Manuale di sopravvivenza all’apocalisse robot

Domanda a bruciapelo:

“Chi sei?”

Non vale rispondere con nome e cognome.
Né per automatismo, né per tentare di delegare la risposta al proprio profilo Facebook,  scansando lo sforzo di pensarci e distraendoci con le foto della Tailandia in bacheca.

Per rispondere prova a cercare qualcosa in più:
Cosa sceglieresti per rappresentare quello che fa di te ciò che sei?

Se incontri una persona mai vista prima, è dura non notare prima di tutto i dettagli più superficiali. Allo stesso modo potresti fare tu mentre ti muovi verso “te stesso”. Soffermarti sulle caratteristiche della tua figura, il tuo stile nel vestirti. O andare un poco oltre: potresti descrivere le peculiarità dei tuoi movimenti. Sei vittima della goffaggine oppure agile, elegante? I tuoi gesti affermano un certa fiducia e sicurezza, o tradiscono la tua timidezza? E via continuando verso dettagli meno evidenti al primo sguardo. Potresti raccontare il tuo carattere. O le tue abitudini. I tuoi pregi o le tue nevrosi. La tua storia, passata e progettata, ricordi e sogni.
Pezzo dopo pezzo si costruisce una tua immagine, una tua rappresentazione, che cerca di essere autentica e aderente al reale. A quello che sei, ma che magari non sai, che non è facile raggiungere fino in fondo, completamente. Un figura in cui specchiarsi, rigirando e rivoltando il proprio profilo, cercando di capire come siamo e appariamo, possibilmente trovando il lato migliore.
Non è facile scegliere se tra queste c’è qualcosa che ci rappresenti in modo essenziale. Forse in misura diversa tutte insieme collaborano a renderci quella creatura che spesso frettolosamente etichettiamo e riconosciamo grazie a un nome e un cognome.

A volte finiamo per conoscerci meglio se abbiamo la possibilità di riconoscerci negli altri. Individuando qualcosa che ci risuona in coloro che appaiono simili a noi per questa o quella caratteristica.

Ci rispecchiamo in “qualcuno”, e ci rivediamo attraverso di lui.

Ma se invece cominciassimo a trovare ulteriori e sempre più frequenti similitudini con “qualcosa”?

L’avanzamento delle tecnologie robotiche prosegue senza sosta, e i suoi prodotti si rinnovano, si aggiornano e progrediscono.
Gli automi rinascimentali suggestionavano le corti mimando l’apparenza umana. Cavalieri meccanici che riproducevano i movimenti dell’uomo. Meraviglia in chi li osservava e stava al gioco dell’artificio teatrale. Ma poco più di una marionetta per chi riusciva a guardare al di là dell’armatura e scorgeva nell’ingegno del meccanismo un guscio vuoto d’anima.

Da allora robot e androidi si sono evoluti in molte forme, emulando caratteristiche umane, spesso migliorandole. Si pensi a tutti i compiti che richiedono un movimento ripetitivo e programmabile: più forti, più precisi, più rapidi.
Una somiglianza superficiale, che ci fa comodo e ancora non disturba. Anzi. Avere un doppio che ci sostituisce è intrigante. Il termine robot deriva proprio dal termine ceco robota, che significa lavoro pesante o lavoro forzato.

L’evoluzione scientifica è continuata, e a diventare meccanica è stata l’intelligenza. Qualcosa che è di consuetudine attribuito alla sfera dell’interiorità e della soggettività.
Intelligenza artificiale.
E le sue possibilità forse complicano le cose.

Macchine che parlano, reti neurali artificiali che elaborano informazioni, parole e immagini sino ad arrivare a riprodurre facoltà di stampo creativo. Le macchine, le “cose”, invadono il nostro territorio insomma, il campo di quelle possibilità una volta ritenute esclusiva dell’homo sapiens.
E che ne è dunque di quella marionetta vuota?
Impara a muoversi, a percepire l’ambiente circostante, a parlare il mio linguaggio e comprendermi. Si relaziona con me in modo sempre più realistico, analogico, umano. Mi somiglia sempre di più. Portandosi dietro quel vuoto di macchina, vuoto che rischia di risucchiarmi.
L’immaginario della fantascienza spesso ci ha raccontato un futuro apocalittico di terminator robotici che porteranno la distruzione per il nostro mondo di persone. Ma più che una battaglia campale tra agguerrite IA e soldati in carne ed ossa parrebbe che lo scontro avvenga sul piano concettuale. Più etereo, subdolo, inconsapevole.

Gli oggetti diventano riflesso dei soggetti, privandoli poco a poco dell’unicità rispetto a ciò che tradizionalmente li caratterizza. E lasciano ben poco in cui riconoscerci, conservando una sostanziale diversità dai macchinari. Cosa ci caratterizza in quanto umani? Cosa mi differenzia da quella marionetta vuota di coscienza?

“Chi sei?”

Sicuramente qualcuno che ha molto in comune con quella marionetta. E osservandola potrei addirittura imparare qualcosa di più su come “funziono”. E utilizzare quelle nuove conoscenze come base per costruire nuove domande. Senza esaurire la ricerca, per scoprire qualcosa di più.

“Chi sei?”

La tua apparenza, i tuoi pensieri. La tua capacità di imparare, ricordare. Il modo in cui ti relazioni con gli altri. I tuoi gesti, il tuo lavoro. E anche qualcosa di più.

Qualcosa di più.
È questo lo spazio in cui andare a cercare, per salvarsi dall’invasione dei robot.

 

Matteo Villa

P.s.: nel frattempo possiamo rassicurarci con qualche esempio di “stupidità artificiale”

 

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Apocalisse dell’amore: David Casagrande intervista se stesso

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Anzitutto mi faccia dire che trovo presuntuoso che lei abbia accettato questo incontro.

Lei voleva intervistarmi, io ho acconsentito: dov’è la presunzione? Trovo piuttosto singolare che uno chieda un favore a qualcuno, sperando che costui glielo rifiuti.

Senta, vorrei essere breve, e m’impegnerò per riuscirci: detesto ogni secondo che passo con lei.

La capisco. Starmi vicino non è facile: ho un carattere terribile. Anch’io, se fossi un’altra persona e mi conoscessi, mi detesterei. Ma partiamo, dunque!

Partiamo dall’articolo sulla meraviglia. Lei sostiene che la gratitudine che proviamo innanzi alla meraviglia si chiama “amore”. Però non spiega minimamente cosa sia l’amore: potrebbe descriverci questo sentimento?

Scrive il Tao-te-ching: «Il Tao che può essere detto non è l’eterno Tao». Tao significa sentiero: io ritengo che l’Amore-vero sia esattamente questo: il punto d’arrivo (e quello di partenza) d’una strada su cui dirigere i nostri passi. Noi uomini possiamo percorrere varie direzioni, evidentemente, ma solo la strada dell’Amore è giusta.
Il problema è che, esattamente come l’eterno-Tao della tradizione cinese, anche l’Amore-Vero lo possiamo dire in mille modi, ma non riusciremo mai a coglierlo, perché l’amore-che-può-essere-detto non è l’Amore-Vero.

Come risolvere questa scollatura tra Amore-vero e amore quotidiano?

Cercando di cogliere, per approssimazione, l’Amore-vero nelle varie tipologie di amori-umani e, una volta individuato, declinarlo nella pratica.

Sia più chiaro.

Kierkegaard insegna che l’uomo è tripartito in corpo, anima e spirito, ponendo questi tre aspetti in grado crescente di perfezione. Perfezione che, però, si raggiunge solo nella sintesi: lo spirito è, appunto, sintesi tra corpo e anima: ricomprendendo i due estremi nell’eterno che li ha posti, è perfezione. Ora, a ciascuno di questi tre lati dell’umano, corrisponde una diversa tipologia d’amore.
All’elemento corporeo corrisponde l’amore fisico, la prossimità corporale. All’elemento pneumatico dell’uomo corrisponde il rispetto, l’amicizia. All’elemento spirituale corrisponde la compassione.
Delle tre, la tipologia di amore-umano che più si avvicina all’Amore-vero, è la compassione, ed è tale perché ricomprende in sé passione e rispetto, e li infinitizza.
Quando agisco con compassione, seguo la via dell’Amore-vero, pur mantenendomi nell’ambito dell’amore-umano: questo perché la compassione, essendo universale, eternizza tanto la passione quanto il rispetto.
In questo senso, così si spiega il mio articolo del mese scorso: quando mi-meraviglio io amo, perché nelle cose che provocano stupore, avverto la gratuità dell’altro-da-me; attraverso di essa, sento in me compartecipazione alla vita-del-mondo, mi inserisco sulla strada giusta – anche se poi spetta a me seguirla fino in fondo: non basta stupirsi di qualcosa per dire: sono giunto all’Amore; la strada è molto più impervia. In ogni modo, più ci stupiamo, più avvertiamo com-passione, e più l’avvertiamo, più avviciniamo l’Amore.

Ma i fondamenti dell’uomo non sono lo scontro, la lotta, il desiderio di predominanza?

Queste sono le radici dell’homo-sapiens, cioè d’una razza di scimmie, non dell’essere-umano, cioè di quella creatura che ha studiato filosofia e astronomia. Ed è questa, in verità, la cosa che più mi spaventa di questo mondo: vedo molti homines-sapientes, ma pochi esseri-umani.

La sua teoria dell’Amore-Vero, che si manifesta in compassione, prevede anche una sorta di nobilitazione del sesso?

Non esattamente. L’amore fisico non è atto-sessuale, è piuttosto bisogno-di-contatto: ciò significa che la compassione non necessita del coito, ma della prossimità fisica con l’oggetto amato.
Tuttavia è evidente che l’atto sessuale, filosoficamente, è illuminante su come l’Amore-Vero necessiti parimenti di rispetto e contatto: quando infatti mi accosto alla persona che penso d’amare e toccandola, baciandola, penetrandola, capisco che (oltre a desiderarla) rispetto ogni sua caratteristica (anche i suoi difetti), allora giungo a capire la com-passione (passione-insieme).
Se invece non ne rispetto le particolarità, cercando in lei solo precisi canoni estetici, allora non ho più a che fare con un singolo, ma con un corpo: di conseguenza, non sto “facendo-l’-amore”, mi sto “accoppiando”.

Lei mi sta dicendo che quando amiamo il partner, l’amiamo con la stessa forza con cui dovremmo amare, generalmente, il mondo…

Le sto dicendo l’opposto! Sul mondo – su ogni ente del mondo – dobbiamo aspergere la stessa compassione che riverseremmo sulla persona che vogliamo al nostro fianco.
Tutto ciò, naturalmente, sperando di intrattenere relazioni veramente d’amore … eviterò, per signorilità, di parlare qui di altri tipi di rapporti, basati s’uno squallido do ut des: ignobile mercato delle vacche ove i favori sessuali sono scambiati con oggettistica varia. Queste “relazioni” somigliano all’Amore-Vero (e alla compassione) esattamente come lo sterco somiglia alla Sachertorte.

Come facciamo a capire che l’amore che proviamo per una persona è compassione, e ci può guidare all’Amore-Vero? Come possiamo essere certi della purezza del sentimento?

Occorre ripartire da sé stessi: vede, non esiste un solo modo di innamorarsi, non esiste un solo tipo di amore, perciò dobbiamo imparare ad ascoltare le nostre emozioni. Se, quando guardiamo una persona, proviamo solo desiderio o solo rispetto, e non riusciamo a sintetizzare le due cose, evidentemente non l’amiamo.

Quali sono dunque i sintomi dell’innamoramento?

Non esiste un’eziologia: io guardo i singoli sperando di cogliere l’Universalità, non il minimo comun denominatore, quello è compito dello scienziato (con l’evidenza che la scienza non spiega il mistero, e il senso, della totalità umana); al massimo potrei raccontare quello che è successo a me, ma non credo che v’interesserebbe. Di certo una cosa è chiara: l’Amore-Vero non chiede d’essere ricambiato: lo dimostra la vita-del-mondo, che non necessariamente ama i singoli, mentre esistono singoli che amano la vita-del-mondo.

Certo, è bello pensare che lei abbia ragione: mi spaventa sapere che lei, però, sbaglia. Il mondo è odio, terrore.

Quella dell’Amore è la-strada, non l’unica-strada. Ognuno si determina a seconda delle scelte che compie: nulla obbliga l’uomo a prendere una particolare direzione, se non vuole. Ed è evidente che chi sceglie l’Amore, oggigiorno, è in minoranza.

(continua, purtroppo…)

David Casagrande