L’impossibile scelta tra pace e giustizia

Non è mai stato facile essere pacifisti, né è mai stato immediato capire cosa fosse giusto fare, dire, pensare nel momento in cui grandi avvenimenti storici arrivano a sconvolgere una quotidianità che tenta ingenuamente di considerare la propria relativa tranquillità come eterna.

Lo sapeva bene Lev Tolstoj, che fu addirittura scomunicato dalla Chiesa russa ortodossa in merito alle sue posizioni fieramente pacifiste. Non solo nei suoi romanzi, ma anche e soprattutto in altri scritti meno conosciuti, in Contro la guerra russo-giapponese, nella lettera allo zar del 1881 e in quelle al filosofo Hugo Engelhardt (1882-1883), nei saggi della maturità La mia fede e Il regno di Dio è in voi, Tolstoj insiste fermamente sulla necessità di non agire mai attraverso la violenza, attraverso le armi, attraverso la forza, fosse anche per difendersi. Il mondo nuovo, dice, potrà nascere solo da un rifiuto radicale di ogni forma di conflitto, che avrà modo di “contagiare” l’umanità come fosse un’epidemia.

Di idee radicalmente opposte era il filosofo, contemporaneo e compatriota eppure estremamente distante, Ivan Il’in. Monarchico e hegeliano, Il’in fu un fervente sostenitore dello zar, e fu costretto alla fuga quando Lenin e l’Armata Rossa presero il potere durante la Rivoluzione di Ottobre. In numerosi articoli e interventi – e soprattutto in una delle sue opere più famose, Resistenza al male con la forza (1952)  Il’in deride i fiacchi e inconcludenti appelli per la democrazia del mondo europeo verso l’Unione Sovietica e insiste che, al momento in cui il male si presenta, è dovere morale reagire a esso con la forza, col conflitto armato, con la violenza. Cercare la pace, in questo caso, sarebbe un atto di complicità col male che andrebbe invece sradicato.

Non è un caso che i due autori presi in causa siano entrambi russi. Impossibile non tentare in qualche modo di riportarne le riflessioni a un’attualità che, ormai da più di un anno, bussa prepotentemente alle nostre porte, condizionando la nostra (ora lo sappiamo) fragile quotidianità di lavoro, famiglia, svago, in modi che non avremmo ritenuto possibili fino a poco fa.

Ma chi ha ragione? Tolstoj o Il’in? Cosa fare, dire o pensare per ritenersi “dalla parte giusta”? In un dibattito pubblico che si arrocca sempre più e sempre peggio in tifoserie da stadio, in cui ogni barlume di pensiero critico e sistema complesso è scartato come inutile sovrappiù, dove schierarsi per essere a posto con la propria coscienza? Questa guerra nel cuore dell’Europa somiglia da vicino ai test che gli studenti universitari discutono nelle ore di Filosofia Morale. Il più famoso è senza dubbio il “dilemma del carro ferroviario” di Philippa Ruth Foot, che invita l’ascoltatore a scegliere se lasciare che un treno lanciato a tutta velocità travolga cinque persone sui binari, o deviarne la corsa scegliendo di ucciderne una sul binario a fianco. Non agire e lasciare che cinque persone muoiano, o intervenire attivamente ed essere responsabili materiali e morali della morte di un innocente?

La questione è la stessa in politica estera, lo stesso aut aut che lascia poche alternative. O continuiamo a inviare armamenti sempre più sofisticati, contribuendo attivamente al prolungamento di una guerra che sta mietendo migliaia di vittime, o ci facciamo da parte, rifiutandoci di intervenire in nome della pace, lasciando così che la fiera popolazione ucraina sia travolta e fagocitata dal regime russo.
Non c’è un’alternativa che sia eticamente soddisfacente, non c’è una ricetta o una “mossa” che garantisca la propria appartenenza alle schiere dei giusti in contrapposizione a una massa di “cattivi” da poter additare a cuor leggero sui social. C’è il destino di due paesi in gioco, dell’intero pianeta se l’escalation continua, milioni e milioni di vite uniche e non rimpiazzabili sulle quali non è possibile fare secondi tentativi.

In una simile situazione, è la coscienza di ognuno che decide quale sia il “bene superiore” da perseguire, che sia il pacifismo di Tolstoj o l’interventismo di Il’in. Basta ricordarsi che il Bene, quello vero, è già da un pezzo fuori dalla rosa di scelta.

 

Giacomo Mininni

 

[Photo credit Christian Wiediger via Unsplash]

 

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Secondo emendamento o il prezzo della libertà

Ogni volta che i media riportano la notizia di una strage da arma da fuoco in America molti di noi sono presi da un sano stupore e da un’altrettanta sana indignazione verso qualcosa che non capiamo e che pensiamo molto lontano da noi. Tutte le volte che un ragazzotto preme il grilletto sfogando così le sue perverse pulsioni, vuoi razziali, religiose o semplicemente frutto della sua follia, la prima cosa che ci chiediamo è come sia potuto accadere che un’arma finisse in così cattive mani. E ciclicamente anche gli osservatori europei condannano la politica americana sulle armi che non fa niente per prevenire tragedie del genere. In USA altrettanto sull’onda emozionale del momento si fanno grandi proclami, ma in sostanza non cambia niente.

Contro l’attuale legislazione sulle armi si è espresso anche Barack Obama dopo l’ultima strage di inizio Ottobre all’Umpqua Community College in Oregon, nove morti e una decina di feriti.

Ma nello specifico che cosa si intende quando si parla di possesso di un’ arma negli USA? E da dove proviene questa cultura delle armi così radicata in America e perché è tanto difficile che qualcosa cambi a livello legale?
A mente fredda si può tentare di capire qualcosa di più in materia e sfatare anche qualche falso mito.

Che gli USA abbiano un problema con le armi è certo. Ecco alcune statistiche per capirci meglio:

Negli Stati Uniti ci sono 300 milioni di armi da fuoco su 315 milioni di abitanti (al secondo posto l’India con 43 milioni su 1 miliardo e 200 milioni di persone). Circa una famiglia su tre possiede un’arma.

Gli USA hanno solo il 4,4% della popolazione mondiale e quasi il 50% del totale delle armi detenute da civili al mondo.

Nel 2013 si sono registrati 11.203 omicidi e 21.175 suicidi causati da armi da fuoco, senza contare i decessi per armi usate dalla polizia. Più di qualsiasi altro paese civilizzato.

Dal caso della sparatoria alla Sandy Hook High School (2012) ci sono state oltre 986 fucilazioni di massa (mass shooting) negli Stati Uniti, ovvero episodi con almeno quattro morti. Per ora nel 2105 la percentuale è di quasi una al giorno.

Dal 2001 al 2011 i morti causati da armi da fuoco sono stati 130.000, mentre il terrorismo ha fatto 3.00 vittime, delle quali 2689 solo l’11 Settembre 2001.

Il possesso di armi da fuoco negli stati uniti è regolamentato dalla legislazione di ogni stato e da quella federale con un complesso sistema di norme, ma quasi tutti consentono di possedere una pistola e di portarla in pubblico nascosta.
Per quanto riguarda la vendita non è proprio vero il luogo comune secondo il quale si entra in un supermercato e se ne esce con un fucile (per le munizioni però in certi casi funziona così), ma comunque è assodato che negli Stati Uniti ci sia più possibilità e facilità di acquistare armi da fuoco che in ogni altro paese avanzato. Per comprare un’arma da un rivenditore autorizzato basta non essere un pregiudicato e dichiarare di non avere malattie mentali. Mentre un mercato ancora più incontrollato è costituito dalla vendita diretta tra privati o dalle più di 4.000 fiere annuali del settore.
E un dato abbastanza scioccante è che l’85% delle stragi commesse negli ultimi trent’anni è stato fatto con armi comprate regolarmente dal killer, non da altri, ma da chi ha effettivamente premuto il grilletto.
Sembrerà ovvio ma è comprovato statisticamente che leggi più lassiste sul possesso di armi ne aumentano la circolazione e fanno crescere il numero di omicidi.

Per quanto riguarda la questione della cultura delle armi si sente spesso citare il secondo emendamento come principio cardine che lascia libero ogni cittadino di possedere un’arma da fuoco e ciò è vero, ma questo emendamento è stato oggetto di diverse diatribe sull’interpretazione e ci si è appellati ad esso solo negli ultimi decenni, come vedremo. Il secondo emendamento in questione risale al Bill of Rights (carta dei diritti che comprende i primi nove emendamenti) del 1791 e recita:

Essendo necessaria alla sicurezza di uno stato libero una milizia regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto.

Molti americani verso la fine del ‘700, soprattutto nelle zone rurali possedevano un fucile, per difesa contro gli attacchi di indiani o di banditi. Questo emendamento di fatto regolava una situazione già consolidata da una parte e dall’altra, con l’istituzione di una milizia centrale e federalista e per paura di troppo centralismo, avvallava il possesso di armi di privati cittadini e la creazione di eserciti locali, là dove il governo federale faticava ad arrivare. Le milizie locali che si vengono a creare sono le antenate delle criticate guardie nazionali che ogni stato americano possiede tutt’oggi.

Storicamente queste ventisette parole (27!) sono figlie del contesto già prima accennato, della fine della guerra d’indipendenza contro la madrepatria inglese e della confederazione dei tredici stati e poi della conquista del west da parte dei pionieri, ma culturalmente si sono rivelate oggi esprimere loro malgrado il concetto di liberismo, che caratterizza gli Stati Uniti dalla loro nascita; un Paese di breve storia che ha fatto dell’individualismo e della libertà personale principi imprescindibili e nuovi elementi di un’epica moderna. La conquista e la difesa, anche individuale del territorio, sono elementi sempre presenti nell’epos americano e nella cultura pop; non è un caso che nei fumetti di Walt Disney Paperon De’ Paperoni e Nonna Papera fossero rappresentati icasticamente difendere i loro possedimenti a suon di fucile.

È sulla base di quell’ emendamento che, in particolare dalla metà dagli anni ‘70 del secolo scorso, ha portato avanti la sua battaglia ideologica la più famosa e potente lobby del mondo: la National Rifle Association (NRA), l’associazione dei produttori di armi da fuoco.
Ronald Reagan fu il primo presidente a essere eletto con il sostegno della NRA ed è sotto il suo mandato che si “riscoprì” il valore del secondo emendamento come principio per il possesso individuale di armi. Partendo da questa riscoperta venne votato il Firearms Owners Protection Act.
In tempi più recenti la corte costituzionale segnò altri punti per la causa dei produttori sancendo, con una sentenza del 2008, che il regolamento sul controllo delle armi del District of Columbia era incostituzionale e che quindi «il Secondo emendamento protegge il diritto individuale del possesso di un’arma da fuoco, non connesso al servizio in una milizia». Due anni dopo un’altra sentenza ha esteso l’interpretazione ai 50 stati americani, obbligandoli ad adeguarsi. Il diritto di possedere un’arma è quindi, per adesso, inviolabile.

Appare chiaro che il problema con le armi degli USA sia prima che di ordine pubblico un problema culturale se si confrontano gli Stati Uniti con altri Paesi.
Uno Stato pieno di armi come la Svizzera, mutatis mutandis, ha un tasso molto più basso di omicidi degli USA e ciò vale lo stesso per i vicini canadesi; ricordandoci sempre che i paesi con più armi hanno un numero di casi di omicidio maggiore di quelli con un arsenale minore. Michael Moore nel suo bellissimo documentario Bowling for Columbine (2002) incalzando Charlton Heston, allora presidente della NRA, gli chiede il motivo secondo lui di questa differenza tra gli Stati Uniti e gli alri paesi. Heston, non senza qualche diffficoltà, afferma che l’america ha una storia insanguinata. Moore quindi gli fa notare come le storie di quasi tutti i paesi siano macchiate di sangue, ma quello a cui forse poco consciamente l’attore di Ben Hur si riferiva era la cultura Americana derivata dalla sua particolare storia di conquista e indipendenza. L’idea del Grande Paese America da difendere ad ogni costo, ognuno per sé se serve. Insita nel patrimonio Americano vi è non a caso l’idea di popolo eletto, portatore del bene e della libertà. E allora come si potrebbe privare delle libertà individuali i propri cittadini?

Dei recenti sondaggi mostrano come la maggioranza della popolazione sia ancora favorevole al possesso di armi, ma al contempo più del 50% degli americani sarebbe favorevole a qualche norma di tipo restrittivo (non troppo rigida ovviamente). Legislativamente il processo è ora difficile dato il senato in mano ai Repubblicani e anche nella prossima tornata elettorale sono pochi i candidati fortemente contrari alla armi. Ammesso e non concesso che sul piano delle leggi qualcosa possa cambiare, in futuro non è dato sapere se cambierà la cultura Americana e il bisogno di sicurezza dei suoi abitanti. Unico dato confortante è che il numero degli omicidi e delle armi possedute è comunque leggermente in calo negli ultimi anni.

Però, in conclusione, è lecito domandarsi quanti altri innocenti dovranno essere sacrificati sull’altare del dio delle armi per continuare a tenere alzata la bandiera della libertà.

Tommaso Meo

Le opinioni sono personali.