Una citazione per voi: Protagora e la misura di tutte le cose

 

• L’UOMO È MISURA DI TUTTE LE COSE; DELLE COSE CHE SONO IN QUANTO SONO, DELLE COSE CHE NON SONO IN QUANTO NON SONO •

 

La seguente citazione è attribuita al filosofo Protagora, nato ad Abdera (Tracia) circa nel 490 a.C., morto verso la fine del 400 a.C.

Protagora fu un sofista: i sofisti sono stati i primi docenti a pagamento della storia, che insegnavano ai giovani dotti (e benestanti) della Atene dell’epoca come si parla in pubblico. Saper discorrere nell’agorà era un requisito fondamentale, dato che la polis greca, in età periclea, era caratterizzata dalla partecipazione politica dei cittadini, che intervenivano su questioni di ordine pubblico e dovevano possedere l’eloquenza, l’arte della retorica, saper convincere l’uditorio e saper proverbialmente “portare acqua al proprio mulino”.

Ma, se i sofisti furono giudicati negativamente da alcuni loro contemporanei (tra cui Socrate) e dai posteri, poiché non insegnavano a raggiungere la verità o la retta conoscenza, bensì unicamente a far prevalere la propria idea, giusta o sbagliata che fosse, essi hanno tuttavia avuto il merito di aver posto l’uomo al centro della loro speculazione.

È proprio questo il senso della citazione di Protagora, un frammento (nessuna delle sue opere è giunta integralmente fino a noi) contenuto probabilmente in un suo scritto intitolato La verità. Discorsi demolitori. Si afferma che l’essere umano è misura (in greco to métron ossia ‘il metro’) di tutte le cose, in quanto è l’arbitro, il criterio di giudizio per ogni decisione. Il punto di vista umano, dunque, è un caposaldo al quale bisogna fare riferimento, attenendosi ai suoi limiti e criteri.

Alla citazione sono state date anche altre tre diverse interpretazioni, che dipendono dal senso attribuibile alla parola ‘uomo’. L’uomo è l’individuo singolo al quale le cose appaiono a seconda del suo sentire soggettivo. Ma l’uomo può anche essere inteso come ‘umanità’: il genere umano ha una sua peculiare forma mentis che differisce da quella, ad esempio, degli animali, e di conseguenza valuta il mondo alla sua maniera. Infine, ogni uomo è anche il rappresentante del suo popolo e della sua cultura, quindi giudica le cose a seconda dei suoi usi e costumi (relativismo culturale). 

Emerge in ogni caso una concezione relativistica: l’uomo giudica ciò che è reale e ciò che non lo è, e ogni credenza, abitudine, dettame sociale, politico o culturale, è frutto di un contesto umano e va valutato secondo quel contesto.

 

Francesca Plesnizer

 

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Umano, postumano: la filosofia ogni giorno. Intervista a Leonardo Caffo

Con Leonardo ci siamo incontrati per la prima volta nel 2016 a un evento organizzato all’interno di Pordenonelegge e da allora abbiamo cercato di mantenere i contatti. Ci piace parlare con lui, è di una dinamicità ispiratrice e siamo sicuri che sentiremo tutti parlare ancora a lungo di lui. Proprio in questi giorni è uscito il suo ultimo libro, Vegan. Un manifesto filosofico (pubblicato da Einaudi) attraverso il quale punta l’attenzione sull’antispecismo e le dinamiche ambientali, temi di cui finalmente cominciamo a sentir parlare un po’ più spesso e che (personalmente me lo auguro) verranno trattati sempre più.

Vi lascio alle sue parole, buona lettura!

 

Leonardo, nel panorama filosofico odierno ti sei imposto in modo particolare trattando i temi dell’antispecismo, ma sono tanti e vari in realtà i tuoi campi di interesse. Per esempio, al Politecnico di Torino insegni da diversi anni una materia che chiami “ontologia del progetto”. Che cosa significa e perché ha senso associare la filosofia alla progettazione architettonica?

La filosofia è a tutti gli effetti una forma di progetto: implica analisi di uno stato di cose, soluzioni e modifiche, controfattuali e promesse. Nel momento in cui come me ti sei occupato della nozione di “forma di vita”, delle sue possibili aperture all’animalità o alla vita vegetale, ma anche dell’evoluzione del concetto di “umanità” attraverso l’analisi di nozioni come azioni o linguaggio, diventa anche essenziale indagare pure la nozione di “spazio per la vita”: così il semplice progetto diventa progetto architettonico e dunque spaziale. Ovviamente ho poi iniziato a studiare design e architettura da dentro, e adesso posso rassicurare sul fatto che c’è più filosofia in Le Corbusier che in tanti sedicenti colleghi.

 

Quale impatto e riscontro hanno da parte dei tuoi studenti l’insegnamento della filosofia in un tempio della scienza e della tecnica come un Politecnico?

Ogni anno, a fine corso, i miei studenti compilano un formulario di valutazione del docente: tendenzialmente, ma non amo parlarne, è positivo. Più interessante invece che gli studenti degli anni passati che hanno già preso l’esame tornino a sentire le lezioni, e ancora più interessante che molti studenti di filosofia vengano al Politecnico per origliare dopo che da filosofia sono passato alla architettura. Credo che più che per me, e non lo dico solo per sterile umiltà, ci sia un interesse generale per questo nuovo modo di fare scienza che parte dalla consapevolezza umanistica. Il corso che insegno viene fuori dall’intuizione di Giovanni Durbiano, ordinario di progettazione nella mia università: direi che è stata un’intuizione felice e lo ringrazio per questo.

 

Il tuo libro La vita di ogni giorno del 2016 ha un sottotitolo molto interessante: Cinque lezioni di filosofia per imparare a stare al mondo. Che cosa significa allora per te “stare al mondo”? E ne bastano davvero solo cinque per riuscirci?

Che non bastino è ovvio: io, che le ho scritte, certo non so stare al mondo meglio di voi (detto di passaggio: stare al mondo non credo sia mai un comparativo). Conta più ragionare sul fatto che la filosofia, lungi dall’essere un sapere accademico come dimostra la sua storia, sia invece un’educazione alla “postura”: appunto alla forma più alta di “stare nel mondo”. Recentemente è uscito un capolavoro per Feltrinelli, Il tempo degli stregoni, dove le vite di Heidegger, Cassirer, Benjamin e Wittgenstein sono intrecciate proprio per ridare alla filosofia una dimensione che l’odierna burocrazia le ha tolto: non un’educazione a qualcosa, come non so la fisica che è educazione alla struttura del reale, ma un’educazione fine a se stessa. È come nel quadro di Magritte, Il lume filosofico, avete presente?

 

Come dicevamo, ti sei occupato e ti stai occupando molto di antispecismo nei tuoi studi ma soprattutto nella tua vita quotidiana hai scelto di agire in linea con i tuoi pensieri, attraverso una dieta che rifiuta carne e derivati animali, nonché impegnandoti in iniziative in difesa degli animali come Gallinae in fabula. Cosa ha fatto cambiare la tua vita verso questa direzione?

Oggi la mia onlus è passata ad alcuni studenti che avevano lavorato con me: sono molto bravi e gli auguro il meglio. Per me l’antispecismo è l’apparato morale del mio piccolo e umile sistema filosofico di contrasto attivo all’antropocentrismo: se hai compreso che la vita è un fascio equamente diffuso negli enti non puoi mai riportarli alla dimensione di non-ente che è implicata dalla sfruttamento e dalla morte (se non è necessario farlo, così evitiamo subito la critica sul non mangiar piante che è una critica idiota). Per il resto vale quanto vi ho già detto: un filosofo che non agisce in accordo alla sua filosofia è un professore di filosofia, non un filosofo.

 

Per Lévinas il volto è lo spazio di incontro tra l’Io e l’Altro. Molti degli animali di cui ci nutriamo sono mammiferi, hanno due occhi, orecchie, un naso e una bocca, hanno uno sguardo e una espressione. Perché allora è così difficile riconoscerli come quell’ “Altro” con cui si palesa e s’innesca una relazione, uno scambio che è principio dell’etica?

Sapete che Heidegger quando deve dire che l’animale è senza volto, non a caso, cita l’ape: così evita proprio tutta la correlazione di antropomorfismi ineluttabili che citavate. In realtà non riconosciamo come alterità inclusiva neanche quella dei migranti, e di infinite categorie dell’essere: per questo la filosofia è anche un modo per tornare a ridare al reale le sue corrette sfumature di senso. La sorte della vita animale è comune: non vedo nessuna ragione per sentirmi migliore di un maiale e anzi credo che la filosofia, penso al divenire animale di Deleuze su cui ho lavorato tanto, sia un lungo percorso per tornare a essere “la vita in quanto vita” di cui per esempio parla Felice Cimatti nel suo recente Cose uscito per Bollati Boringheri (uno dei libri più originali della filosofia italiana recente).

 

Il mondo odierno registra tristemente livelli di sfiducia, diffidenza, indifferenza e persino di odio di uomini nei confronti di altri uomini: gli ultimi, gli invisibili, i poveri, i migranti, i diversi. L’uomo, insomma, sembra aver cura dell’Altro solo se esso sia comunque riflesso quanto più possibile simile a se stesso. Se ancora non si riesce ad avere rispetto e cura dell’Altro come uomo, non è forse secondario e non impellente notare l’Altro come animale?

Non saprei, i filosofi spesso dell’etica e della politica hanno avuto una visione idiosincratica e di quasi disinteresse. Ripenso a Wittgenstein per esempio, all’idea che ciò che è mistico non possa essere tradotto in pensiero scientifico o normativo. Non so se sono in grado di dire come dovremmo procedere e per che gradi, d’altronde tutte le volte che mi hanno proposto qualcosa di politico sono scappato a gambe levate; certo che nulla toglia di dire che l’alterità, tutta l’alterità, andrebbe riconcettualizzata: non è che se penso agli animali non umani tolgo spazio a quelli umani, la congiunzione “uomo e animale” diceva Nietzsche non ha proprio senso di esistere (e dopo il darwinismo non c’era neanche bisogno di scomodare Nietzsche). Ma la filosofia non deve diventare un’opera di bene o di carità, il paradiso dei filosofi – come lo chiamava David Lewis – è anche quello di chi vive in mondi ancora inesplorati e inesistenti. È il nostro unico lusso, non voglio rinunciarci.

 

Più volte da parte degli animalisti la questione animale degli allevamenti è stata descritta come il più grande olocausto della storia, provocando severe e indignate reazioni da ogni angolo del mondo. Eppure, nello sterminio sistematico e giornaliero di mezzo miliardo di animali è difficile non riscontrare quella banalità del male di arendtiana memoria. Tu come vedi questa analogia?

Non so se ci sia completa aderenza in quella che è stata definita “analogia oscena”: certo ebrei o tutsi o qualsiasi altro popolo massacrato sono comunque all’interno di una storia molto diversa da quella del non-senso economico del massacro animale. Hitler non è paragonabile a una multinazionale di carne, non esageriamo. Bisogna anche smetterla di fare analogie: non è che se dico che uccidiamo animali come ebrei allora fornisco più dignità agli animali che poi è il motivo per cui tanti in realtà si sono fissati con questa storia. Li massacriamo e basta, e questo è già abbastanza triste per una specie che si crede moralmente evoluta. L’essere umano, su ampia scala, è ancora al livello evolutivo di un alga. Con rispetto per l’alga.

 

Ritengo ormai sufficientemente evidente che il nostro pianeta sia entrato in una fase di declino difficile da ignorare, dovuta a mio avviso al sempre costante pensarci al centro e sempre superiori di qualsiasi altra forma di vita su questa terra. Esiste secondo te una sorta di “cura” per questo dominante antropocentrismo? Come possiamo davvero pensarci in un’ottica “ecocentrica”?

Ecocentrica non saprei, a me qualsiasi “centrismo” in filosofia mi puzza male. Come sapete io, più timidamente, in Fragile umanità ho difeso l’idea che l’evoluzione ci condurrà verso il postumano contemporaneo: una specie che sopravvivere alla tragedia proprio facendone risorsa in una specie di back-to-the-past molto elaborato. Nessuno pensa a se stesso come parte del pianeta, la società contemporanea disabitua a sentirsi nella natura delle cose. Recentemente è uscito il libro di una sciamano per nottetempo, La caduta dal cielo, che spiega molta più filosofia di quella che potreste trovare in un manuale occidentale: se semplicemente tutto ciò che abbiamo pensato fino a questo momento fosse sbagliato? Questa è la vera questione posta dalla filosofia anti-antropocentrica. È la questione che mette in crisi tutte le altre.

 

Il tuo ultimo libro, Vegan. Un manifesto filosofico, è uscito proprio in questi giorni. Vuoi provare a spiegarcelo in due parole?

Vegan per me è il termine con cui si descrive non una dieta ma una filosofia della sottrazione piuttosto che una della aggiunta: in gergo tecnico vedo nel depotenziamento della realtà quantitativamente un suo aumento qualitativo (è più metafisica che etica). Essere vegani, che poi certo significa anche esserlo in modo alimentare o morale, significa alleggerire il nostro peso di viventi. Per me, così ci capiamo, essere vegani significa prendere la lezione americana di Calvino sulla leggerezza e applicarla ogni giorno: non si diventa migliori, o più puri, si diventa più in pace con se stessi e con gli altri (tutti gli altri).

 

Concludiamo come di consueto con la domanda più sciocca e difficile al tempo stesso che si possa fare a un filosofo: che cos’è per te filosofia?

Mi piace la definizione che davano Deleuze e Guattari in Che cos’è la filosofia, ovvero “produzione di concetti”. Ma per me è più una produzione di alternative, come ho scritto ne La vita di ogni giorno: alternative reali, che cambiano la vita, non alternative disciplinari. Queste alternative poi possono riguardare l’estetica o la logica, ma sono sempre “immagini” di realtà alternative agli stati di cose attuali. Sono stato bocciato tante volte da chi decide se uno è un filosofo oppure no, dunque chissà se possa davvero definirmi filosofo; e anche se nel mio caso, chissà, forse hanno fatto bene …. penso che se gli stessi mediocri sconosciuti non avessero bocciato al loro tempo anche Wittgenstein o Nietzsche, Benjamin o Hume, oggi non avremmo neanche la storia della filosofia. Di fatto è filosofia, e vale solo per la filosofia, ciò che non può essere capito nel proprio tempo proprio perché è dal e per il proprio tempo che viene prodotta.

 

Grazie, Leonardo. Continua così.

 

Giorgia Favero

 

[Photo credit: C. Esposito, da www.leonardocaffo.org]

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La filosofia polimorfa alla prova della città

Una filosofia polimorfa tiene conto dei piani diversi su cui si articola il reale. Non è quindi antropocentrica né concettuale, ma applicata, e considera la realtà come un campo su cui agiscono forze diverse non sempre gerarchicamente organizzabili. Un campo può essere una determinata porzione di spazio e di tempo mentre le forze, per esempio, diversi apparati percettivi e vite mentali. La città è un campo di applicazione sui generis del caso appena citato.

L’esercizio è quello di considerare la città come un organismo vivente, che include la natura. La città vive e le esistenze che ospita possono osservarla in modo radicalmente diverso. Secondo Anna Maria Ortese «nelle voci di molti uccelli, forse anche dei più lieti risuona a volte questa nota accorata, quest’alta e tiepida malinconia a cui non sembra esservi spiegazione»1. Quanto segue è un tentativo di spiegare questa intuizione geniale.
La malinconia degli animali, e di tutti coloro che non rispettano il canone di “normalità” imposto da una maldestra ontologia sociale, deriva da quello che possiamo definire “antropocentrismo del progetto”. In tutte le fasi della progettazione, infatti, non si tiene conto dell’impatto della costruzione di mondo sui micro-mondi. La città è un insieme di Umwelten, di mondi-ambienti, che tentano di organizzarsi armonicamente. L’armonia è un’arma a doppio taglio perché, come la globalizzazione, se mal gestita può sfociare in arroganza: un punto di vista, come quello dell’architetto o del politico, governerà loro malgrado anche i coni visivi delle forme di vita che si abiteranno uno spazio progettato da altri.

La sfida di Milano Animal City è dunque questa: tentare di progettare in modo tale che lo sguardo dell’altro diventi parte integrante del progetto stesso. Ciò costituirebbe un esercizio di depotenziamento della posizione antropocentrica: «bussare a tutte le porte, raccogliere tutte le voci di un evento che ci ha lasciati, e quando non le voci gli scritti in ogni corteccia d’albero o in ogni dura pietra quando, non pure, nelle risuonanti e sempre uguali narrazioni del mare»2.

L’antropocentrismo è l’oggetto più indecostruibile della filosofia. E forse si potrebbe domandare: tentare di uscirvi non è antropocentrico a sua volta? No: almeno più di quanto una doppia negazione non sia un’affermazione. L’antropocentrismo è nei suoi effetti morali, metafisici e scientifici devastanti. Un primo modo di superarlo è esercitarsi nell’attività di progetto dal punto di vista dell’altro.

L’antropocentrismo descrive una forma di vita: un’umanità chiusa nei quattro errori di Nietzsche descritti ne La gaia scienza: 1) vedersi sempre e solo incompiutamente; 2) attribuirsi qualità immaginarie; 3) sentirsi in una falsa condizione gerarchica rispetto alla natura e agli animali; 4) inventare sempre nuove tavole di valori considerandole per qualche tempo eterne e incondizionate. Cosa segue? La fine dell’umanità come concetto e non come oggetto. Quel volto umano tracciato sulla sabbia che sta per essere investita da un’onda, come raccontava Foucault. Caduta una narrazione ne occorre un’altra “postumana”, antagonista a quella superomistica proposta dallo stesso Nietzsche. Il postumano è un’umanità “aperta”. L’umano è in continuità ontologica con la natura e non ha una posizione speciale nel mondo. Tende a ibridarsi e modificarsi con i suoi stessi prodotti tecnologici, modificando i suoi predicati e la sua essenza, divenendo un’opera aperta (come la definiva Umberto Eco) contrapposta all’opera chiusa dell’umanesimo.

Qui rientra Milano Animal City. Un esperimento in cui si fa esercizio di questo “dopo” usando l’urbanistica. In questa intercapedine si apre un nuovo spazio per quella filosofia dell’architettura che è l’idea secondo cui per progettare nuove forme di vita (filosofia) si debbano concepire diverse strutture per la vita (urbanistica). È un progetto più metafisico che etico. Per troppo tempo si è creduto (si pensi ad Adolf Loos che non annoverava gli architetti tra gli esseri umani) che il progetto fosse un atto divino: una creazione di mondo a cui poi altri si sarebbero dovuti adeguare. Oggi i tempi sono invece maturi per comprendere che progettare significa creare vita comune: la domanda è come vedrei il mondo se non fossi chi sono?

Ecco dunque che la progettazione della città diventa un atto corale: visioni molteplici che tentano di ricongiungersi entro la parola “intersoggettività”. Dobbiamo prepararci a una nuova epoca: quel postumanesimo già in atto in cui nuove forme di vita vivono insieme in una ritrovata alleanza.

 

Leonardo Caffo

 

NOTE
1. A. M. Ortese, Le Piccole Persone, Adelphi, Milano 2016, p. 16
2. Ivi, p. 17

 

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Antropocentrismo e crisi ecologica: un nesso inscindibile

Affermare che la crisi ecologica non sia semplicemente una delle molteplici sfide che l’uomo contemporaneo deve affrontare, ma la più importante, la questione fondamentale, la più eminente ed urgente, al punto tale che tutte le altre sono contenute e si propagano da questa, credo sia oggi un dovere imprescindibile se si ha a cuore la verità.

Due sono i motivi fondamentali − essenzialmente connessi, in quanto l’uno segue l’altro − che danno alla questione ecologica il carattere della priorità. Il primo dei due è un accadimento, sublime e terrificante nello stesso tempo: la Vita, nella forma in cui s’esprime sul nostro pianeta, in tutte le sue sfaccettature, sia dal punto di vista materiale che dal punto di vista spirituale, si trova nella condizione di essere in pericolo. E questa condizione di pericolo in cui versa la Vita è dettata dall’uomo stesso! Tolte di mezzo le catastrofi naturali, nessun ente sino ad ora è stato capace di un’azione modificatrice nonché distruttrice dell’essente di immane portata: l’uomo si è fatto, così, il problema della Vita. Il secondo motivo, effetto del primo: il farsi dell’uomo come il problema della Vita, genera un terremoto spirituale mai avvenuto prima, che scuote con violenza le fondamenta dei saperi e delle credenze che egli ha avuto sino ad ora su se stesso, sulla Natura e su Dio. In gioco, in definitiva, è l’intero orizzonte culturale entro cui abbiamo interpretato l’esistenza, orizzonte caratterizzato nella sua essenza da una visione antropocentrica.

In cosa consiste quest’antropocentrismo? Nell’idea che «l’uomo è la misura di tutte le cose» e che tutto l’essente, finendo addirittura a coinvolgere il Principio primo d’ogni cosa, esista in funzione dell’uomo. Tutto, per questo, diventa anche antropomorfo. Ma proprio la sofferenza e la distruzione prodotta dall’uomo alla Natura ci dimostra, incontrovertibilmente, il contrario e l’errore di fondo di questo paradigma: l’uomo non è assolutamente il signore indiscusso della Terra, il dominatore incontrastato, che ha il potere di assoggettare l’intero «creato» a suo uso e consumo; che la Natura non è un oggetto o solo una macchina regolata da leggi del meccanicismo che l’uomo può conoscere e utilizzare a proprio piacimento senza un agire etico, né una riserva infinita di energie del quale l’uomo può servirsi senza conseguenze negative; che Dio, in ultimo – ed è per me il punto della questione più importante –, non è stato ancora conosciuto dall’uomo, ed egli non è né il Dio della teologia cristiana, che ha un rapporto esclusivo con la sua creatura preferita («l’uomo creato a sua immagine e somiglianza»), di cui già da tempo si è annunciata la «morte»; né il Dio del panteismo, incatenato anch’egli alle leggi ferree del determinismo che nega ogni forma di libertà. Entrambe le divinità non sono in grado di partorire delle teodicee capaci di dare una ragione esaustiva alla presenza del male e della sofferenza nel mondo in senso generale, come del male e della sofferenza prodotti dall’agire umano. L’inconsistenza della riflessione filosofica sulla divinità si mostra con evidenza proprio nel nostro tempo, dove il male e la distruzione dell’agire umano hanno raggiunto un livello generalizzato e profondo da porre seriamente a rischio il futuro del nostro pianeta. Per questo, il fallimento della civiltà occidentale e del suo paradigma antropocentrico, è qualcosa capace ora di interessare ogni persona, proprio per la spaventosa estensione dei suoi effetti.

È la crisi ecologica, dunque, a renderci consapevoli (se vogliamo) di questi accadimenti: il fallimento della concezione della divinità – oramai in maniera conclamata! –, che è in ultima istanza il fallimento dell’uomo e del suo rapportarsi alla Natura. È quest’evento dalla portata terribile a costringerci a re-interrogarci. Mai come nell’epoca contemporanea, dinanzi alla distruzione e alla desertificazione della Vita da lui prodotta, l’uomo si è fatto anche un problema a se stesso, un punto interrogativo su di sé: «chi è l’Uomo?»

Nella sua storia l’umanità si è trovata più volte, in maniera ciclica, a dover rispondere alla domanda in cosa consista la sua essenza ultima. Potremmo dire che la storia del pensiero occidentale è stata scandita dalle varie risposte date a questo quesito e, come effetto di queste, dalle caratterizzazioni diverse date alla Natura e a Dio. Seppur nella diversità delle risposte, a volte anche completamente opposte, tutte, salvo rare eccezioni, hanno in comune l’avere una discendenza antropocentrica. La novità del quesito posto nella nostra era sta nel fatto che l’uomo è costretto a dare una risposta veramente nuova su di sé, non più all’interno di questo paradigma. Più precisamente: l’uomo è obbligato a costruire una nuova e fondata interpretazione dell’esistenza, a partire dai suoi errori ed orrori – ne va della suo stesso futuro!

A ben guardare, la problematicità che sorge con l’uomo nel seno dell’esistenza nasconde in sé qualcosa di più essenziale che la precede, perché la fonda e la permette: l’uomo è per essenza (ontologicamente) l’ente contro-naturale, colui che trascende la Natura e, in un senso generale, la Vita. Per questo, potremmo definire l’uomo come il paradosso dell’esistenza. Di questa nostra paradossalità siamo sempre stati chiamati a rispondere, ma nell’era del nichilismo compiuto e della crisi ecologica, questa paradossalità si fa finalmente e completamente manifesta e ci interroga da vicino, senza lasciarci respirare. Noi dobbiamo, una volta e per tutte, comprendere se questa nostra paradossalità sia stata una scelta libera o un destino inesorabile. La risposta, di riflesso, segnerà la conoscenza del Fondamento Primo di ogni cosa.  

Veramente chi siamo, cosa sia la Natura, chi sia Dio, e quale sia la relazione tra i tre, possiamo comprenderlo nuovamente oggi a partire dal grido di sofferenza di Madre Natura che esige giustizia. Questa è una rivoluzione senza precedenti!

 

Davide Maranta

Nato a Napoli, laureato alla triennale in filosofia all’Università Federico II con una tesi sull’interpretazione cristologica in Nietzsche, con il massimo dei voti, al momento lavoro alla tesi magistrale in filosofia sul concetto di “Dio in divenire” nel filosofo Max Scheler. I miei studi vanno in due direzioni ma strettamente connesse e alla fine coincidenti:da un lato la rivalutazione della sfera emozionale umana, come vera e propria facoltà conoscitiva che ha una propria “legalità” diversa da quella della ragione e, quindi, non sfera dell’irrazionale come la si è bollata sino ad ora; dall’altro il riproporre la domanda, che caratterizza da sempre la ricerca filosofica, sul fondamento ultimo di ogni cosa. Entrambe le direzioni partono da una sentita riflessione sulla crisi ecologica ed hanno come ultimo fine il superamento della stessa, a partire dalla fondazione di un nuovo rapporto uomo-Natura.

 

[Photo credits: Evan Kirby on Unsplash]

Carne “etica”, ovvero uccidere o non uccidere

“Cosa scegliereste tra un pezzo di carne per cui è stato necessario abbattere un vitello e lo stesso identico alimento, ma più economico, prodotto senza emettere gas serra e senza macellare alcun animale?”.

Questa domanda è stata posta al popolo cinese in merito alla sicurezza alimentare e alla tutela ambientale, questioni che sono diventate fondamentali dopo gli scandali in Oriente degli ultimi dieci anni, così come la sicurezza e la salute dei cittadini stessi.

Il futuro della carne tuttavia potrà realmente essere solo quello legato ad una artificiale? Questa scelta porterà i consumatori a preferire “carne etica” prodotta in laboratorio? Diverse aziende nel mondo stanno infatti scegliendo di sperimentare questo tipo di carne in piccole quantità, utilizzando cellule prelevate dagli animali e che poi maturano e si riproducono. Una scelta che fa discutere perché sono diverse le ragioni etiche che spingono verso questa tecnologia, dal trattamento degli animali all’emissione di gas serra; argomenti che si aggiungono poi al risparmio economico e ai costi competitivi.

A questo proposito la CEO dell’azienda (tra i leader del settore) Memphis Meats, Uma Valenti, afferma che «questo sarà il futuro», perché la carne prodotta in laboratorio sconvolgerà completamente la nostra vita; questo a suo parere conseguirà al fatto che nel prossimo futuro diventerà impensabile allevare animali e ucciderli per mangiarli, evitando dunque oltre gli allevamenti intensivi anche lo sfruttamento del territorio che ne consegue.

Non sappiamo dunque se questo sia il futuro ma è certo che già oggi stiamo iniziando sempre più a modificare le nostre abitudini alimentari.

Dal punto di vista etico questo passo sembra colpire l’uomo nella sua integrità, in quanto cerca di superare la condizione in cui si trova a causa del fatto che i paradigmi culturali ai quali è stato distrattamente legato sembrano essere falliti. Basta pensare alla trasformazione dell’uomo come forza della natura contro la natura stessa, in quanto la vita sulla terra è sempre di più legata al destino dell’uomo; un antropocentrismo che molto spesso non ci permette di conoscere ciò che abbiamo di fronte.

Per questo motivo diventa fondamentale darsi degli strumenti di lettura diversi, rivedendo posizioni religiose, filosofiche e giuridiche, se si vuole agire come se fosse possibile fermare, agire come se ci fosse la possibilità di uscire dalle contraddizioni.

Se noi stessi non iniziamo a comprendere il dolore che ci circonda, non arriveremo a comprendere nemmeno noi stessi all’interno della complessità del reale. In questi casi diventa fondamentale rifondare i nostri valori e concetti come quello di persona ma anche di equilibrio e di benessere, perché molto spesso i centri decisionali non stanno nelle politiche, ma altrove.

A voi la soluzione.

 

Martina Basciano

 

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Bioetica e ambiente. L’uomo, la natura e le calamità naturali

Terremoti, alluvioni, frane e valanghe, i disastri naturali negli ultimi tempi hanno pesantemente colpito il nostro Paese provocando vittime e danni. Possiamo definirli esclusivamente fenomeni naturali causa dell’imponderabilità della natura o eventi amplificati dall’attività umana se non addirittura imputabili alla mano dell’uomo? Forse la natura si sta ribellando allo sfruttamento geotermico del sottosuolo, alle trivellazioni sotterranee, all’inadeguato utilizzo del territorio, all’errata urbanizzazione, ai cambiamenti climatici causati da inquinamenti e surriscaldamento del Pianeta?

Come ottenere una riconciliazione tra la natura e l’uomo partendo proprio dall’uomo, e perché la bioetica può rendersi utile nella realizzazione di tale processo?

Nel 1971, l’oncologo americano Van Reasselaer Potter, attraverso la costruzione del neologismo bioetica1, rese esplicita la consapevolezza dell’avanzare e del radicarsi di un progresso scientifico-tecnologico che avrebbe portato con sé la possibilità e la speranza di un miglioramento delle condizioni di vita, ma anche il rischio di un disfacimento dell’uomo e della sua umanità. Potter mise in luce la sua preoccupazione per la sopravvivenza dell’intero ecosistema.

L’oncologo americano richiamava, quindi, alla necessità di una nuova disciplina che combinasse la conoscenza biologica con la conoscenza del sistema dei valori umani, sanando la spaccatura tra due ambiti di sapere: il sapere scientifico e il sapere umanistico. La bioetica, così intesa, non avrebbe fatto riferimento solo alle problematiche biomediche, ma si sarebbe occupata di tutta la biosfera e quindi della vulnerabilità della natura in relazione all’intervento tecnico dell’uomo.

Nel corso della storia, nel rapporto con la natura, l’uomo ha assunto nei confronti della biosfera due atteggiamenti antitetici a seconda che predominasse in lui il rispetto per ciò che rendeva possibile la vita o, al contrario, il desiderio di esserne il padrone assoluto.

Le tradizioni di pensiero dominanti nella nostra cultura hanno promosso due opposti fondamentalismi individuabili nell’antropocentrismo e il biocentrismo. Il primo sostiene che compete all’uomo la preminenza all’interno del mondo naturale affermando, nelle sue correnti più radicali, il primato assoluto dell’uomo sulla natura; il secondo, all’inverso, rifiuta l’idea di una superiorità umana, per cui l’uomo è un semplice cittadino biotico i cui interessi si intersecano con quelli della biosfera.

È possibile identificare una terza via? L’uomo è l’unico essere degno di considerazione morale? Ne è l’unico destinatario? Come coniugare le preoccupazioni ecologiche con la cultura umanistica, la quale, dal canto suo, ipotizza la centralità dell’uomo? Come salvaguardare la natura senza penalizzare lo sviluppo dell’attività umana?

Credo che una terza via esista e che debba mantenersi in un’ottica antropocentrica: non si può prescindere dall’avere come punto di riferimento e come protagonista l’uomo se si vuole creare un’etica dell’ambiente in grado di proporre soluzioni operative. Il recupero dell’equilibrio tra uomo e natura non si ottiene mettendo sullo stesso piano l’essere umano e gli altri esseri viventi, ma piuttosto modificando il modo di pensare e agire dell’uomo nei confronti delle altre entità naturali. L’uomo deve farsi custode e rendersi responsabile di tutto il mondo naturale disciplinando, se necessario, la propria condotta. La natura è un bene da conservare e difendere per rispetto dell’essere umano stesso e in funzione della qualità e della sopravvivenza delle generazioni future, la tentazione di onnipotenza derivante dal vasto apparato di conoscenze tecnico-scientifiche deve essere assolutamente superata.

Riprendendo il pensiero del filosofo tedesco Hans Jonas: l’uomo deve considerare la natura come un bene da tutelare e da proteggere, e deve agire in modo che le conseguenze delle sue azioni siano compatibili con il mantenimento della vita umana sulla terra2.

La bioetica, come ambito di riflessione interdisciplinare, attraverso l’integrazione di differenti approcci: da quello biologico a quello economico, industriale, giuridico ed etico può offrire riflessioni significative che si trasformino in comportamenti attuabili al fine di assicurare le condizioni per uno sviluppo “sostenibile” delle attività umane che, nel contempo, permetta all’uomo di continuare a vivere nel suo mondo, ambiente non di distruzione e di morte, ma di vita.

 

Silvia Pennisi

 

NOTE
1. V.R. POTTER, Bioethics: Bridge to the future, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, 1971, p.1.
2. H. JONAS, Il principio di responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino, 1990.

[Immagine tratta da Google immagini]

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