggerisco di leggere quest’intervista – che purtroppo è solo uno spiraglio dei mondi che questi artisti hanno dentro e che hanno condiviso con me – e di portare poi con voi le vostre domande e suggestioni al piano nobile di Ca’ dei Ricchi, dove troverete la mostra ad aspettarvi fino al 2 aprile 2017.

[A Marco Maria Zanin]
I tuoi lavori più recenti hanno al centro il detrito come simbolo di una demolizione incontrollata del passato in favore di una indiscriminata costruzione del nuovo, che però si trova spesso in tal modo ad essere privo di radici. In che modo quindi concepisci il detrito come un nuovo archetipo?

MMZ: «In questi ultimi lavori mi sono ispirato alla teoria dello storico dell’arte francese Georges Didi-Huberman, il quale seguendo Walter Benjamin critica la concezione lineare della storia e del tempo per come sono concepiti nella società occidentale, sostenendo invece la concezione della storia come una sovrapposizione di temporalità che possono costantemente riemergere l’una sull’altra, senza che ce ne sia una dominante. Il detrito e la rovina hanno dunque la caratteristica di un sintomo, perché rivelano in superficie una presenza di cose che accadono e vivono in profondità. Ho lavorato già in passato con la rovina, per esempio per la serie fotografica sulle case rurali abbandonate, proprio perché le consideravo una temporalità passata da riportare nel presente: il detrito è quindi il punto di appoggio per creare una breccia in quella che è la temporalità del mercato e del capitalismo. Mettendo il detrito al centro della nostra cosmologia provo a valorizzare i livelli di lettura che sono in esso: ci sono dentro altre dimensioni della realtà che non sono quelle della temporalità dominante che l’ha scartato e buttato via. Nell’opera Copernico qui esposta il detrito di San Paolo, megalopoli in continua espansione, è fisicamente presente, ma è in qualche modo presente anche nella fotografia, che rappresenta in realtà una mia ricostruzione in porcellana del detrito. Questo crea il corto circuito che dona dignità al detrito e consente all’osservatore di accedere ai successivi livelli di lettura».

[A Paola Pasquaretta]
In questa mostra hai portato delle sculture di sapone, fragilissime ai fattori ambientali e dunque destinate a deperire con il passare del tempo, mentre hai cristallizzato nelle fotografie sculture di schiuma che altrimenti sarebbero esistite per pochissimi secondi prima di deteriorarsi. Considerando la paura diffusa oggigiorno dello scorrere del tempo, c’è forse una bellezza in esso che tu hai voluto metterci davanti agli occhi?

PP: «Più che la bellezza direi che è fondamentale la consapevolezza del passaggio del tempo. Noi lo viviamo e lo subiamo in prima persona su di noi come esseri umani, però per me è interessante la trasformazione. Io sono affascinata dai fenomeni geologici ed i cambiamenti che avvengono nella geologia, che hanno tempi molto più dilatati ed incomprensibili per noi perché distanti dalla nostra vita, sono sì deperimenti ma l’ottica non è quella di un cambiare in modo negativo quanto piuttosto proprio di un modificarsi delle cose del tempo. Si tratta quindi di essere consapevoli del fatto che non sarà mai tutto uguale rispetto a come l’avevamo lasciato, quindi per esempio anche noi nei confronti della natura e dell’ambiente dovremmo utilizzare un certo tipo di sguardo e di attenzione, perché le cose cambiano anche a causa nostra. Anche il mezzo artistico stesso poi sottende una riflessione ed un gioco sul tempo, perché la fotografia cristallizza un momento, ma cosa sarebbe invece vederlo dal vero, vederlo succedere rapidamente? Allo stesso modo la scultura è solitamente una cosa finita, invece in questo caso cambia anche lei. Si tratta di cambiamenti e non implicano necessariamente la bellezza: non c’è giudizio».

[A Mimì Enna]
La tua riflessione invece riguarda soprattutto lo spazio, poiché con le tue Delocazioni intendi trasferire un luogo all’interno dello spazio espositivo. Quali sono dunque per te gli elementi che determinano lo spazio in quanto tale?

ME: «Per me le Delocazioni sono un trasportare un luogo all’interno di uno spazio, nel senso che per spazio intendo un luogo più neutro e che non necessariamente palesa un vissuto al suo interno, mentre invece un luogo sì, perché un luogo è abitato (o lo è stato) e s’impregna di tutte le tracce che lascia chi lo ha vissuto,   come anche gli oggetti che lo hanno arricchito. Quando mi inserisco nello spazio, le Delocazioni le intendo quindi come una porzione di un luogo, trasferendovi anche un intero modo di abitare, come è successo per Delocazione nello studio di uno psicologo: siccome il mio intento era esasperare la fragilità di quel luogo ho trasferito l’intera attività dello psicologo, nel senso che lei ha effettivamente esercitato la sua professione all’interno di quello spazio espositivo allestito. Lo spazio si è caricato del vissuto del luogo stesso».

[A Silvia Mariotti]
Nelle opere che hai scelto di esporre in questa mostra risulta predominante il tema del buio e della notte: emergono dunque spazi e realtà privi di solidi punti di riferimento e dunque anche potenzialmente destabilizzanti. C’è in tutto questo una riflessione esistenzialista o è principalmente estetica?

SM: «Questo in realtà è partito proprio come un lavoro sulla morfologia del territorio [quello delle foibe carsiche], dunque con una connotazione molto naturalistica: volevo assolutamente evitare di fare un lavoro documentaristico, quindi riportare sì il contesto storico ma giocando sulla doppia chiave del sublime, dove la tragicità sta nella storia stessa nascosta dietro quei luoghi, ma anche la loro semplice natura morfologica. L’esperienza è comunque sempre la chiave di lettura: la notte che si fa contenitore di una serie di esperienze, soprattutto la mia ma anche un’esperienza che voglio ridare a chi la riesce a percepire nel momento in cui sta di fronte all’opera.  Da lontano queste opere sembrano buchi neri: mi piace tantissimo questa cosa del disvelare pian piano la realtà, cosa che necessita anche un prendersi del tempo di fronte all’opera».

L’artista è una persona che si pone in modo del tutto speciale nei confronti di un oggetto d’arte, poiché è creatore egli stesso di oggetti d’arte. Quale rapporto si è creato tra voi e le vostre opere?

PP: «Essendo creatore dell’opera d’arte, anche quando non c’è più come un tempo una grande lavorazione manuale (per esempio nelle fotografie), sento le mie opere come figli, cioè come parte di me. Nel momento in cui sono finite – o meglio le considero finite – diventano invece l’opposto, totalmente estranee da me. Anche nel caso di questi vulcani, loro vivono di vita propria! Io le costruisco, impiego moltissimo tempo nel dettaglio per renderle più belle e più precise possibile, e poi il materiale col tempo cambia e si modifica per cui la forma che io ho dato al mio lavoro non è più la stessa. Nel momento in cui i miei lavori escono dallo studio ed arrivano in una mostra o vengono viste da altre persone diventano parte del mondo, della storia, non c’è più l’attaccamento iniziale. Questo anche perché nel processo di lavorazione è difficile considerare conclusa un’opera, per cui il momento dello stacco è fondamentale perché altrimenti il processo creativo continuerebbe all’infinito; allora da quel momento loro cominciano a vivere per conto loro».

ME: «Io ho iniziato a fotografare perché ero appassionata, però mettendomi nei panni di un fruitore esterno ho cercato sempre di rendere molto tangibile il mio volere, quello che volevo offrirgli. Questo è il motivo per cui ho voluto inserire gli oggetti [in dialogo con le fotografie], di modo che per il fruitore fosse percettibile l’intento, che non si verificasse quella distanza che spesso capita quando si parla di arte contemporanea. Nelle mie opere c’è sempre un riferirmi alle forme che sono familiari e comuni a tutti i tipi di fruitore, non solo agli addetti ai lavori in questo campo, proprio per avvicinarli tramite queste forme».

Nonostante gli intenti con cui molti movimenti e correnti sono nati, l’arte contemporanea oggi arriva con più fatica alla cosiddetta “gente comune”, soprattutto in un Paese come l’Italia ricco d’arte antica. Sapreste tessermi gli elogi o magari una semplice apologia dell’arte contemporanea?

SM: «Come ti dicevo anche prima, per me conta davvero molto il riportare un’esperienza, la relazione che si può instaurare nel momento esperienziale che io riporto e che comunque diventa soggettivo, ed un altro momento esperienziale ancora nella persona che si trova a fruire dell’opera. Io lavoro attraverso il mezzo fotografico, però non mi piace lavorare attraverso un tecnicismo – per esempio l’uso delle esposizioni – perché mi interessa proprio immergermi in una dimensione e riportarla al pubblico, che la può reinterpretare e creare una esperienza ancora nuova. L’arte contemporanea, per come la vedo io, è un regalare delle esperienze».

MMZ: «Guarda, io sono laureato proprio in Filosofia e poi in Relazioni Internazionali, per cui le mie radici non affondano proprio nel terreno dell’arte, e infatti questa apertura dell’arte contemporanea al grande pubblico per me è molto importante. Questo è anche il motivo per cui in molti miei lavori ci sono anche un’estetica ed una poetica che sono linguaggi universalmente comprensibili, diventando così una prima porta per accedere ai livelli di comprensione successivi che sono spesso racchiusi nell’arte contemporanea in genere. Io poi ho un progetto di residenza artistica [Humus, ndR] in cui proprio uno degli obiettivi è quello di mettere l’arte contemporanea al servizio di un territorio, come quello della bassa padovana, che sta ai margini; questo perché l’arte contemporanea è uno strumento di lettura di quello che accade nella realtà presente incorporando un linguaggio enormemente innovativo e fresco. Io faccio arte contemporanea perché spero che essa possa creare uno spazio all’interno della comunità umana».

Dietro ogni oggetto d’arte, soprattutto nel contemporaneo, si nasconde un profondo pensiero ed un ben preciso modo di concepire il mondo. Tutto questo, per noi, può chiamarsi filosofia. Voi che valore date alla filosofia?

SM: «La filosofia ti apre a mille interrogativi ed è come una ricerca a più livelli, come un gioco di specchi: una profondità che non ti porta mai ad una fine reale e anzi, ti apre continuamente a diverse interpretazioni e punti di vista».

ME: «Io associo spesso la filosofia al lavoro che facciamo noi perché il fine non ha un aspetto “utile” inteso in modo scientifico: è più soggettivo. Quindi per questo motivo sicuramente è molto aperta, come diceva Silvia, nel senso che non si conclude e non c’è un fine preciso. Questa secondo me è la grande forza di entrambi gli ambiti, la mutevolezza; e poi sono sicuramente entrambe necessarie alla vita».

PP: «Io penso alla filosofia in modo molto applicato, quindi non tanto a quei grandi e complessi ragionamenti che si pensa essere la filosofia quando la si studia; per me è un’analisi più approfondita del quotidiano – infatti ci sono filosofie applicate a qualsiasi cosa, anche all’economia o ad altre cose più pratiche. Pensando al mio lavoro per esempio ci sono in gioco delle riflessioni – come prima sul tempo, per dirne una – che io tratto in modo materiale ma che penso appartengano anche all’ambito filosofico».

MMZ: «Secondo me la filosofia è la possibilità di tagliare con un bisturi quella che è la realtà, imparando proprio a porsi delle buone domande e provando a sentire qual è la pulsazione del proprio tempo: aprirlo con un bisturi, guardarci dentro e raccontarlo».

Giorgia Favero

Per maggiori informazioni sulla mostra e sugli artisti vi rinviamo al sito di TRA.

Musei formato famiglia: 10 mostre da vedere durante le vacanze

Questo articolo è dedicato ai veri protagonisti delle feste natalizie: i bambini.
Non dimentichiamoci – sopraffatti dal vortice affannoso dell’ansia da regali – che i bimbi sono in primo luogo esseri curiosi e affamati di nuove esperienze, e che il dono più prezioso che possiamo far loro è un po’ del nostro tempo.
Accompagniamoli in punta dei piedi alla scoperta dell’arte, della letteratura, della scienza, perché sono proprio queste esperienze condivise che restano nel ricordo una volta cresciuti, più di ogni altro giocattolo o regalo materiale.

Di seguito propongo quindi una breve selezione di mostre a livello nazionale con un’offerta didattica interessante, per il piacere di grandi e piccini.

the-art-of-the-brick_la-chiave-di-sophiaThe art of the brick
Milano. Fabbrica del Vapore. Fino al 29 gennaio 2017.

L’artista statunitense Nathan Sawaya – con le sue 85 opere realizzate con oltre un milione di mattoncini LEGO® – stimola a progettare, costruire, inventare nuove forme e soprattutto a credere nelle proprie capacità creative.   Una mostra che incanta bambini e adulti: dal dinosauro lungo oltre sei metri alla riproduzione della Sfinge e della Gioconda. L’associazione AdArtem propone attività per famiglie con bambini di 4-5 anni (Mattoncino su mattoncino viene su…un grande artista!), di 6-10 anni (L’arte non ha regole!) e per famiglie con adolescenti (Talenti in corso).
Per informazioni e prenotazioni sulle attività: www.adartem.it
Per informazioni sulla mostra: www.artofthebrick.it.

museo-storia-naturale-milano_la-chiave-di-sophiaOrigini, storie e segreti dei movimenti della Terra
Milano. Museo di Storia Naturale. Fino al 30 aprile 2017.

Per scoprire il nostro pianeta e cercare di capire gli eventi naturali che lo caratterizzano, ma è anche un’ottima occasione per riflettere insieme ai bambini sulla recente tragedia che ha colpito il Centro Italia.
La mostra offre un percorso ben strutturato tra immagini spettacolari, fotografie satellitari provenienti dalla NASA, diorami, simulazioni di tsunami, sismografi e strumentazioni antiche e moderne. Inoltre l’Associazione Didattica Museale organizza attività e visite guidate per famiglie, tra cui Quando la terra trema, per famiglie con bambini di 6-11 anni. Per informazioni e prenotazioni: www.assodidatticamuseale.it

mostra-basquiat-milano_la-chiave-di-sophiaJean-Michel Basquiat
Milano. Mudec – Museo delle Culture. Fino al 26 febbraio 2017.

Per confrontarsi con un grande protagonista dell’arte contemporanea e riflettere su temi delicati come quelli del razzismo e delle differenze culturali.
La mostra attraversa la breve ma intensa carriera di Basquiat, conclusasi con la sua morte prematura all’età di soli ventisette anni. Un artista che viene rapidamente assimilato dai bambini per il suo stile semplice e infantile, e per la derivazione dei suoi disegni dai cartoni animati, la cultura pop e i graffiti urbani.
Attività per famiglie a cura dell’Associazione AdArtem. Per informazioni e prenotazioni sulle attività: www.adartem.it.
Per informazioni sulla mostra: www.mudec.it/ita/jean-michel-basquiat.

escher-mostra-milano_la-chiave-di-sophiaEscher
Milano. Palazzo Reale. Fino al 22 gennaio 2017. 

Per divertirsi a scoprire la geometria e imparare che anche l’occhio può trarre in inganno.
La mostra accompagna lo spettatore in un viaggio all’interno dello sviluppo creativo dell’artista, a partire dalle radici stilistiche liberty, per poi soffermarsi sul suo amore per l’Italia e individuare nel viaggio a L’Alhambra e a Cordova l’origine di un’ossessione per le forme geometriche che Escher esprime attraverso le sue tassellature e creazioni di oggetti impossibili.
Attività didattiche a cura dell’associazione AdMaiora (www.admaiora.education/it/mostre-ed-eventi/escher). Per informazioni e prenotazioni: www.mostraescher.it

mostra-muba_la-chiave-di-sophiaVietato non toccare
Milano. MUBA – Museo dei Bambini. Fino al 26 marzo 2017.

Una grande mostra-gioco per bambini dai 2 ai 6 anni. Sula scia delle geniali intuizioni del lavoro di Bruno Munari, designer sempre attento ai bisogni dei più piccoli, la mostra si sviluppa secondo un percorso di gioco impostato sulla scoperta, la meraviglia, l’esperienza tattile e visiva, la sperimentazione e il fare. Si approfondiscono così quattro momenti di esperienza: Le Scatole della Meraviglia, Toccare con gli occhi e vedere con le mani, il gioco Più e Meno, il Prato dei Prelibri. La mostra prevede anche laboratori settimanali per i bambini più grandi (6-13 anni) e proposte formative dedicate agli adulti. Per informazioni: www.muba.it

dinosauri-mostra-padova_la-chiave-di-sophiaDinosauri. Giganti dall’Argentina
Padova. Centro Culturale San Gaetano. Fino al 26 febbraio 2017. 

Tutti i bambini vorrebbero un dinosauro in salotto: se per Natale non fate in tempo a procurarvene uno, ecco l’occasione ideale per avvicinare i più piccoli all’universo di queste incredibili creature. Si tratta di una delle più importanti mostre su territorio nazionale sull’evoluzione dei dinosauri, con reperti unici, provenienti da un territorio paleontologicamente ricco come l´Argentina. Tra le attività per famiglie con bambini: Buenas Noches Dino (caccia al tesoro tra i reperti in mostra) il sabato alle 20 e Bingo Dino (coi numeri sostituiti da immagini relative alla mostra) la domenica alle 16. Per informazioni: www.dinosauripadova.it

immagini-della-fantasia-sarmede_la-chiave-di-sophiaLe immagini della fantasia 34
Sarmede (TV). Casa della fantasia. Fino al 29 gennaio 2017.

Finalmente una mostra che saranno gli stessi bambini a spiegarvi, e che quindi consiglio a tutti gli adulti. Per ridare una lucidata al muscolo dell’immaginazione che, come si sa, con il tempo tende a diventare pigro.
Questa edizione accoglie una sezione speciale dedicata alle figure dal Cile, mentre l’ospite d’onore è Guido Scarabottolo, grafico e illustratore italiano le cui creazioni sono apparse in diverse mostre nazionali ed estere. Il corpus centrale della rassegna è Panorama, la sezione che raccoglie oltre 30 illustratori e libri dal mondo. E nella sezione Planetarium la bellezza della scultura neoclassica viene raccontata ai bambini attraverso le favole di Antonio Canova. Nei weekend laboratori e letture animate attendono le famiglie. Per informazioni: www.sarmedemostra.it

ariosto_mostra_ferrara_la-chiave-di-sophiaOrlando Furioso. 500 anni. Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi
Ferrara. Palazzo dei Diamanti. Fino al 29 gennaio.

L’immaginario dell’Ariosto, ricco di illusioni, dame, cavalieri e animali fantastici non può che incantare la mente dei bambini. È possibile partecipare ai laboratori didattici dove i bambini sono portati ad interagire con le tematiche proposte nell’esposizione, sollecitando alla partecipazione attiva e alla rielaborazione creativa. In occasione della mostra è stato inoltre presentato il libro di Luigi dal Cin e Pia Valentinis: Orlando Pazzo nel Magico Palazzo (Ferrara Arte Editore). Il racconto evoca con ironia l’universo cavalleresco esplorato nel Furioso riproponendo, in modo semplice e chiaro, il ritmo che caratterizza il poema e la preziosità stilistica delle ottave ariostesche. Accompagnano il testo le bellissime tavole di Pia Valentinis che, di volta in volta, interpretano i toni della narrazione con vivace originalità.

pinocchio-mostra-cinecitta_la-chiave-di-sophiaPinocchio a Cinecittà: Natale nel paese dei balocchi
Roma. Cinecittà. Fino all’8 gennaio 2016.

Ogni bambino prima o poi si identifica con Pinocchio. Per avventurarsi alla scoperta del mondo del celebre burattino, nato nel 1881 dalla mente creativa di Carlo Collodi, gli spazi espositivi di Cinecittà e l’area verde del Play Garden ospitano un ricco calendario di iniziative, esposizioni, proiezioni e laboratori.
Per informazioni: www.cinecittasimostra.it

sensi-unici-mostra-roma_la-chiave-di-sophiaSensi unici
Roma. Palazzo delle Esposizioni. Fino al 26 febbraio 2017.

Una mostra di libri e opere tattili per educare, risvegliare i sensi e imparare a percepire la realtà con occhi e mani nuove. Libri nazionali e internazionali, tavole materiche e operative, coinvolgono direttamente il pubblico grande e piccino nella lettura tattile dell’opera, per scoprire le potenzialità espressive e comunicative dei materiali. E’ previsto un ricco programma di laboratori per famiglie e bambini da 3 a 6 anni la domenica dalle 11 alle 13.
Per prenotazioni (consigliate): tel. +39 06 39967500. Per informazioni sulla mostra: www.palazzoesposizioni.it/categorie/mostra-sensi-unici

Claudia Carbonari

[Immagini tratte da Google Immagini]