Guida allo studio della filosofia tra l’Italia e la Germania

Per molti studenti italiani di filosofia la Germania è un pensiero, magari anche solo per un Erasmus, visto che molti dei grandi filosofi dal ‘700 ad oggi hanno scritto in tedesco. Per quanto leggere Kant e Heidegger in lingua originale e camminare nelle aule in cui Adorno e Hegel facevano lezione eserciti un indubbio fascino, va precisato che tra Italia e Germania il modo di studiare la materia, e probabilmente di intenderla, è piuttosto diverso. Da studente italiano emigrato a Berlino per la magistrale cercherò di offrire una breve guida, che possa far capire se lo studio in terra tedesca faccia per voi o meno.

Prima di tutto in Germania le Vorlesungen, le classiche lezioni frontali italiane, sono poche e concentrate soprattutto nei primi anni di triennale. In seguito prevale la forma del Seminar, in cui gli studenti devono leggere di settimana in settimana dei testi per poi discuterli in classe. I professori possono organizzare i seminari in modo differente: alcuni si limitano a moderare il dibattito, altri lo integrano con spiegazioni e approfondimenti. In ogni caso allo studente è richiesto non solo di seguire la lezione, ma di parteciparvi attivamente con domande, interventi, relazioni e proposte di nuovi testi da affrontare.

Anche la modalità di esame è diversa: se in Italia prevalgono le prove orali o al massimo scritti dove rispondere a delle domande aperte, in Germania la quasi unica forma d’esame è l’Hausarbeit, ovvero un saggio (di solito dalle 15 alle 25 pagine) in cui approfondire un argomento del corso.

Lo studente tedesco termina di conseguenza gli studi con la capacità sia di dibattere (grazie ai seminari) sia di scrivere (grazie agli Hausarbeiten) ed è inoltre abituato a muoversi all’interno di un tema dato per ricercare fonti e sviluppare l’argomento autonomamente. Dal momento però che le lezioni di storia della filosofia sono poche e in Germania filosofia non è studiata al liceo, capita che gli studenti tedeschi arrivino con dei buchi enormi in certi ambiti (mi è capitato ad esempio che in una lezione nessun allievo sapesse spiegare la differenza tra res cogitans e res extensa in Cartesio). In generale, le lezioni prevedono uno scarso inquadramento storico e teorico, preferendo partire direttamente dai testi. Può quindi capitare che gli studenti tedeschi affrontino Platone iniziando direttamente a leggere La Repubblica, facendo seguire una discussione su cosa sia la giustizia e come oggi venga intesa nel governo piuttosto che confrontare le posizioni platoniche con quelle dei sofisti.

Lo studente italiano arriva dunque alla fine del suo percorso universitario con una conoscenza di base più ampia e solida, che talvolta però rischia di diventare sterilmente enciclopedica poiché egli non è stato abituato a rielaborarla criticamente. Il modo in cui il sistema è strutturato conduce poi spesso alla paradossale situazione per cui la tesi di laurea risulta essere il primo, e forse unico, momento in cui lo studente italiano di filosofia si trova a dover scrivere un saggio sugli argomenti studiati.

Credo che questa differenza si basi su un modo piuttosto diverso di concepire la filosofia, o quantomeno la sua funzione attuale nel mondo. La mia impressione è che in Italia sia percepita come un sapere specialistico, sistematizzato a scuola e approfondito all’università; una materia autonoma con regole proprie, a cui approcciarsi è difficile per un non specialista proprio perché non conosce la terminologia adeguata e lo sfondo teorico in cui inserire un certo concetto.

In Germania invece la filosofia viene maggiormente intesa come uno strumento per imparare a pensare e di conseguenza per capire il mondo; come un modo di ragionare utile a comprendere le grandi domande del presente. Una delle prime prove in tal senso l’ho avuta proprio durante la mia prima lezione a Berlino. Introducendo il corso su Kierkegaard la professoressa aveva subito specificato di non essere interessata a capire cosa esattamente abbia pensato l’autore, a discutere ore sullo slittamento di significato di un certo termine da Hegel a Kierkegaard. Anche perché l’unico a poter fornire una risposta certa su elucubrazioni di questo tipo sarebbe lo stesso filosofo danese, che è però ahimè morto. La preoccupazione principale per lei era capire cosa i testi di Kierkegaard hanno da dirci oggi e come interrogano ciascuno di noi.

Trovare una mediazione tra due metodi tanto diversi non è semplice ma sarebbe auspicabile, in modo che le aule di filosofia si trasformino in palestre democratiche dove poter discutere attivamente i testi e non solo sentirli spiegati in una lezione frontale. Una discussione però che necessita di base teoriche forti per poter imparare dai pensatori del passato e costruirsi un’opinione fondata.

 

Lorenzo Gineprini

 

[Credit Sharon McCutcheon]

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Scuola e l’armonia fra conoscenza e conoscente

La scuola rappresenta uno dei malesseri più intrinseci della nostra epoca, perché sta per avverarsi un cambiamento di prospettiva non ancora così evidente. La scuola non è un’istituzione, ma una strada, che conduce al mondo, al centro di sé. Viviamo in un momento storico per nulla rettilineo, ma che ruota attorno a se stesso, e non riesce a guardarsi, a ritrovare la via su cui dirigersi.

Tuttavia, esistono scuole alternative che propongono un nuovo punto di vista sull’educazione, e una di queste è la scuola steineriana. Fondatore dell’antroposofia, la pedagogia del filosofo austriaco Rudolf Steiner prende in considerazione non tanto la dimensione psicofisica del bambino in sé, quanto lo sviluppo della stessa. Steiner elabora un sistema che intende inglobare l’intera crescita del bambino, adattando l’apprendimento ai suoi stati di cambiamento, e non viceversa.

L’insegnamento non è puro inserimento di nozioni, ma la conoscenza deve essere adeguata alle potenzialità del bambino. Ogni argomento non è solo narrato dal maestro, bensì sviscerato dalla creatività della classe, che vi dedicherà disegni, storie, rappresentazioni teatrali, manufatti. La conoscenza non va inculcata, ma bisogna attendere il momento giusto perché possa essere accolta, ed esperita. L’educazione è un percorso, accidentato e imprevedibile, in cui il bambino è il viandante e necessita di punti di riferimento.

Della scuola steineriana, bisogna considerare tre elementi fondamentali.

Il gioco libero
Soprattutto i bambini più piccoli hanno spazi di tempo dedicati al gioco libero, in cui hanno a disposizione diversi giochi od oggetti, e con essi la possibilità di usarli in totale libertà, senza l’intervento dell’adulto. L’obiettivo è quello di stimolare la creatività del bambino, permettergli di fare esperienza, di valutare il pericolo. Tuttavia, a questa virtuosa caratteristica segue il corollario, per cui il bambino deve giocare da solo. Non deve subire alcuna influenza, per far sì che da solo sviluppi la sua creatività, ma ne può conseguire che i bambini abbiano difficoltà nelle relazioni, e che sia difficile imporre una disciplina.

L’importanza della noia
Il momento della noia si configura come un’occasione, in cui il bambino sfrutta tutte le sue energie, per trovare un rimedio a tale stato negativo. Inoltre, in particolari momenti della crescita, la noia rappresenta il momento di passaggio, grazie al quale il maestro capisce che il bambino è saturo di ciò che ha appreso, ed è maturo per accogliere il nuovo. Se, tuttavia, tale metodo si sposa meglio con le indoli più docili, non sempre si rivela adeguato per i caratteri più ribelli. Un bambino iperattivo, per esempio, non riesce sempre a colmare il vuoto della noia, così da giungere a uno stato di frustrazione, che lo porterà allo sfogo sui compagni, o a dedicarsi ad attività estreme.

Non vi sono differenze di genere o culturali
Sia i maschi che le femmine imparano a cucire, a lavorare il legno o in giardino. Se tutti i bambini possono ascoltare le favole, o imparare a contare, allora una bambina può usare chiodi e martello, o un bambino cucire una borsa da sé.
La scuola steineriana tende a sopraelevarsi sulle differenze culturali, poiché non ha uno specifico indirizzo religioso o politico. La religione non è insegnata in quanto dottrina, ma, conformemente al metodo, si apprendono i suoi fondamenti al momento opportuno, posti sullo stesso piano della mitologia norrena o greca. Ogni scuola è modellata secondo la cultura del paese in cui è stata fondata, e nessun membro ne è escluso. L’obiettivo della scuola steineriana non è quello di formare delle menti colte, ma di accompagnare la crescita dello studente, nel modo più armonioso possibile.

La scuola steineriana, lungi dall’essere perfetta, può comunque essere una fonte di ispirazione, per elaborare un nuovo metodo pedagogico, che faccia tesoro dei suoi insegnamenti, e che meglio si adatti alle esigenze della nostra epoca.

Vi sono, inoltre, due considerazioni da non dimenticare. La scuola steineriana si basa su un pensiero filosofico, ovvero critico, che ha assunto il problema dell’assimilazione del sapere e ha creato un metodo, affinché la conoscenza e il conoscente combacino senza farsi violenza. Si tratta dell’esempio più lampante di come la filosofia si realizzi nella pratica, e ne diventi un pilastro portante.

Infine, bisogna ricordare che la scuola, qualunque essa sia, non può insegnare la cultura, bensì introdurre a essa. La cultura è un’esperienza intrapersonale, fra noi stessi e quell’io inaspettato, che si scopre fra le pagine di un libro. Per quanto ci si sforzi, resta spesso inenarrabile.

La scuola deve tracciare, invece, una strada fra i mali del mondo, per indicare il bene dietro di essi, e permettere che il viandante li riconosca dentro di sé1.

Fabiana Castellino

Fabiana Castellino è nata nel 1990 in Sicilia.
Si è laureata in Scienze filosofiche con lode, all’Università di RomaTre, con una tesi su Arthur Schopenhauer.
Ha maturato diverse esperienze nell’educazione dei bambini, prima con disabilità, e adesso svolge un progetto di volontariato europeo presso una scuola Steineriana in Belgio.
La lettura e la scrittura le sono state compagne sin da bambina, e l’hanno sempre guidata nelle sue scelte, professionali e di vita.

NOTE:

1. In questa sede non è stato possibile spiegare nel dettaglio le caratteristiche della scuola steineriana. Per chi volesse conoscere più a fondo la filosofia di Steiner, e le scuole steineriane in Italia si consigliano i seguenti siti www.rudolfsteiner.it; www.rsarchive.org., e infine il video su youtube Waldorf-100 The film

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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A-scuola per una pedagogia emotiva

Un alfa privativo per rimuovere, smeccanizzare e decostruire un sistema dato. Dietro a quella singola “A” si nasconde un mondo, attraverso una lettera diamo a noi stessi la possibilità di rivalutare completamente quel che sembrava certo, non bisognoso di cambiamento. In effetti la scuola dal 1978 ad oggi non ha mai pensato seriamente di dover mettere in discussione se stessa. Una scuola senza la parola “scuola” per come la intendiamo oggi, per come viene ormai banalizzata, e non vuol dire un’eliminazione totale. Certi termini rischiano di diventare obsoleti, forse, quando essi iniziano a corrispondere ad un’immagine mentale comune, una rappresentazione statica per ognuno di noi. Scuola senza scuola non è dunque un inno all’anarchia pedagogica, bensì un terremoto contro lo status quo, contro la prigionia di una parola e di un’istituzione indifferente allo sguardo del cittadino accomodato, dello studente in crisi, dell’insegnante rassegnato.

Proporre uno stravolgimento teoretico del termine per metterlo in discussione, per interrogarlo su cosa realmente esso significhi ora. Che cosa vuol dire scuola? Le risposte potrebbero essere tra le più fantasiose e creative, mentre la realtà dei fatti ci ricondurrebbe sempre in quell’aula, con una media di venti o trenta banchi, in fila per due o per tre, di fronte ad un banco ben più grande, imponente ma non più importante, ovvero la cattedra. Già in questa disposizione vi è una disparità, un gap incolmabile tra il servo e il padrone, hegelianalmente parlando. La conseguente metodologia spesso ricade in un’esposizione, l’incontrovertibile lezione frontale, una trasmissione delle conoscenze acquisite dal padrone, il professore, nei vasi vuoti rappresentati da quegli studenti-schiavi. Fermandoci qua con questi sufficienti dati vi chiederei: vale davvero  la pena di identificare l’apprendimento e la crescita dei bambini prima e ragazzi poi con la parola “scuola”? La risposta e la ribellione non sono poi così scontate perché intraprendere un percorso di cambiamento, una via alternativa a quel “si è sempre fatto così” è un passo troppo lungo per molti.

Se andassimo a chiedere ai “grandi”, a chi è coinvolto in questo sistema da tempo, riceveremmo sempre la solita risposta rassegnata, l’annichilimento di sé per una mezza vita e mezze soddisfazioni, fino ad una mezza scuola. “I grandi sono così”, direbbe anche Antoine de Saint-Exupery, autore de Il piccolo principe, e proprio con questo suo breve romanzo molti si scontrano troppo tardi oppure in modo puramente teoretico. Anche qui è palese l’arretratezza del nostro paese rispetto ad altri come Finlandia e Norvegia ove pratica e teoresi trovano un equilibrio in funzione del problem solving. Partire dal problema in questione per elaborare strategie di risoluzione, partire dalla pratica per un apprendimento esperienziale. In Italia pochi capiscono le parole de Il piccolo principe e si abbandonano alla nostalgia, all’esaltazione per dei concetti semplici e che andrebbero praticati ed incarnati, non solo ammirati.

Difatti la scena seguente a quella dell’aula-tipo, dell’immagine comune che abbiamo della scuola, è data dal sempre crescente individualismo. Si entra nella logica dell’appartamento, del singolo soggetto, nel proprio angolo di tavolo in biblioteca, sui propri libri per il proprio risultato. Si perde il dialogo, cooperazione e team working, oltre all’interazione e la realizzazione dell’intersoggettività, fino all’abbandono all’iper-specializzazione come trionfo della divisione umana. Il tutto si conforma, nulla fuori posto, verso un omologazione di ogni componente in funzione di una sfera perfetta. La perfezione, la sicurezza a cui tende l’uomo sono pagate al caro prezzo della fantasia, dell’immaginazione e dell’emotività.

Questa la via che si prende fin da bambini, per ogni mattina, ricoprendo metà della nostra vita e del nostro essere come studenti, come teorici sempre più specializzati, sempre più orientati in modo eteronomo, attraverso una mano altrui. Piano piano entriamo a far parte del mondo dei grandi, delle dinamiche serie, impegnative, in cui non è possibile ridere, scherzare, nemmeno giocare. Il gioco e l’emotività vengono relegate nella soffitta della nostra mente, della nostra esistenza, come oggetti d’antiquariato in un mondo in continua evoluzione, sempre alla ricerca del progresso. In questo scenario le persone che incontrerete saranno automi inespressivi, terrorizzati dal cambiamento, incapaci di visione prospettica. Alla semplice domanda “che cosa ti piace davvero?” risponderanno con difficoltà, con un’apatia di fondo nelle parole “non lo so, per me è indifferente”. Si pensi che ne I demoni Dostoevskij scrive dell’indifferenza come il peggiore dei mali, così da avere in cambio un mondo estraneo all’emotività, all’espressione di sé e dei propri interessi. Lo scrivo da ventenne che sente risposte del genere dai propri coetanei, da persone che dovrebbero ugualmente seguire una linea di vitalità, di emozione e “I care” nei confronti del mondo ma in primo luogo di loro stessi.

Dal contesto scolastico dunque si delineano in modo effettivo tali dinamiche. Si costituisce un palcoscenico di un oscuro teatro rappresentante figure informi. Vasi, contenitori vagamente umanizzati che vengo riempiti di nozioni con annesse le battute di un copione pre-costituito, fino a non riconoscere più il bambino che è in noi, quella parte infantile e allo stesso tempo libera, gioiosa e giocosa capace di vedere un boa che mangia un elefante e non un semplice cappello.

Grazie a V.B.

Alvise Gasparini

[Immagine tratta da www.filosofiaesecutiva.com]

 

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Le euristiche del giudice ed il processo penale. Anche il giudice può cadere nelle trappole mentali

Il mondo della giustizia (penale) è un mondo di decisioni. Il giudice è il decisore per eccellenza. Nelle sue mani sono racchiuse le sorti dell’accusato. A sua volta l’accusato è imputato di aver deciso di trasgredire le regole su cui si fonda la comunità in cui vive. Le scienze cognitive affrontano il tema della decisione mettendo in luce come il cervello, con i neuroni, le sinapsi ed i neurotrasmettitori, determina le decisioni nell’interazione col mondo, utilizzando i percorsi “stampati” nelle connessioni cerebrali. Tutto questo è il frutto dell’apprendimento. Questo è il vero pilota della nostra vita, spesso automatico in quanto “sicuro di sé” (l’apprendimento serve proprio a non dover sempre “ragionare” su ogni scelta) e gioca una partita a scacchi con il DNA ed il caso. Ne scaturisce un uomo ben diverso da quel “legislatore universale” che vorrebbe Kant; chi potrebbe dirsi capace di decidere in modo così “angelico” come avrebbe voluto il Padre Nobile dell’illuminismo? E’ vero, l’Occidente è figlio di quella tradizione che, però, presa dogmaticamente, rischia di trasformarsi in un paradigma antistorico. Il diritto penale applicato è uno dei campi che restano maggiormente ancorati a questo dogma. Il giudice deve decidere secondo il suo “libero convincimento” ed il reo deve aver deciso con “libertà d’intendere e di volere”.

Sia concesso qualche ragionamento sul giudice. Il codice impone che la decisione sia logica, libera, rispettosa delle regole processuali. I caratteri quasi religiosi di questo strumento di gestione della collettività sono di immediata intuizione. La toga, lo scranno ed i simboli dell’Ordine giudiziario ne sono la rappresentazione “pop”. Questi sono solo all’apparenza inutili. Lo “jusdicere” deve affascinare, fare paura, creare rispetto. E non essere discusso nei suoi aspetti più profondi: quelli che attengono alla libertà del decidere. Oggi qualsiasi scienziato cognitivo afferma che è una chimera sostenere la piena logicità del nostro fare; le euristiche e cioè le scorciatoie che in ogni istante il cervello plastico prende per agire senza sorprese, determinano il fare e convincono la coscienza di aver scelto “la via giusta”. Talvolta è così; altre volte si tratta di trappole mentali che determinano i bias cognitivi e cioè errori di rapporto tra il mentale e la realtà che vuole una risposta. Questi colpiscono tutti, sempre. Sono modalità decisorie normali, utili ed adattive. Insano sarebbe un metodo diverso. E’ vero per tutti e tutto tranne che per il giudice? Non risultano individuate da nessuno le trappole mentali e dunque le euristiche causatrici di bias cerebrali specificatamente riferite alla funzione della decisione giudiziale. Di contro, la psicologia cognitiva, come è noto, ha catalogato quelle più comuni che inficiano il ragionamento.

Un seppur superficiale e non esaustivo elenco delle trappole mentali giudiziarie è necessario ed utile per una corretta comprensione della decisione giudiziaria. Alle comuni euristiche possono affiancarsi le seguenti trappole mentali tipicamente giudiziarie:

Tolomeo mental trap: la trappola mentale di Tolomeo riguarda tutti gli errori nei quali può incorrere il giudice rispetto alla prova tecnica o scientifica. Tale fonte conoscitiva esula infatti dalle sue competenze e dunque chi decide può essere fuorviato dall’idea astratta che un certo mezzo conoscitivo porta con sé (si pensi alla prova del DNA) trascurando le emergenze che nel singolo caso possono rendere non affidabile la fonte di prova.

Aristotele mental trap: la trappola di Aristotele consiste nel rischio che il giudice confonda il tipo di sillogismo da applicare in sede giudiziaria; in specie non utilizzi il metodo induttivo che va dal particolare (la fonte di prova) al generale (la prova della commissione del fatto) ma si attesti sul sillogismo deduttivo che, per definizione, non dimostra nulla in quanto la premessa maggiore contiene già la conclusione.

Wig mental trap: è la trappola della parrucca (simbolo del giudicante ma anche delle parti processuali). Si può verificare ogni qualvolta il giudice non valuti la prova così come offerta dall’istruzione ma faccia prevalere il proprio ruolo di garante della collettività e dunque si trovi a decidere in base a ciò che ritiene giusto per il ruolo ricoperto più che in base agli atti.

Josef K mental trap: è la trappola mentale dell’accusato. Nel celebre romanzo di Kafka (Il Processo) Josef K viene accusato e condannato e il protagonista stesso non trova la modalità per dimostrare l’infondatezza dell’accusa.

Giovanna d’Arco mental trap: la trappola mentale di Giovanna d’Arco può colpire il giudice nella valutazione della deposizione vittima del reato. In questi casi il giudice può dare eccessivo credito alla versione di chi lamenta di aver subìto un reato oppure, al contrario, la vittima può essere, a suo volta, “vittima” di uno svilimento delle proprie ragioni.

Dr. Watson mental trap: è la trappola mentale del poliziotto. Investe il giudice ogni qualvolta crede alla ricostruzione della polizia anche se questa diventa un postulato.

Black money mental trap: la trappola del “denaro nero” riguarda il giudizio che attiene ogni utilizzo sospetto del denaro stesso.

Eyes mental trap: la trappola mentale degli occhi attiene a tutte quelle situazioni in cui il giudice deve porsi nella condizione di “cosa avrebbe visto” l’agente prima della commissione del fatto e non già “guardando” al suo comportamento in ragione dell’evento accaduto.

Ink mental trap: la trappola dell’inchiostro si ha ogni volta in cui il giudice è chiamato a decidere sulla base di documenti o, ancora di più, di intercettazioni trascritte. Queste ultime possono infatti essere lette in svariati modi e sensi in quanto la trascrizione scritta delle medesime non permette di comprenderne i toni e dunque il valore “indiziante” delle medesime.

Due process of law mental trap: la trappola mentale del “giusto processo” è l’errore di sistema processuale per cui il giudice sente per prima la versione dell’accusa. Questa garanzia giuridica per l’accusato, sul fronte delle scienze cognitive, costituisce trappola mentale in quanto i neuroni vengono “segnati indelebilmente” dalla prima versione proposta (al giudice).

Pop justice mental trap: la trappola causata dal “lato pop” della giustizia attiene a tutte quelle influenze esterne che possono riverberarsi sul processo (si pensi alla così detta giustizia mediatica) ma ancora di più riguarda la funzione general preventiva della pena. Questa infatti può portare il giudice a decidere proiettandosi verso la società e non già rimanendo strettamente legato alla prova.

Old sage mental trap: è la trappola mentale del “vecchio saggio” o “saggio precedente giurisprudenziale” preso in esame dal giudice. In realtà è esperienza comune verificare come la giurisprudenza, anche consolidata, non sia sempre immediatamente utilizzabile come “stare decisis” in una nuova.

Hans Georg Gadamer mental trap: la trappola mentale di Georg Gadamer si verifica ogniqualvolta in giudice applica l’ermeneutica in luogo dell’epistemologia. L’ermeneutica, infatti, metodologia tipica dello storico, consente di “riempire” i vuoti informativi usando la scienza propria dell’interprete. Comprendere le trappole mentali del giudice non è un modo per svilirne l’attività ma, anzi, per consentire una maggior aderenza giuridica delle sentenze alle esigenze imposte dalle regole sulla prova penale.

Luca d’Auria

[Immagine tratta da Google Immagini]

Una mattina a scuola…

Le cose che accadono sono molte. Quelle che possono accadere, ancora di più.

Tutto quello che riusciamo a immaginarci è ipoteticamente possibile, il modo in cui potrebbe manifestarsi è addirittura infinito.

Le cose, quando avvengono, si verificano sotto forma di eventi. Di essi ne abbiamo un vasto assortimento: dire «grazie» a qualcuno, regalare un mazzo di fiori, tirare un schiaffo, perdere un treno, rispondere al telefono, scrivere un libro, e così via.

Gli eventi, però, ci fanno pensare. A volte non sappiamo quali siano i loro confini temporali o spaziali, ma siamo certi che sono avvenuti, che stanno accadendo ora o che si svolgeranno nel futuro.

«Federico si è preso il raffreddore!». Sì, ma, quando? Dove?» 

«M’innamorerò!» D’accordo, ma esattamente quando avverrà? »

Un evento può essere semplice, complesso, universale, particolare, ma a fare la differenza è principalmente il modo con cui lo si guarda. È la prospettiva da cui lo spiamo che conta maggiormente.

Evento I, Scenario I, Visione I

Scuola primaria: l’insegnante entra in classe alle 08.25 e termina la lezione alle 12.30.

Ci troviamo di fronte a un unico grande evento, con un inizio e una fine? Davvero possiamo dire che l’insegnante ha fatto lezione in un preciso luogo e in un preciso momento? E quali sono le conseguenze se considero questo evento solo da un punto di vista generale? Di certo perderò una grande quantità di elementi che mi avrebbero aiutato a comprendere meglio ciò che nei fatti è davvero avvenuto nella classe.

Già, ma cosa?

Gli accadimenti, anche quelli più semplici, non sono così innocui se si ha la pazienza di starli a guardare. Se il nostro obiettivo consiste nell’analizzare alcune dinamiche che sappiamo essere comprese all’interno di un certo evento, dunque, dobbiamo guardarci dal semplificarlo. Dobbiamo sostare fra le spaccature delle cose, dei minuti, dei secondi, dei banchi e dei gessetti, per vedere cosa funziona e cosa invece occorre lasciar andare.

Tale atteggiamento ci porta a rivalutare la nostra opinione sull’ordinarietà di certi eventi. Lo scenario I, che credevamo povero di dettagli, è invece un universo d’informazioni fondamentali per chi sa guardare, ovvero per chi sa cosa cercare.

Evento I, Scenario I, Visione II

Scuola primaria: l’insegnante entra in classe alle 08.25 e termina la lezione alle 12.30.

Ma lì dentro vi è un continuo susseguirsi di eventi, di ogni tipo, tutt’altro che slegati tra loro.

A albero, B barca, C camion; la lavagna, prima vuota, ora è piena di regoline scritte.

C’è lo starnuto di Giovanna e c’è Sara che accartoccia un foglio per far canestro nel cestino.

E poi Veronica che presta un colore a Federico, ma ecco un evento diverso dal precedente: quello in cui Federico le  chiedeva in prestito il colore.

C’è Luca che parla ininterrottamente con Vittoria disturbando i compagni di banco, ma anche quello dove, penna in mano e occhi sul quaderno, troviamo tutti i bambini concentrati a svolgere le somme sui loro quaderni a quadretti.

Carolina che dà un pizzicotto a Marco e Marco che scoppia a piangere.

 Daniele che offende i compagni, e quest’ultimi che vogliono che lui la smetta.

 Margherita che chiede di andare in bagno e Lorenzo che si avvicina alla cattedra lamentandosi per il mal di testa…

Tutti questi piccoli eventi sono dei particolari ai nostri occhi. Particolari che in egual misura dovrebbero esser presi in considerazione da chi si appresti a lavorare in classe. L’apprendimento è una cosa seria. Il buon apprendimento lo è ancora di più.

Se è vero che è meno faticoso conservare una visione base di ciò che ci circonda, gustandosi la realtà per eventi generali e separati tra loro (Visione I), è pur vero che ogni maestro che si rispetti non ignora alcun accadimento e come dice (scherzando) ai bambini: ha gli occhi anche dietro la testa! (Visione II).

Giorgia Aldrighetti

[immagine di proprietà di FCB]

Io cambio

«Lei è chi non è nessun altro»

                  Lorenzo, 10 anniCORNICE2-02

Alla domanda «Che cos’è il Tempo?» Agostino d’Ippona rispondeva: «Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so» (Le Confessioni, libro XI, cap. 14).

Effettivamente più cerchiamo di dare una risposta univoca e definitiva a questa domanda, più stimoleremo una costante “caccia al tesoro”, che non sempre potrebbe andare a buon fine. La trama intessuta di eventi che dà forma a quello che convenzionalmente chiamiamo “tempo” è una delle questioni più annose che rende protagonista la storia della filosofia, ma che inevitabilmente tocca e coinvolge altri campi disciplinari facendosi slalom fra trappole linguistiche, filosofiche e scientifiche che tuttora non smettono di suscitare stupore e curiosità nel lettore.

«Dammi tempo», «Sto perdendo tempo», «Mi sfugge il tempo» sentiamo continuamente uscire dalle bocche delle persone; ma esattamente a cosa ci riferiamo quando parliamo di “Tempo”?

L’interesse sembra coinvolgere non solo adulti, ma anche bambini.

Chi è dunque il tempo?

rrrrrLewis Carroll, chiedendoselo, in Alice’s Adventures in Wonderland non esita a indirizzare la protagonista all’incontro con personaggi dall’identità quasi onirica, enigmatica, ma rivelatoria. Nel capitolo VII la piccola Alice, su consiglio del Cappellaio Matto, è costretta ad “ammazzare” il suo tempo facendolo fermare, come hanno fatto gli altri personaggi, all’ora del tè.

«Penso che potreste impiegare meglio il vostro tempo» non esita a rimproverare la bambina al Cappellaio, spaesata dagli indovinelli senza soluzione continuamente proposti. Ma ecco inesorabile la risposta del suo interlocutore:

«Se tu conoscessi il Tempo come lo conosco io, non parleresti di lui così senza riguardo. È una Persona».

Alice in effetti, non parla e non chiede nulla al tempo; sa solo di doverlo battere studiando musica ed è convinta che l’orologio possa solo segnare le ore e non gli anni, poiché quest’ultimi ci metterebbero molto prima di cambiare. Ancora una volta arriva ferrea la risposta del Cappellaio:

«Ah, questo spiega tutto. Il tempo non sopporta di essere battuto. Ma vedi, se tu ci andassi d’accordo, lui farebbe quasi tutto quel che vuoi con l’orologio. Mettiamo che siano le nove di mattina, proprio l’ora di cominciare le lezioni: basterebbe soltanto che tu gli dicessi una parolina sottovoce, e il Tempo farebbe correre la lancetta dell’orologio in un batter d’occhio! L’una e mezza, ora di pranzo!».

Ma come vivono i bambini il tempo?

Un primo modo è sperimentarlo tramite il gioco. In questo momento il tempo diviene soggettivo e, quasi come un rituale, si trasforma in un esercizio, una ripetizione delle cose fatte durante le giornate: ci si sveglia, si fa colazione, si accudisce qualcuno, si lavora e se è sera si va a dormire… La cosa interessante è il lasso di tempo che intercorre fra questi momenti; durante il tempo di un gioco possono passare tre giorni come due anni, si può diventare adulti in un batter d’occhio o ritornare bambini all’improvviso.

Come affrontare la tematica del tempo in un laboratorio di filosofia?

filobambini1_lachiavedisophiaMolte persone sono convinte che un primo approccio potrebbe essere quello di prendere in esame la parola “tempo” facendo domande dirette ai bambini al fine di coglierne i diversi significati. «Il tempo si vede passare?» «Se ne può misurare il passaggio?» «Il tempo passa per tutti? Per le persone come per gli animali o per le pietre?» «Se non esistessero gli orologi, esisterebbe il tempo?». Tutti questi interrogativi sono senza dubbio interessanti, ma le risposte date saranno risposte convenzionali; i bambini tenderanno a dire quello che l’adulto si vuol sentir dire.

Per questo motivo Filosofiacoibambini sceglie di parlare del tempo indirettamente, non cogliendolo di petto, ma avvolgendolo dall’interno, a partire da una cosa particolare e concreta. Il tempo è, fra le tante cose, una parola vaga, un concetto ambiguo. Abbiamo una buona idea di che cosa voglia dire “essere bambini”, “essere adulti” o “essere anziani” ma ci troviamo in difficoltà nel momento in cui dobbiamo stabilire l’età esatta in cui si transita da uno stadio all’altro. A quale età si smette di essere bambini? A quale, invece, si diventa vecchi? Tutto cambia continuamente e bisogna abituarsi. Difronte al cambiamento non resta che uscire da quelle rigide categorie con cui veniamo etichettati continuamente dagli altri, o da noi stessi. I confini che delineano chi siamo noi e chi sono gli altri sono confini malleabili che cambiano di continuo.

Filosofiacoibambini lavora sul cambiamento temporale non parlando del “tempo” in sé, ma facendo intuire come le cose nel tempo non sono sempre come appaiono. Un bambino o una bambina seduta sulla cattedra, seguita dalla costante domanda «Lui/Lei chi è?», è il pretesto che muove un’ora e più di laboratorio. Con la pretesa di capire chi sia quella persona si vagliano tutte le possibilità che essa può essere: passato, presente o futuro. «È una bambina!», ma lei non è sempre stata una bambina o non lo sarà per sempre; «lei è simpatica», ma non è la simpatia. Siamo simpatici, ma è importante avere la consapevolezza di non doverlo essere sempre. «A lei piace l’hip-hop», ma lei non è l’hip-hop, non gli è sempre piaciuto e se un giorno non gli piacerà più non dovrà aver il timore di cambiare le proprie convinzioni. Questo vale per tante altre cose: sentimenti, colori e tagli di capelli, peso, altezza, stati d’animo, hobby, modi di essere… Si parte parlando di cose presenti per poi arrivare a quelle non più o non ancora presenti. Smontare e rimontare. Giocando simbolicamente con le parole i bambini sperimentano come l’atteggiamento migliore difronte al cambiamento temporale sia quello di non essere confinati entro limiti precostituiti.

Giorgia Aldrighetti

FcB team ricerca

 

I primi giorni di scuola (Part. I)

Per un bambino, i primi giorni di scuola sono fondamentali. A sei anni, infatti, non possiede ancora un’identità matura e questo lo espone a dei rischi. È importante aver cura del bambino, senza esagerare nelle preoccupazioni, ma senza neppure commettere troppe leggerezze. Anzitutto, occorre aver ben presente che il bambino passerà a scuola una quantità di tempo più che considerevole, (parliamo di circa 200 giorni l’anno per cinque anni) in uno dei momenti fondamentali del suo sviluppo e della sua vita. Farsi prendere dal panico non serve. Tuttavia, conoscere bene la scuola, la classe e l’insegnante che passerà tutto quel tempo col bambino è necessario. Il rischio di dare importanza a cose che non ne hanno, sottovalutandone altre è sempre dietro l’angolo. Consapevoli di non padroneggiare appieno lo sviluppo e di non poter avere controllo su tutto possiamo, però, allenare il nostro sguardo alle profondità di cui l’ambiente scolastico è costellato.

Cominciamo ad analizzare un antro ancora poco esplorato prendendo avvio dalle parole del grande sociologo Erving Goffman che nel suo testo fondamentale del 1959, La vita quotidiana come rappresentazione (Il Mulino, 1969), introduce e definisce il termine “équipe di rappresentazione” e chiediamoci poi come questo concetto possa aiutarci a comprendere meglio ciò che accade nella classe di nostro figlio o figlia. Anzitutto, Goffman ci dice che col termine équipe intende «un qualsiasi complesso di individui che collaborano nell’inscenare una singola routine» (ed. it., p. 97) e a noi viene subito in mente la classe: un complesso di individui che collaborano nell’inscenare una routine educativa, la routine dell’apprendimento, estremamente precisa e complessa. Una consuetudine fatta di banchi, seggiole, compagni di banco, matite da temperare, grembiuli, verifiche, maestre, ricreazioni, prese in giro, campanelle, quaderni e così via, talmente stereotipata da essere pressoché diffusa ovunque, da Nord a Sud, da Est a Ovest, nell’immaginario artistico e perfino nel sogno. Pensare alla classe, insomma, significa pensare a quello e non a qualcos’altro. Rispetto alla classe la nostra immaginazione risulta a dir poco bloccata, come se non potessimo pensarla altrimenti. In parte perché non l’abbiamo guardata a sufficienza, in parte perché forse non abbiamo mai veramente provato a cambiarla. Fatto sta che la routine è lì davanti ai nostri occhi, giorno dopo giorno, in attesa che ce ne preoccupiamo.

Basta poco per accorgersi che la classe è un’équipe estremamente sofisticata. Un’équipe che contempla la sua stessa distruzione, nonché i meccanismi di sopravvivenza che la possano contrastare, in una sorta di meta-rappresentazione o di finzione nella finzione. Se è vero, come ci ricorda Goffman, che «durante lo svolgimento di una rappresentazione di équipe, ogni membro ha la possibilità di far fallire lo spettacolo o di disturbarlo con un comportamento inappropriato» (ed. it., p. 100), ebbene, ciò non sembra valere per la classe, la quale riesce persino nell’intento di regimentare quest’eventualità. Il bambino che disturba, il monello, fa parte dello spettacolo. La routine contempla e addirittura richiede la presenza dell’elemento che la disturbi, che cerchi di opporvisi con tutte le sue forze. La maestra, i bambini, i genitori dei bambini, tutti si aspettano che la rappresentazione inciampi o venga ostacolata da qualcuno: come ho già detto, fa parte dello spettacolo dell’educazione! Nessuno ne rimane veramente colpito e la rappresentazione in questo modo si tutela da ogni reale fallimento assumendo le componenti negative che le garantiscono la necessaria protezione e il suo sereno perpetrarsi.

Ecco allora che i ruoli, all’interno di una classe, andranno distribuiti con accortezza, senza lasciare nulla al caso. Scrive Goffman a questo proposito che «il compagno d’equipe è una persona sulla quale si conta per una collaborazione sul piano drammaturgico». È certo allora che i ruoli più difficili, quello del monello da una parte e quello del primo della classe, non potranno mancare e dovranno essere obbligatoriamente ricoperti da qualcuno. Già, ma da chi? Beh, i primi giorni di scuola, importanti per tante ragioni, hanno in scaletta proprio la tacita assegnazione dei ruoli.

Per il momento basti sapere che se, da un lato, appare difficile sfuggire del tutto alla rappresentazione e a ciò che le garantisce la sopravvivenza, ovvero i caratteri principali dell’azione, dall’altro è possibile tenerla sotto controllo, a patto di vedere attraverso i personaggi, attraverso la routine. Come? Mantenendola in movimento, parlandone e facendola parlare, offrendole nuove soluzioni e portandola su terreni di cui anche lei ignora la geografia (come quello filosofico).

Continua…

Carlo Maria Cirino

Sito Filosofiacoibambini: qui

“Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo” – Malala Yousafzai –

<p>Malala</p>

« Non mi importa di dovermi sedere sul pavimento a scuola. Tutto ciò che voglio è istruzione. E non ho paura di nessuno. »

Una ragazza e il suo desiderio di conoscenza; pensare a Malala significa esattamente questo.

Una Lei cresciuta fin troppo in fretta, che ha dovuto scoprirsi capace di vivere pur dovendo prima pensare a sopravvivere.

Teneva un blog per la BBC, un blog in cui raccontava del suo paese di nascita, in cui rilasciava tutta se stessa. Con la denuncia di un sistema in cui non esiste un diritto all’istruzione, attraverso l’urlo scritto di una donna che vuole conoscere, senza limitazioni per il solo fatto di appartenere ad un genere.

Poteva essere spogliata di tutto, ma non dei suoi libri e della sua voglia di imparare. Quella che riconosceva come un’identità della sua stessa essenza. Quel desiderio di pari diritti per raggiungere i risultati prefissi.

L’apprendimento non è soltanto un diritto, ma un’opportunità.

In una dimensione che troppe volte riduciamo a superficialità, in una dimensione in cui quasi sempre dimentichiamo il valore di ciò che può realmente darci qualcosa.

Avete mai guardato i libri della vostra biblioteca dopo averli letti?

Poche volte succede. Nella maggior parte dei casi un libro può lasciare due sensazioni; quella di essersi emozionati o quella di aver imparato qualcosa di nuovo. Tuttavia, una volta letto – magari senza staccarsi un attimo dalle pagine – riponiamo il libro in uno scaffale, quasi dimenticandocene.

Eppure l’apprendimento è insito in noi, pur senza renderci conto che quel libro è stato insegnante del tempo in cui ci ha tenuto compagnia, dandoci semplicemente un tassello in più.

Malala è consapevole di questo fin dalla più giovane età. Ha fame di cultura, sete di conoscenza, voglia di arricchirsi con i molti tasselli in più a disposizione. Si definisce “secchiona”, in un’accezione completamente diversa da quella della nostra realtà.

Si descrive così con una punta di orgoglio, considerando il suo universo interiore in espansione, considerando di voler migliorare sempre rispetto a ciò che già conosce.

Battersi per i nostri ideali, battersi per la cultura. Battersi per lasciare vita ai libri, alle penne, all’ascolto di coloro la cui fantasia fluttua più della nostra.

Ogni bambino ed ogni bambina al mondo devono poter avere il diritto di imparare. Ognuno di loro deve poter diventare, se lo desidera, insegnante delle sue stesse imprese.

Ogni singolo individuo, nel rispetto della sua dignità umana e del suo diritto di sognare e realizzare i propri sogni, deve saperli leggere e riprodurre. Deve poterli toccare con mano, magari proprio come quando sfoglia i pesanti libri nelle biblioteche. Pesanti solo a prenderli in mano, perché quando ti coinvolgono ti riescono a dotare di due ali per viaggiare ad un ritmo migliore degli altri.

Malala, l’adolescente già grande che sogna un mondo in cui i libri sono protagonisti di ogni attimo.

A colpi di penna, combatte questa donna.

A colpi di pagine e pagine in cui scrive se stessa porta avanti la sua battaglia.

Cambiare il mondo con il solo coraggio non è sufficiente.

Il vero segreto è avere il coraggio di imparare.

Leggere. Scrivere. Un po’ imparare, molto di più significano vivere.

Cecilia Coletta

Bir kaşık nedir?

Il passo più importante del programma logicista di Frege (1848-1925) consisteva nel tentare di definire le nozioni aritmetiche in termini di nozioni logiche. Immaginiamo dunque che un cameriere, appena assunto e incapace di contare, avesse ricevuto dal maître l’ordine di controllare che la quantità dei piatti presenti sui tavoli della terrazza dov’era servita la colazione non fosse né superiore né inferiore alla quantità dei cucchiaini d’argento. Il cameriere, sistemato un cucchiaino accanto a ogni piatto e controllato che la corrispondenza non avesse lasciato residui (nessun piatto senza cucchiaino o viceversa), avrebbe risolto la situazione senza troppo affanno. I bambini seguono il ragionamento del cameriere senza difficoltà, intuendo che se si trattasse di un ricevimento principesco, con centinaia e centinaia e centinaia di noiosi invitati, la situazione non sarebbe semplice, come nel caso della colazione in terrazza… neppure se il cameriere si mettesse in testa di consegnare personalmente a ciascun ospite il suo cucchiaino. Le coppie dovrebbero quindi essere disposte in ordine dal cameriere, il cui colpo d’occhio potrebbe fallire nel distinguere tra chi già ha un cucchiaino e chi ancora lo deve ricevere. L’equivalenza non sembra creare problemi, neppure per un cameriere un po’ confuso. Tanti cucchiai quanti piatti, tanti piatti quanti invitati, tanti cucchiai quanti invitati: classi di classi equivalenti, mappe senza resto. Se la domanda “quanti sono i cucchiai?” non ci spaventa, ben diverso è ciò che accade se qualcuno si azzarda a chiederci “che cos’è un cucchiaio?”. Dapprima, i bambini non ci credono: <<Un cucchiaio è un cucchiaio!>>; <<A=A>>. Poi, l’idea di trovare la maniera migliore di spiegare a qualcuno che non l’ha mai visto “che cos’è?” inizia a farsi strada. I “problemi” però, sono molti… <<Un cucchiaio è una posata>>, ma lo sono anche forchetta e coltello. <<Un cucchiaio è una cosa che serve a mangiare la minestra>>, ma anche a grattarmi se una zanzara mi ha appena punto nel mezzo della schiena. <<Un cucchiaio è una cosa grigia, di metallo, con un manico lungo e una testa arrotondata>>, ma ce ne sono anche rossi, di ceramica e a forma di cuore. La classe dei cucchiai è equivalente alla classe di coloro che mangiano la minestra? <<C’è chi beve come i cani!>>, dice qualcuno. <<E chi beve dal piatto! E chi usa le mani>>, aggiunge un’altro. La situazione si fa talmente complicata che il cameriere decide di fare un annuncio, dando per certo che tutti sappiano a cosa riferirsi quando sentono pronunciare la parola “cucchiaio”: <<a qualcuno manca una posata? Avete tutti il cucchiaio?>>. Ma è sufficiente un signore qualunque, con dei bei capelli biondi arruffati. Un signore che vive in una casetta gialla lontana dal centro in compagnia di sua moglie e del suo cane Brandy, a scompigliare le cose. Perché lui mangia la minestra con il blap e a volte quando non riesce a mettersi le scarpe prende un blap e fa leva con quello. E ha blap di ferro e di legno in cucina e blap di plastica per le feste di compleanno. Basta che un giorno egli decida, contrariamente a ogni abitudine, di portare sua moglie in quel ristorante, perché il castello del cameriere crolli: <<Scusi, ci porterebbe due blap?>>. <<Che cos’è un blap?>>, chiede il cameriere… e siamo daccapo!

[*Fare Filosofia Coi Bambini vuol dire, anzitutto, recarsi in classe ogni giorno, stare coi bambini, prendere appunti, raccogliere dati, studiare, approfondire, fare ricerca. Non ci si improvvisa Filosofi Coi Bambini, né tantomeno lo si diventa automaticamente dopo un corso di formazione. Occorre tanta esperienza sul campo ed entusiasmo: ecco perché è bene diffidare da chi ne parla tanto e magari lo insegna pure, ma nei fatti non lo pratica o peggio non l’ha mai praticato. Non trattandosi, poi, di un insegnamento esoterico destinato a pochi, non può e non deve essere “venduto”: ecco perché sarebbe bene che appartenesse a molti e che non si legasse ad associazioni, categorie, gilde, col rischio di venirne imbrigliato. In vista di queste riforme e di una sempre più necessaria riflessione sullo stato della disciplina, auspichiamo nell’apertura di un canale di dialogo coi “cugini” (di secondo grado) della Philosophy for Children Italiana].

Carlo Maria Cirino

www.filosofiacoibambini.com

[immagini di proprietà di www.filosofiacoibambini.com ]

I più giovani a bordo

Essendo io il più giovane a bordo, e ancora senza il collaudo di una posizione di grande responsabilità, ero propenso ad accettare come scontata la competenza degli altri,

scrive Joseph Conrad ne Il Compagno Segreto, racconto del 1909.

Come il Capitano protagonista di quell’avventura, anche il bambino si trova, spesso, nella medesima condizione. Apparentemente sereno, cela nel subconscio la voglia irresistibile di esprimersi liberamente, di lasciar andare la sua curiosità e l’interesse per ogni percezione, ancorché deformata. D’altra parte, propenso com’è ad accettare la “competenza degli altri”, limita già da sé molti dei possibili voli ed esperimenti ai quali sarebbe istintivamente portato, fidandosi di ciò che dice il genitore, l’insegnante, l’adulto che ha vicino. E fa bene! Perché l’inesperienza in natura può essere fatale e la natura, lo sappiamo, è dovunque, specialmente per un bambino.

Imparare da chi è già passato attraverso certe prove e certi errori, permette di evitare pericoli, dolori e inutili perdite di tempo, proseguendo il miracolo dell’evoluzione culturale dell’uomo che, generazione dopo generazione, avanza senza mai (quasi mai in verità) doversi ripetere, simulando un reale e al contempo illusorio progresso, direzione, verso.

Ciononostante, la natura dà al bambino, ovvero alla parte temporale che nello sviluppo facciamo corrispondere a ciò che genericamente definiamo bambino, possibilità straordinarie. E mi riferisco in parte a ciò di cui parla, tra le righe, Aldous Huxley ne L’arte di Vedere, del 1942, ma soprattutto a ciò che ci raccontano i manuali di neuropsicologia o di neuroscienze riguardo al cervello in via di sviluppo.

Ora, questo potenziale, che fece dire a Epicuro che

mai si è troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità

e che spinse molti altri a invitare i propri interlocutori atornare come bambini, deve però essere efficacemente esplorato, pena la sua maggiore o minore dispersione.

In questo senso ecco Huxley che cita Barmark e scrive nel saggio già menzionato:

un’attenzione che si sposta liberamente è un importante sostegno dell’attività vitale. Se l’attenzione è ristretta a un campo troppo piccolo l’attività vitale tende a deprimersi.

Il bambino, come qualsiasi altro essere che attraversa una fase “infantile” dello sviluppo deve essere sottoposto a un allenamento in grado di massimizzare l’attivazione di tutto il suo potenziale. Solo così Il Mito dell’Adulto (1963) di cui parla Georges Lapassade, cadrà dinanzi ai nostri occhi, lasciandoci accorgere di quanto possa essere importante dare ascolto ai bambini, domandare la loro opinione.

Una filosofia coi bambini che sia anche una filosofia dell’infanzia, deve concentrare molte delle sue energie nel comunicare agli adulti questo genere di messaggio: che l’apprendimento non basta, occorre che sia efficace. E l’efficacia dell’apprendimento segue leggi precise che la scienza può aiutarci a scoprire, la tradizione a comprendere e il buon senso ad accettare.

Non si può apprendere efficacemente in qualsiasi luogo, in qualsiasi tempo, in qualsiasi modo e soprattutto con chiunque. L’adulto che non abbia compreso il segreto che si nasconde dietro ogni apprendimento non può trasmettere efficacemente alcun insegnamento.

Un costante lavoro su se stessi è fondamentale per chi affianca i bambini nel tempo dell’apprendimento, posto che nessuno per quanta esperienza possa avere riuscirà mai a immedesimarsi fino in fondo nella mente di un bambino: un certo grado di “luminosità” della percezione si perde nel corso dello sviluppo e non torna.

Ecco perché, se è possibile – e doveroso, a mio parere – parlare e compiere progressi in campo educativo (come si parla e si fanno progressi in campo medico, ad esempio), questi dovranno esserci d’aiuto nello sfruttare sempre meglio la breve finestra dell’apprendimento. Le neuroscienze dello sviluppo ci indicheranno la strada, ma sarà compito della filosofia guidare il cambiamento sul campo.

Carlo Maria Cirino

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