L’estetica del male in Arancia Meccanica

Tratto dal libro di Anthony Burgess, Arancia meccanica diviene famoso al grande pubblico grazie alla magistrale regia di Stanley Kubrick. Un’opera non sempre compresa fino in fondo e da molti considerata emblema della violenza gratuita. Ma a tutto questo c’è un motivo: l’autore del libro prima e successivamente Kubrick, non vogliono mettere in scena la mera violenza senza uno scopo più alto, ma scelgono di trattare una delle tematiche primarie della filosofia, ossia la questione del libero arbitrio.

Come ben sappiamo le leggi sottese allo Stato e la cultura, sono fondamentali per la stabilità della vita umana e sappiamo anche che l’idea di un’assoluta libertà, priva di ogni condizionamento esterno, sia da considerarsi un mero paradigma. Se si pensa, infatti, ai cosiddetti drughi, personaggi principali di Arancia meccanica e componenti della banda violenta che si pone al di là della legge compiendo atti inauditi, si comprende come l’essere umano, anche laddove contravvenga alle regole, se ne crei in qualche modo delle proprie, attraverso un processo di autoregolazione personale, che nel caso della banda coincide con il male. 

Ma il personaggio che più colpisce è quello del capo dei drughi, Alex, il cui nome già la dice lunga sulla sua personalità, che sia casuale o meno, se si prova a dividere l’iniziale dal resto del nome, verrà fuori A-lex e considerando la lettera “A” come un’alfa privativa, viene fuori questo: A = senza LEX=legge. Alex è, di fatto, il protagonista dell’opera e il suo comportamento rispecchia pienamente la concezione platonica della libertà basata sulla conoscenza del bene e del male e sulla scelta dell’uno piuttosto che dell’altro:

 «non sarà un demone a scegliere voi, ma sarete voi a scegliere il demone. […] La responsabilità è di chi sceglie […]»1.

Così come Platone ci porta nella sfera della libertà di scelta tra il bene e il male, anche il personaggio di Alex risulta molto ben caratterizzato da questo punto di vista: egli non è, infatti, un semplice teppista come gli altri, egli è la mente cosciente della banda; tutti gli altri compiono il male spinti dal carisma di Alex ed in quanto figli di una società malata, lui invece compie il male scientemente, poiché le sue azioni si basano proprio sulla conoscenza della dicotomia bene/male e sulla scelta di compiere quest’ultimo. 

Alex è infatti l’incarnazione della dicotomia stessa, in quanto è un ragazzo molto colto, appassionato di opera, di Beethoven, sa benissimo cosa sia la bellezza, tuttavia sceglie deliberatamente di perseguire atti di estrema violenza, cosciente delle implicazioni negative della stessa, senza però interessarsene. La differenza fondamentale con gli altri componenti della banda è che questi compiono il male a fini materialistici e per porsi in antitesi con la legge; Alex invece sceglie la via della violenza per puro piacere personale, la sua si può considerare una sorta di “estetica del male”, in cui egli sfoga la sua personalità duale privandola da ogni inibizione.

Questo personaggio, nonostante sia consapevole di essere inserito in una società, si comporta come un essere umano in uno stato ancora primordiale, il cosiddetto “stato di natura”, ossia quella condizione nella quale l’uomo non è ancora inserito in una società e dunque dà sfogo alle sue pulsioni primarie compiendo anche il male. Ma come si comporta lo Stato nei confronti di tali atti di violenza? L’intento dell’autore e del regista di Arancia meccanica è quello di denunciare uno Stato che privilegia la via del lavaggio del cervello, rappresentato emblematicamente dal cosiddetto trattamento sperimentale Ludovico, che più che una cura rappresenta una vera e propria tortura atta a distruggere la violenza di Alex, per far sì che egli si trasformi in una sorta di automa congeniale alla società in cui è inserito. 

Ed è proprio il finale del film a rappresentare pienamente la naturale inclinazione dell’istinto umano: mentre Burgess nel libro preferisce un finale in cui Alex alienando pienamente se stesso allo Stato, si ricolloca pacificamente nella società, redento dalla violenza compiuta in passato, Kubrick fa decisamente di meglio! La scena con cui si chiude il film fa capire che la redenzione di Alex è solo apparente, poiché rimane latente nel suo inconscio la sua tendenza alla sregolatezza, a dimostrazione del fatto che le pulsioni umane non possono essere soppresse, poiché restano latenti nell’uomo che, come il protagonista del film, continua a proiettare nella sua mente tutte le sue perversioni, dunque Alex rimane di fatto se stesso, incarnando un moderno Dioniso nietzschiano. 

 

Federica Parisi

 

NOTE:
1. Platone, La Repubblica, libro X, 617e                                                                                                                              

[immagine tratta da un fermo immagine del film di Kubrick]

lot-sopra_banner-abbonamento2021                                                                                                                                          

 

Alex De Large ossia l’uomo roussoniano prima dei vincoli imposti dalla società

Spesso ci si interroga sull’origine delle leggi, se esse siano effettivamente efficaci e sul perché bisogni sottoporvisi. Ne discusse Platone sino ad arrivare a Rousseau e tuttora il dibattito è aperto. Oggi di fronte alla attuale situazione sociale ci si chiede come uno Stato dovrebbe comportarsi o perché un cittadino debba sottopormi a leggi anche quando sembrano minare la mia libertà e la mia possibilità di scelta. Difficile poter dare una risposta date le variabili infinite che si possono considerare.

Le leggi per Platone ne La Repubblica sembrano essere necessarie per il benessere dello Stato e per evitare che esso collassi sotto rivolte e repressioni. L’accento non è ancora posto sul singolo cittadino, ma il singolo è preso in analisi all’interno della società di cui fa parte. Con Rousseau chi viene messo al centro della discussione è l’uomo, il singolo cittadino. Nel Discorso sull’Ineguaglianza Rousseau descrive il momento storico in cui il singolo viene strappato dal suo Stato di natura e gli vengono imposti dei vincoli. La domanda sorge spontanea: l’uomo ha una natura buona se riesce a vivere nello Stato di natura senza autodistruggersi e distruggere gli altri?

Il romanzo di Anthony Burgess, Arancia Meccanica, e il successivo adattamento cinematografico diretto da Stanley Kubrick ci mostrano che l’uomo non è per natura buono, ma che, al contrario, ha bisogno di leggi che lo limitino. Allo stesso tempo è efficacemente dimostrato dalla sorte del protagonista quanto sia fondamentale per ogni uomo continuare ad avere la possibilità di scegliere. La scelta implica un’azione e l’agire dell’uomo deve essere guidato da leggi di riferimento dal momento che l’uomo ha degli istinti naturali di sopraffazione. L’uomo, quindi, può essere libero di agire solo all’interno del sistema di leggi a cui sceglie di sottoporsi.

Alex De Large vive in una Londra distopica dove si è affermato un governo violento e si è declinata conseguenzialmente una società che lo rispecchia. Regna il caos sin dalla prima inquadratura. Alex rappresenta l’uomo nel suo stato naturale, lo stato in cui verserebbe se la società non gli avesse imposto dei processi civilizzanti; compie atti violenti e non sa porre freno ai suoi impulsi. Venendo imprigionato per uno dei suoi crimini si assiste, attraverso un primo piano spiazzante, ad un Alex costretto alla conversione: viene, infatti, costretto a leggere i Testi Sacri. Emblematicamente Alex viene fatto venire a contatto con la religione la quale, simbolicamente, dovrebbe rendere sudditi di una legge eterna gli uomini. Il nodo cruciale è che il protagonista, solo attraverso torture immani sia psicologiche che fisiche, viene addomesticato ad odiare la violenza: non cambia la sua natura, semplicemente attraverso il terrore del dolore che potrebbe provocargli il commettere atti violenti preferisce non agire. Alex non ha possibilità di scelta. Il suo è uno sguardo vuoto e davanti ad esso dovremmo rabbrividire, ma siamo portati a simpatizzare nei suoi confronti. Alex è un monito: è l’immagine di ogni uomo.

Kubrick nella scena finale ci pone dinanzi un dilemma: l’omologazione e la privazione della scelta attraverso atti violenti da parte dello Stato possono essere una via d’uscita per abolire la disubbidienza civile? La risposta la si ha nell’ultima scena: Alex riprende lo sguardo dell’inquadratura iniziale del film: neanche la tortura è riuscita a cambiare l’indole umana. L’indole umana solo attraverso leggi può essere civilizzata e la civilizzazione non deve creare una società di arance meccaniche, ma dei cittadini consapevoli; terrore e sopraffazione creano automi, uomini privi di umanità.

Il capolavoro di Kubrick trova il suo punto di forza nella geniale sceneggiatura, scritta dall’autore dell’omonimo romanzo, e nella scelta delle inquadrature: la gran parte sono puntate sugli occhi dei protagonisti specchio della loro impersonalità che è il prodotto di una società che li ha creati non educati.Questo pezzo di storia del cinema è il nostro specchio, posti dinanzi al nostro riflesso dobbiamo chiederci: è questo ciò che potremmo diventare? Le risposte sono molteplici e si devono cercare senz’altro alternative che ci portino a rivalutare e soprattutto a riflettere su ciò che vogliamo essere.

 

Francesca Peluso

 

[In copertina un fotogramma del film Arancia meccanica]

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FANTASCIENZA: TRA CINEMA E LETTERATURA

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QUANDO LA VITA DIVENTA FANTASCIENZA: ADDIO MR. SPOCK

Cinema e letteratura sono arti legate tra loro da legami molto profondi. Nelle precedenti recensioni a quattro mani ve ne abbiamo illustrati alcuni, ma non c’eravamo ancora soffermati su un genere che ha costruito gran parte del nostro immaginario collettivo, grazie a molteplici libri e ad altrettanti film. Stiamo parlando della fantascienza, genere di narrativa popolare, sviluppatosi nei primi del Novecento prendendo spunto da quelli che erano conosciuti come romanzi scientifici. Il cinema ha capito fin da subito l’enorme potenziale attrattivo che questo genere poteva offrire al grande pubblico e si è lanciato in una serie di futuristici adattamenti che hanno caratterizzato gran parte della storia cinematografica, dal secondo Novecento fino ai giorni nostri. Solo un film però, ha saputo imporsi più di altri nel cuore degli spettatori. Stiamo parlando di “Star Wars” e di tutto l’universo ad esso collegato. Una saga che vanta milioni di seguaci nel mondo, e il cui unico rivale nel genere può essere individuato in “Star Trek”. Quest’ultimo è un media-franchise che ha avuto inizio nel 1966, partendo da una serie televisiva e non da un film, come nel caso di “Guerre Stellari”. La trama narra delle vicende degli umani del futuro, appartenenti ad una Federazione Unita dei Pianeti che riunisce sotto un unico governo numerosi popoli di sistemi stellari diversi, e delle loro avventure nell’esplorazione del cosmo, “alla ricerca di nuove forme di vita e di civiltà, fino ad arrivare là dove nessuno è mai giunto prima”. Un format che ha raccolto premi e consensi senza precedenti, anche grazie alla presenza di un personaggio entrato nella leggenda: il signor Spock. Presente nella serie classica fin dagli anni Sessanta, questo personaggio è diventato un modello di riferimento per la sua capacità di trasformare la propria vita in un film di fantascienza. Ne è un esempio lampante il retroscena sulla nascita del gesto di saluto vulcaniano, raccontato dall’attore Leonard Nimoy in un’intervista. Prendendo spunto dalla tradizione ebraica, il saluto che Spock compie in moltissimi episodi della serie deriva proprio dal gesto che compiono i cohanim durante la celebrazione della festività di Yamim Noraim, quando stendono in gesto benedicente le palme di entrambe le mani, con i pollici allungati in fuori ed il medio e l’anulare separati in modo che ciascuna mano formi due lettere V con una sorta di tratto aggiuntivo rappresentato dal pollice stesso. Questo gesto simboleggia la lettera ebraica Šin, la prima lettera della parola Shaddai, “Signore” in ebraico.

In realtà, come racconta Nimoy nell’intervista, tale gesto non può essere osservato direttamente dai fedeli, che lo devono ricevere con il capo velato da uno scialle, ma all’epoca (Nimoy aveva otto anni) lo osservò di sottecchi. Quando in seguito chiese una spiegazione del perché non fosse possibile osservare il gesto, ottenne la risposta che tale era il potere della Shekina, l’aspetto ‘femminile’ del Signore, evocato da esso, che poteva risultare fatale a chi lo osservava. Pur non condividendo questo aspetto della credenza, Nimoy fu talmente impressionato dal contenuto mistico sotteso da importarlo in seguito nella serie televisiva. La trovata di portare un aspetto così reale in una fiction che esplorava i segreti dell’ignoto fantascientifico, fu totalmente rivoluzionaria. Leonard Nimoy purtroppo ci ha lasciato nelle scorse ore all’età di 83 anni a causa di un tumore al polmone che l’ha consumato troppo in fretta. Attore, regista, scrittore e molto altro, la sua figura è un modello perfetto per farvi capire come non solo la vita possa unirsi talmente tanto all’arte da non poter più esserne separata, ma anche di come cinema e letteratura si siano compenetrate in questo attore straordinario. Per stessa ammissione di Nimoy infatti era nata in lui una sorta di identificazione mitica con Spock, l’alieno solitario e vulcaniano sul ponte dell’astronave. Un’ambivalenza che è diventata soggetto di due libri autobiografici, “I Am Not Spock” (Non sono Spock), pubblicato nel 1977, e “I Am Spock” (Sono Spock), pubblicato nel 1995. Cinema e letteratura di nuovo insieme non solo in uno dei più importati prodotti artistici del Novecento, ma anche all’interno di una singola persona. Con Leonard Nimoy la fantascienza non è mai stata così reale e ora che ha lasciato questo mondo terreno, potrà tornare tra le stelle e mettere in atto il motto ripetuto durante tutta la vita: “Long live and prosper”.

Alvise Wollner

FANTASCIENZA: UN GENERE DI ESCLUSIONE O TOTALIZZANTE NELLA SFERA INDIVIDUALE?

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Il 5 aprile 1926 esce negli Stati Uniti la prima rivista di fantascienza: “Amazing Stories”, diretta da Hugo Gernsback. Una data a cui, per convenzione, si fa risalire la nascita del genere fantascientifico. Quel genere che cattura l’attenzione dei più, quel genere che incuriosisce perché ignoto e al di fuori dell’esperienza comune, quel genere che racconta l’individuo da punti di vista differenti da quelli che conosciamo meglio. E’ la novità, è il gioco del cambiamento veloce, la pura commistione della scienza all’interno della società.
Sviluppatosi maggiormente nel ‘900, collocandosi sempre in quel margine sottile che divide e al tempo stesso unisce cinema e letteratura, era possibile ritrovarla già da tempo in opere precedenti. Soltanto un titolo, per citare un esempio: Frankestein, di Mary Shelley. L’esempio del “mostro” che è espressione non soltanto di ciò che è diverso, ma anche di quelle che sono le nostre paure. La scienza e l’esempio dell’operare illecitamente del dottore: quanto può la scienza spingersi nella sperimentazione dell’individuo? Quando la scienza prevale sulla società, annientandola? Temi di bioetica; spesso il romanzo con tratti fantascientifici ci ha offerto questi spunti di riflessione.
Nella pubblicazione di Amazing Stories, il direttore Gernsback annuncia di voler esporre

“…quel tipo di storie scritte da Jules Verne, H. G. Wells ed Edgar Allan Poe – un affascinante romanzo fantastico in cui si mescolino fatti scientifici e visioni profetiche”. 

“Ventimila leghe sotto i mari” rappresenta l’anticipazione di quel genere fantascientifico del ‘900: mescolando la ricerca del mostro degli abissi e la coscienza di chi si è distaccato dal mondo degli uomini, crea un classico fondamentale della letteratura di tutti i tempi. Leggerlo ci rende sognatori anche ai giorni nostri: perfino noi che siamo testimoni di un progresso scientifico continuo e che sull’ignoto non ci sembra avere alcun dubbio.

Da queste basi essenziali, punti di partenza per chi ama la scienza e chi non la ama, il ruolo di essa nell’impatto con la società verrà affrontato sempre più da vicino: Huxley, Orwell, Burgess.
L’uomo proiettato nel futuro, l’individuo osservato da poteri dispotici attraverso meccanismi di generazioni ancora sconosciute. L’uomo evoluto, o l’uomo sotto controllo? L’uomo educato dalla società, o l’uomo sopraffatto dal progredire stesso di essa?
Alex del celeberrimo “Arancia Meccanica”, capolavoro letterario di Burgess, è un carnefice che diventa in prima persona una vittima della sperimentazione e della ricerca. La “terapia Ludovico” prevede la somministrazione di un farmaco molto pesante e la visione di film con scene di ultra violenza: il tutto è accompagnato dalla nona Sinfonia di Beethoven nel sottofondo, tanto adorata dal protagonista. Terapie di sperimentazione, che rappresentano il confine tra scienza e il momento in cui l’individuo, seppur colpevole di crimini, diventa incapace di difendersi dalla società stessa.

La fantascienza non è qualcosa di così distante da noi, ma è capace di investire le sfere di ogni individuo, senza distinzioni di genere o classe, senza differenze di animo o predisposizione.
Una scienza che domina su tutto, autoaffermandosi per dar vita al progresso; una società che non è sempre pronta ad accogliere l’evoluzione positivamente, perché il più delle volte, è destinata a soccombere.

“L’umanità teme sempre quello che non riesce a capire”.

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Cecilia Coletta

[le immagini sono tratte da Google Immagini]