Essenza e forme della simpatia di Max Scheler

Nel corso del Settecento è stata alla base dell’etica di David Hume e Adam Smith. E, nell’ambito della filosofia contemporanea, il filosofo Max Scheler le ha addirittura dedicato una intera opera. Deriva dal greco sun “con” e pàschein, “patisco, subisco”. Quindi “patire insieme” o “provare un’emozione con”.
Stiamo parlando della simpatia, cioè dell’interdipendenza delle cose, che si influenzano reciprocamente. Quando applicata all’ambito umano, indica la possibilità di un individuo di condividere, o almeno comprendere, emotivamente le esperienze degli altri.

Diversa dall’amore o dalla fusione emotiva, per Scheler si può provare simpatia o compassione per un dolore altrui, senza per questo provare questo stesso dolore. Si può partecipare al sentire dell’altro senza però provarlo direttamente.

«Ciò che noi, attraverso la percezione dell’altro, non potremo mai “percepire” sono soltanto gli stati del corpo vissuti dall’altro, cioè soprattutto le sensazioni degli organi e i sentimenti sensoriali ad essi connessi»1.

Quindi, di fronte allo stato di sofferenza in cui si trova immerso un altro soggetto non potremo rivivere il medesimo dolore, che inevitabilmente, essendo vincolato a quel determinato corpo e a quella determinata vita, ci è inaccessibile.
Ma la simpatia rimane essenziale per la comprensione degli altri e il riconoscimento dell’alterità delle persone. Questo perché si pone come disposizione attraverso cui noi possiamo farci carico, condividendolo, uno stato emotivo appartenente ad un altro soggetto. Si dà simpatia quando le emozioni vissute da una persona provocano una certa risonanza, originando così uno stato di “sentimento condiviso”.

In Essenza e forme della simpatia, opera pubblicata nel 1913 ma profondamente rivista e ampliata in occasione dell’edizione del 1923, Scheler parla della simpatia, considerata per lungo tempo un sentimento morale e identificata con la compassione, nonché assurta con Darwin a origine della socialità umana e della morale, in maniera opposta alla tradizione.
Per Scheler, essa rappresenta uno dei nodi cruciali e articolati dell’esperienza: si costituisce attraverso l’apertura al mondo e ai suoi significati, con un movimento di superamento dei confini dell’io e di ricezione, risposta, partecipazione e condivisione di ciò che è altro. La simpatia diventa così accesso al mondo, alle persone e alle cose.

Ma la stessa simpatia, come spiega Scheler, ha diverse forme: è co-sentire ma anche contagio, ad esempio. Se nel primo caso noi prendiamo parte alla sofferenza o gioia dell’altro volontariamente e consciamente, nella forma del contagio invece siamo come trascinati involontariamente e inconsciamente a provare quella determinata gioia o sofferenza nella misura in cui avvertiamo il pathos dell’altro come nostro.
Caso ancora diverso è quello dell’unipatia, fenomeno per il quale ci indentifichiamo in maniera completa involontariamente e inconsciamente con un altro soggetto, non limitandoci a considerare come nostro un vissuto altrui, come invece accade nel contagio, ma facendo del nostro io un tutt’uno con quello altrui.

«La genuina unipatia del proprio io individuale con un altro io è solo un’accentuazione, per così dire, un caso limite del contagio. Qui infatti un determinato processo affettivo altrui non solo vien considerato inconsciamente come se fosse proprio, ma anche l’io altrui viene addirittura identificato con il proprio io. Anche qui, l’identificazione è tanto involontaria quanto inconscia»2.

Nell’opera scheleriana, tra gli scritti più importanti dedicati dal filosofo alla costruzione fenomenologica di una filosofia della persona, si parla anche di amore, ovvero di ciò che è interamente diretto ai valori positivi della persona. E che, in quanto tale, è base essenziale dei rapporti autentici.
Il filosofo propone al lettore una chiara differenza tra amore e simpatia. Il primo si differenza dalla seconda perché è riferito a un valore e per sua stessa natura non può essere mai “simpatia con se stesso”. Inoltre, l’amore non è un “sentire”, una funzione, ma un atto spirituale, un movimento. Secondo Scheler, ha un senso trattare l’amore e l’odio come moti dell’animo e non come sentimenti o affetti perché questi ultimi comportano un riferimento al sentire e, di conseguenza, a una condizione di passività che l’amore, in quanto attivo, non conosce.
Se quindi, ad esempio il com-patire, forma di simpatia, è un portare insieme all’altro una sua gioia o una sua sofferenza, l’amore e l’odio sono invece un’azione verso di lui.

Secondo Scheler, ci è data la possibilità di amare (o odiare) qualcuno indipendentemente da quello che l’altro sta provando. Per questo amore e odio non scaturiscono come risposta a un sentimento provato dall’altro ma spontaneamente. Il sentire su cui si fonda la simpatia è invece un acquisire, sia il senso dei valori sia quello degli stati come il patire, il sopportare, il tollerare.

E se l’amore è, soprattutto, un atto spontaneo – e lo è anche nell’amore ricambiato, «qualunque possa esserne il fondamento»3 – ogni simpatia, al contrario, è un comportamento reattivo. Eppure, ogni simpatia è in sé fondata su un amore, e cessa qualora venga a mancare d’un qualsiasi amore. Ma nonostante questo, si può provare simpatia per un individuo particolare, senza per questo amarlo.

 

Riccardo Liguori

 

NOTE
1. M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, trad. it. a cura di Laura Boella, FrancoAngeli, Milano 2012, pag. 239.

2. Ivi, pag. 51.
3. Ivi, pag. 152.

[Photo credit Toa Heftiba via Unsplash]

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Quel muro tra noi e l’Islam: intervista a Francesca Corrao

In questa ultima edizione di Pordenonelegge si è parlato molto, e giustamente, del mondo islamico e del suo rapporto con l’Occidente (e non solo), in termini soprattutto politici ma fortunatamente anche culturali. Anche io nel mio piccolo desidero contribuire alla condivisione di pensieri e storie su questa cultura ricca ed antica, poiché ancora una volta i libri possono costituire un porto sicuro nella tempesta del sensazionalismo e dell’approssimazione.

VENICE, 28.10.2008. BIIENNALE TEATRO 2008. THE SYRIAN POET, PLAYRIGHT AND ESSAYIST ADONIS (ALI AHMAD SAID ISBIR) © MARTABUSO/ARICI/GRAZIANERI TEATRO DRAMMATURGO SAGGISTICA Sono andata dunque ad incontrare Francesca Corrao, docente di Lingua e cultura araba alla LUISS di Roma e che nel contesto del festival friulano ha presentato il suo ultimo libro, Islam: religione e politica (LUISS University Press, 2015). Ha vissuto molti anni al Cairo, dove ha conseguito un master in Arabic Studies presso l’American University ed è stata visiting professor in numerosi atenei internazionali tra cui Beirut, Tunisi, Damasco, Parigi e Cambridge. E’ presidente del comitato scientifico della Fondazione Orestiadi di Gibellina (TP), che promuove attraverso un festival annuale il dialogo tra le diverse culture del Mediterraneo; è anche membro dell’Union of European Arabist and Islamist e dell’Institute of Oriental Philosophy della Soka University di Tokyo.
Ecco dunque quello che mi ha raccontato.

 

Abbiamo da poco ricordato, dopo quindici anni, gli avvenimenti di New York e Washington di martedì 11 settembre 2001: da allora il mondo occidentale si è trovato di fronte ad una realtà improvvisamente scomoda ed allarmante che persiste tutt’oggi, dove si rischia di associare definitivamente l’Islam al terrorismo. Quali erano prima di questa data i rapporti tra l’Islam e l’Occidente?

Per quanto riguarda il bacino del Mediterraneo, tali rapporti erano ad un bivio, nel senso che avevano preso un cammino virtuoso – mi riferisco soprattutto agli Accordi di Barcellona, che prevedevano un intensificarsi della collaborazione economica e culturale tra i paesi della sponda  Nord e Sud del Mediterraneo: si svolgevano numerosi festival e più in generale gli scambi tra docenti, artisti, intellettuali, e quindi sembrava possibile un ulteriore sviluppo di questa collaborazione, che avrebbe portato ad un progresso e una maggiore integrazione tra le due sponde del Mediterraneo. Contro questo tipo di politica d’apertura invece vi erano gruppi di potere conservatori radicali che si sono schierati dietro la figura di Bin Laden, perché contrari ad un cambiamento politico in senso democratico. Il problema è all’interno dell’Islam, dove vi sono quelli che sono favorevoli ad una modernità e ad una occidentalizzazione e altri che sono più conservatori e sono più restii ad accogliere le istanze della modernità, e altri ancora che invece intendono restare arroccati in una concezione della società di tipo clanico-medievale. Ovviamente sono delle forze di minoranza all’interno di Stati conservatori, che però hanno accesso a solide risorse economiche e a strumenti di tecnologia molto avanzati. Noi non possiamo permettere a questi nuovi nazisti di cambiare il corso della nostra storia, quindi dobbiamo migliorare e intensificare i rapporti con le persone di buona volontà musulmani credenti, secolari, liberali, democratici, socialisti – perché ci sono diverse connotazioni politiche nell’ambito della comunità islamica, e dobbiamo appunto rinsaldare tali rapporti se vogliamo contrastare questo oscurantismo.

Dal settembre 2001 e negli anni successivi con le guerre in Iraq ed Afghanistan, la fonte di tutti i mali del mondo pareva essere Osama Bin Laden, leader del gruppo terroristico di al-Qaeda; oggi sembriamo quasi esserci dimenticati quel nome, da tempo sostituito da al-Baghdadi, califfo del gruppo Daesh. Se queste cellule terroristiche sono accomunate dal tentativo di frenare l’occidentalizzazione e di destabilizzare il resto del mondo, quali sono invece i loro punti di contrasto?

Certamente i diversi gruppi sono in una situazione di contrasto reciproco: Daesh (o Isis) è infatti uno dei tanti gruppi, purtroppo ci sono diversi gruppi di radicali intransigenti, una serie di fazioni armate (ahimè), un po’ come in Italia ai tempi delle Brigate Rosse, quando oltre a loro c’erano anche altre cellule e movimenti. Ora non si sente più parlare di al-Qaeda ma di Isis, domani però si parlerà di un altro, perché il progetto di Bin Laden non era quello di creare uno Stato ma di formare tante piccole molecole che sarebbero esplose qua e là dovunque nel mondo (com’è successo purtroppo quest’estate nel nord della Francia e a Nizza). Questo era un tipo di progetto che mirava alla destabilizzazione nell’ambito delle realtà politico-culturali altre – altre, noi siamo sempre eurocentrici ma in realtà gli attentati li fanno in Bangladesh, in Pakistan, in Indonesia, in Marocco… quindi  non si può più parlare in termini di Oriente ed Occidente, dobbiamo piuttosto distinguere tra un progresso rispettoso dei diritti umani e della dignità della vita, contro invece delle forme tribali-dittatoriali della gestione del potere. Perché questo è il problema: non rispettano la dignità della vita.
Con la morte di Bin Laden c’è stata una frattura all’interno di al-Qaeda da cui è nato Daesh, ma anche altri gruppi; Isis ha creato lo Stato e quindi si è differenziata rispetto al progetto di al-Qaeda, perché si è alleata con gli ex sostenitori di Saddam Hussein (ex dittatore iracheno caduto nel 2006), i quali erano al governo dell’Iraq; erano uno Stato dunque, ma avendo perduto la guerra contro gli americani, con le nuove elezioni democratiche sono stati esclusi dal potere. Daesh ha incluso quegli ex funzionari (al-Baghdadi stesso era finanziato dall’ex dittatore) e i militari dell’esercito fedeli a Saddam, poiché volevano ricostruire uno Stato. Quindi il problema non è che il nemico di Isis/Daesh siamo noi, il primo nemico per loro in realtà sono i governi al potere nella zona: loro vogliono destabilizzare tutto per sostituirli al potere.

Di fronte a tutto questo penso a Malala Yousafzai, la coraggiosa ragazzina pakistana che ci insegna a combattere l’odio e l’intolleranza attraverso l’educazione, la cultura: una matita è più forte di un kalashnikov. Continuare a parlare del terrorismo islamico dunque inevitabilmente mette da parte gli affascinanti aspetti di una cultura millenaria diffusa in tutto il mondo, ponendo le basi a tutta la diffidenza occidentale. Lei crede che la conoscenza contribuisca ad abbattere quel muro di paura?

Assolutamente sì. L’arma è la conoscenza, conoscersi e allearsi con i musulmani che sono in Italia e che vengono in Italia perché vogliono prendere le distanze dalle dittature e da tutto ciò di cui ho appena parlato. Sono quelli pericolosi che vanno isolati. Anche perché sappiamo bene dove si può andare a finire, basti pensare a quello che è successo in Bosnia, dove una popolazione pacifica è diventata settaria e si sta diffondendo tra un Islam pacifico anche un proselitismo di religiosi fanatici. Pensiamo invece al Marocco, il cui re ha creato una fondazione per la formazione di religiosi che siano in grado di contrastare questo pensiero deviato dell’Islam. Il fatto è che non è facile contrastarli, bisogna essere preparati, e se i ragazzi sono ignoranti e non conoscono il Cristianesimo, ma nemmeno l’Islam o l’Ebraismo, cadono nella trappola del nazismo mentre noi ricadiamo in quella del silenzio a cui il nazismo ci aveva costretto. Cerchiamo dunque di non diffondere un nuovo antisemitismo, perché non dimentichiamo che gli arabi sono semiti come gli ebrei.

In questo senso è stata molto interessante la sua lettura de Le mille e una notte, raccolta di fiabe che ha per protagonista un re persiano talmente spaventato dalle donne da farle uccidere il giorno successivo alle nozze; questo finché non entra in scena V che con i suoi racconti riesce a rimanere in vita perché sbriciola il muro di paura del re…

Gandhi per esempio diceva qualcosa come “Io non posso convincere tutti, a me basta convincere una persona”. Voglio citare anche Hannah Arendt, per la quale la superficialità e la non conoscenza delle cose per come sono era considerata inammissibile. Noi abbiamo esempi anche in Norberto Bobbio sull’importanza del ruolo degli intellettuali di dare delle informazioni corrette per la difesa dei nostri valori, che sono valori universali, e nell’Islam e nei Paesi arabi c’è tanta gente che ha voglia di difendere i valori universali, e sopra ogni cosa la dignità della persona.

E allora, proprio per avvicinarci alla cultura millenaria e molto sfaccettata dell’Islam, vorrei chiederle qual è l’aspetto più curioso ed interessante della cultura islamica che ha scoperto durante i suoi studi.

A chi si volesse avvicinare a questo mondo consiglierei di leggere il mio Islam: religione e politica, che è organizzato in due capitoli, uno sulle antichità e uno sulla modernità, e dove ci sono riferimenti bibliografici proprio per poter approfondire. Io personalmente sono stata molto colpita dalla mistica islamica, penso al poeta Gialal al-Din Rumi in particolare: questa disciplina è estremamente interessante perché va al di là della conoscenza della religione come un elemento dogmatico ma parla allo spirito, all’essere umano, alla possibilità insita in ogni individuo di poter trasformare se stesso. Noi esseri umani abbiamo il diritto-dovere di migliorarci, di vivere la nostra fede in quanto essere umani, e quindi rispettare noi stessi e gli altri.

Quest’estate la controversissima proposta da parte di alcuni sindaci francesi sulla proibizione del cosiddetto “burkini” nelle spiagge ha diviso l’opinione pubblica internazionale, ma credo abbia anche deviato parte del dibattito dall’intolleranza religiosa alla discriminazione femminile, creando forse una nuova vicinanza tra musulmane e donne di altre fedi (o atee). Considerata la sua vicinanza al mondo islamico, ci spiega qual è la reale visione della donna al suo interno?

In seguito al colonialismo la lotta dei Paesi arabi contro di esso ha trasformato in maniera importante la consapevolezza della società araba e quindi ha portato ad emergere un nuovo ruolo della donna. A partire dal Novecento ci sono state delle donne che hanno tolto il velo, che hanno deciso di andare all’università, per emanciparsi, per andare a lavorare, per poter avere diritto al voto – una storia di emancipazione che non è molto diversa dalla nostra. Ed è una lotta contro la mentalità patriarcale. C’è una famosa sociologa libanese, Fahmia Sharaf al-Din, che ha condotto uno studio in cui dimostrava che l’ingiustizia nei confronti delle donne non è un problema dei musulmani in Medio Oriente ma è anche dei cristiani, degli ebrei, di sunniti, sciiti, alawiti… è insomma un problema di mentalità patriarcale che non vuole accettare la pari dignità alle donne. Quindi per noi donne è importantissimo essere consapevoli del nostro diritto ad essere trattate in egual misura pur mantenendo la nostra differenza. Nel mondo arabo le donne non vogliono che l’Occidente imponga loro la modalità di emanciparsi, e del resto loro hanno il diritto a trovare i loro modi per farlo e stabilire un dialogo, un confronto. Per esempio, per delle ragazze che vengono da famiglie molto conservatrici è utile mettersi il velo, perché con il velo possono andare all’università o trovarsi un lavoro, battaglie queste molto più importanti del velo di per sé perché al momento la vera necessità non è mettere o togliere il velo ma il poter lavorare. Per esempio in Marocco, come in Algeria e in Tunisia, molte donne si sono emancipate a seguito del clima di libertà che si affermò negli anni Cinquanta e Sessanta con la liberazione dal colonialismo; lì però coesistono forze conservatrici con forze innovatrici, ed ecco quindi il problema del dibattito che si sposta sui diritti: il diritto a lavorare, il diritto ad avere il divorzio, il diritto a poter viaggiare senza dover avere per forza il consenso del marito, il diritto ad avere un assegno dopo il divorzio… problemi seri, economici. Perché la società cambi ci vuole tanto tempo, non è che glielo possiamo imporre noi con la bacchetta magica: si cambia attraverso l’educazione e anche l’acquisizione di consapevolezza della propria dignità, della legittimità del proprio pensiero altro di donne.

Quindi lei sostiene che l’inferiorità della donna non è un fatto religioso ma culturale, così come del resto esiste all’interno del mondo cristiano, per cui la donna nascerebbe dalla costola dell’uomo per non essergli né superiore né inferiore ma pari, mentre poi nella realtà la situazione è (ancora) ben diversa. I testi sacri islamici come si rapportano alla donna?

È una questione culturale sì, infatti per esempio ci sono i movimenti delle femministe islamiche che lavorano sulla rilettura dei testi sacri e stanno svelando come questi siano stati letti in maniera patriarcale e maschilista. Nel Corano c’è scritto che l’uomo alla donna è uguale e non c’è nemmeno il problema di Adamo ed Eva e del peccato che la donna avrebbe commesso, il che costituisce in realtà una grande differenza. Dove nel Corano si dice che la donna è più debole dell’uomo e che l’uomo la deve proteggere, s’intende piuttosto la fragilità di una futura madre, non si legittima di certo l’uomo alla violenza domestica perpetrata perché ella non condivide lo stesso pensiero. Cito di nuovo la sociologa libanese Fahmia Sharaf al-Din e il suo studio, in cui dimostra che questo non è un problema del Corano, perché la violenza sulle donne la esercitano anche i cristiani – basti pensare a quale orrore sono in Italia i dati sul femminicidio. Gli uomini lo fanno perché si sentono minacciati da un pensiero diverso, perché noi uomini in generale non siamo educati ad accettare un pensiero diverso, mentre invece è fondamentale trovare il modo di interagire. I genitori, al di là dei generi e omosessuali o meno, rappresentano due modi di pensare diversi e in tal modo costituiscono una pluralità di pensiero importante per i figli, aiutandoli di fatto a vivere nel confronto con l’altro. C’è un grande filosofo giapponese che si chiama Daisaku Ikeda, presidente della Soka Gakkai International, il quale sostiene spesso l’importanza dello sviluppo del dialogo e dell’empatia e della conoscenza dell’altro, perché è così che si fuga la paura.

A proposito di filosofia, noi pensiamo che il pensiero e la cultura abbiano un peso rilevante nella vita quotidiana, che siano chiavi di lettura di ciò che succede attorno a noi. Lei che valore dà alla filosofia?

Sono assolutamente d’accordo, io adoro la filosofia. Ho citato Daisaku Ikeda, che ha contribuito alla creazione di un sistema di scuole che si chiamano Soka Gakkai (letteralmente “società per la creazione di valore”), dal grande pedagogo giapponese Tsunesaburo Makiguchi, il quale ritiene che bisogna avere una filosofia della vita e della dignità della vita da implementare nel quotidiano vivere, perché altrimenti uno si comporta in maniera barbara senza esserne consapevole. Bisogna allora avere dei valori forti da tenere presenti nel momento in cui si vive, per esempio sicuramente la bellezza, la bontà e l’utilità, ma non uno a scapito dell’altro. A tal proposto, noi in Occidente abbiamo l’uguaglianza, la libertà e la fraternità – ma poi perché la fraternità (la solidarietà) non è mai più presente nel nostro orizzonte esistenziale? Vuol dire doversi mettere in discussione nel proprio agire quotidiano e non farsi dominare da forze esterne perdendo così il nostro baricentro, la nostra convinzione. Anche Martha Nussbaum e John Rawls infatti sottolineano l’importanza di imparare a coesistere, di trovare punti di conoscenza e di valori condivisi da rispettare. Ciò significa che se il cittadino è rispettato in quanto cittadino, il suo diritto è anche quello di avere una sua fede, ma questo uomo di religione deve rispettare anche le regole degli altri in quanto cittadino, lui ma con cittadini altri. Sono queste le regole che dobbiamo tenere presenti: non dobbiamo escludere i musulmani dalla cittadinanza (che è ahimè quello che facciamo), perché sono esseri umani che hanno la dignità pari alla nostra e possono contribuire al nostro arricchimento; se noi ci chiudiamo ci esauriamo, perché la ricchezza e la crescita vengono dall’apporto e contributo di punti di vista altri.

 

Giorgia Favero

 

NOTA:
Intervista rilasciataci dalla docente il 15 settembre 2016 in occasione di Pordenonelegge (Pordenone).

[Immagini tratte da Google Immagini]

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Il futuro di una chiesa isolata

Quello rappresentato dalla “Brexit” è senza dubbio un evento epocale, le cui conseguenze a breve ed a lungo termine devono ancora palesarsi nella loro portata e interezza. Se a livello economico-finanziario i risultati sono stati immediati, e sul piano sociale e politico sono in buona misura prevedibili, rimane ancora l’incognita del destino della Chiesa anglicana.

Non è un segreto che la Chiesa inglese versi in cattive condizioni da decenni ormai: nonostante le numerose riforme apportate al proprio interno, non ultimo il sacerdozio femminile, i fedeli effettivi al suo interno sono in costante diminuzione (i registri parrocchiali parlano di 25 milioni, ma i praticanti sono meno della metà), e la sua reale influenza sulla società britannica ha subito un drastico calo. Lo stesso risultato del referendum sembra confermare la scarsa presa delle autorità ecclesiastiche sulla popolazione: l’Arcivescovo Justin Welby si era a più riprese espresso contro l’uscita del paese dall’UE, ma i suoi appelli sono caduti del tutto inascoltati, e proprio le frange più conservatrici che normalmente cercano giustificazione e legittimità nella religione hanno guidato il popolo verso posizioni opposte rispetto a quelle auspicate da Canterbury.

La Chiesa anglicana ha come mai bisogno, oggi, di quello che non ha mai avuto fin dalla sua fondazione: apertura alle altre confessioni cristiane, a partire da quelle presenti sul territorio britannico. Fino agli anni Novanta, ogni passo avanti fatto nella riconciliazione tra Chiesa anglicana e cattolica è stato bruscamente interrotto proprio dalla prima, che si è sempre ostinata a mantenere un fiero isolazionismo, diretto riflesso di quello politico della Gran Bretagna. Ora che però questa linea di condotta ha portato ad un isolamento reale che promette di essere mortalmente nocivo al Paese, la riapertura dei dialoghi non può essere ulteriormente rimandata.

La crisi economica ha portato con sé alcuni inaspettati cambiamenti anche in ambito ecclesiastico: il tracollo della Grecia ha portato la locale Chiesa ortodossa a rivedere la possibilità di un riavvicinamento al cattolicesimo, idem per quella rumena; dal Concilio Panortodosso di Creta conclusosi lo scorso 26 giugno, il primo dal 1054, sono emersi importanti documenti che incoraggiano l’unione tra le varie Chiese ortodosse autocefale (pur non avendo partecipato all’incontro alcune di queste, prima tra tutte la grande Chiesa di Mosca): un segno di unione importante in un’epoca di forti divisioni, ma anche una diretta conseguenza di una profonda crisi sociale e politica. Quello delle Chiese ortodosse dovrebbe essere per la Chiesa di Londra un esempio, sia sul piano politico che su quello eminentemente spirituale.

Con un Canale della Manica che non è mai stato così largo, bloccato su un’isola che ha espresso la propria volontà di staccarsi ulteriormente dal continente, l’evangelico “Ut unum sint” potrebbe rimanere l’unica chance di sopravvivenza per l’anglicanesimo, oltre che l’ultima occasione per poter influire in maniera positiva ed efficace sul post-Brexit. Un eventuale riavvicinamento agli episcopali di Scozia o agli autonomi d’Irlanda potrebbe contribuire notevolmente a riparare le fratture generate all’interno del Regno Unito dal risultato del referendum, riavvicinando a Inghilterra e Galles i potenziali secessionisti; in più, un’apertura nei confronti delle Chiese continentali, la cattolica come le protestanti, potrebbe fare da testa di ponte nella riscoperta (e nella ricostruzione) di una comune identità europea, almeno nel suo impianto etico e valoriale. Sarebbe, con ogni probabilità, l’equivalente di un mulino che comincia a funzionare solo quando ormai l’intera popolazione è morta di fame, ma considerata la posta in gioco vale pure un tentativo. L’unica alternativa, al momento, è la definitiva scomparsa della Chiesa d’Inghilterra.

Giacomo Mininni

Giacomo Mininni, nato a Firenze, si è laureato cum Laude in Scienze Filosofiche presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze nel 2013. Scrive in qualità di critico cinematografico per il settimanale La croce, collabora frequentemente con il trimestrale Prospettive, edito dalla ONLUS Opera per la Gioventù “Giorgio La Pira”, col settimanale ToscanaOggi e con altri periodici. Ha curato due capitoli del volume Pino Arpioni e La Vela. Sessant’anni di campi scuola di Claudio Turrini, edito da Edizioni Cooperative Firenze 2000 nel 2014, e l’introduzione di Le filosofie inconsapevoli. Pedagogia della non conoscenza di Fabio Fineschi, edito da Ladolfi Editore nel 2016. Sempre con Ladolfi ha pubblicato nel 2015 Verso il mare. La filosofia della storia di Giorgio La Pira. Da dieci anni si occupa di dialogo interculturale e interreligioso presso l’Opera per la Gioventù “Giorgio La Pira”.

Io e l’eterno

  1. Quand je considère la petite durée de la vie, absorbée dans l’éternité précédente et suivante, le petit espace que je remplis, et même que je vois, abimé dans l’infinie immensité des espaces que j’ignore et qui m’ignorent, je m’effraie et m’étonne de me voir ici plutôt que là, car il n’y a point de raison pourquoi ici plutôt que là, pourquoi à présent plutôt que lors. Qui m’y a mis ? Par l’ordre et la conduite de qui ce lieu et ce temps a-t-il été destiné à moi ?[1]

[Trad. 88. : Quando considero la breve durata della mia vita, assorbita nell’eternità che la precede e la segue, il piccolo spazio che riempio e che vedo, inabissato nell’infinita immensità degli spazi che ignoro e che mi ignorano, io mi spavento e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là, perché non vi è motivo perché qui piuttosto che là, perché ora piuttosto che allora. Chi mi ci ha messo? Per ordine e per opera di chi mi è stato destinato questo luogo e questo tempo?].

     Pensieri, B. Pascal

È forse la percezione della propria piccolezza a spaventare l’essere umano? In quali termini si può parlare ancora oggi di un rapporto travagliato tra l’uomo e l’eterno?

Anche se le belle parole Pascal potrebbero, dopo una prima lettura, sembrare molto lontane dal nostro vivere quotidiano, quella che questo pensatore ci sta offrendo – e proprio per questo lo ritengo molto attuale – è una chiave di lettura che apre poeticamente spiragli di verità che aiutano a individuare e tradurre, per poi infine analizzare, alcuni meccanismi che si sono innestati nel pensiero contemporaneo, quali ad esempio l’ossessione rispetto alle proprie performances professionali oppure, più in generale, un delirio di onnipotenza dilagante. Meccanismi che fungono da armi con le quali proteggersi rispetto all’impotenza di ciascuno nei confronti di tutto ciò che sfugge al controllo: l’”eterno” dei giorni nostri.

Tant’è vero che, se abbandoniamo per un attimo quelle maschere fatte di sicurezza e determinazione che ci ossessionano fino a rincorrere la perfezione ideale e ci lasciamo andare alla trasparenza del nostro essere, ci rendiamo che ogni giorno siamo chiamati a fare i conti con tutti i limiti che segnano la nostra finitudine.

E allora anche noi ci spaventiamo, una volta presa consapevolezza del silenzio eterno di questi spazi infiniti[2], riprendendo un’espressione utilizzata da Pascal qualche riga più in basso.

Ma da quale infinito veniamo turbati oggi?

Qu’est-ce qu’un homme dans l’infini?[3]

Che cos’è dunque l’uomo rispetto all’infinito?

Qu’est-ce que l’homme dans la nature?Un néant à l’égard de l’infini, un tout à l’égard du néant, un milieu entre rien et tout[4].

Che cos’è l’uomo nella natura?Un nulla in confronto con l’infinito, un tutto in confronto al nulla, qualcosa di mezzo tra il nulla e il tutto.

 

L’estrema fragilità dell’essere umano non può essere celata nel momento in cui a entrare in conflitto in un polemos senza sosta sono da un lato, il desiderio dell’individuo di eccedere e sconfiggere i propri limiti, assecondando il desiderio, e dall’altro, l’accettazione dell’impossibilità di poter fare tutto e di ottenere tutto ciò che scaturisce da questa spinta a noi interna che non trova mai un oggetto di soddisfacimento definitivo. Si desidera tutto, dunque. E si desidera tutto poiché siamo naturalmente tendenti ad assecondare il principio di piacere che pulsa in noi e che ci chiama all’esperienza di forti sentimenti di piacere. Tuttavia, come sostiene Freud in Malaise dans la civilisation[5] (Titolo della traduzione italiana, “Disagio nella civiltà”), “nos possibilités de bonheur sont déjà limitées par notre constitution. Il y a beaucoup moins de difficultés à faire l’expérience du malheur”, (“Le nostre possibilità di essere felici sono già limitate dalla nostra costituzione. C’è molta meno difficoltà nell’avere esperienza del male.”).

Ciò che ci ostacola quindi è quel principio di realtà, Thanatos, che costituisce la natura dell’esistenza umana e che definendoci come esseri finiti e limitati, ci impedisce di rincorrere quell’aspirato desiderio di tutto, facendo diventare sempre più fioca la candela accesa dalla forza di Eros.

È la realtà, in altre parole la nostra “costituzione” riprendendo le parole di Freud, che ci spinge a fare i conti con noi stessi. Che ci invita a lasciare andare ciò che ci sfuggirà per sempre. Ad accettare quel caos che c’è dentro di noi e l’irrazionale che è presente al di fuori e che non potremmo mai gestire. Arrendendoci e accettandolo. Accogliendolo a braccia aperte.

 

Nella fattispecie e sul piano dell’intelligenza, posso dunque dire che l’Assurdo non è nell’uomo (se una simile metafora potesse avere un senso), e neppure nel mondo, ma nella loro comune presenza. Per il momento, è il solo legame che li unisca.[…]La singolare trinità che si mette, in tal modo, in luce, […]ha di comune con i dati dell’esperienza di essere insieme infinitamente semplice e infinitamente complessa.[…] Distruggere uno dei termini, è distruggerla interamente. Non può esistere assurdo al di fuori dello spirito umano. Così l’assurdo finisce, come tutte le cose, con la morte[6].

 

A. CAMUS, Il mito di Sisifo

Sara Roggi

[Immagini tratte da Google Images]

[1] B. PASCAL, Pensieri, Bompiani, traduzione di Adriano Bausola, Milano, 2009, p. 74.

[2] Ibidem. [91. Le silence éternel de ces espaces infinis m’effraie.].

[3] Ibidem, p. 84.

[4] Ibidem

[5] S. FREUD, Le malaise dans la civilisation, p.64, Editions Points, Paris, 2010.

[6] A. CAMUS, Il mito di Sisifo, p. 31, Bompiani, Milano, 2013.