La Polonia tenta di cancellare la storia?

«Imporre un bavaglio ai fatti storici è una questione molto seria. Un tentativo di falsificare la verità. Che a mio giudizio implicitamente ammette che parte della popolazione polacca fu complice del processo di eliminazione dei loro compatrioti ebrei durante la seconda guerra mondiale»1. Così si esprime Jan Gross, storico di Varsavia e professore emerito a Princeton, uno dei più importanti studiosi in merito alle complicità polacche nello sterminio degli ebrei. Le sue parole si riferiscono alla nuova legge della Polonia, definitivamente approvata in Senato l’1 febbraio, che proibisce ogni menzione di dirette responsabilità polacche nella Shoah. Chi lo fa, rischia fino a tre anni di carcere. Ora si attende solamente la firma istituzionale di di Andrzej Duda, il capo di Stato.

Ma quali sono i motivi di questa nuova legge?
Il primo, sicuramente, è uno dei discorsi più sentiti dalla popolazione: la questione dei “campi di sterminio polacchi”. «la nuova legge serve contro la menzogna su Auschwitz campo polacco» ha affermato il premier Morawiecki2. Su questo si può concordare. Fu il Reich ad introdurli in territorio polacco dopo averne preso il controllo e − almeno ufficialmente − non ci fu un governo collaborazionista (come ad esempio quello francese).
Ci si potrebbe allora chiedere perché questa legge ha generato indignazione e dure critiche da parte di Europa, Usa e Israele. È la risposta a questa domanda il nodo centrale della questione: il secondo motivo è di cancellare ogni collegamento dei polacchi con l’Olocausto, e quindi anche i casi di collaborazionismo.
In che misura i polacchi contribuirono all’eliminazione degli ebrei?
«Non esiste una risposta univoca. […] tantissimi polacchi (molto più dei collaborazionisti) difesero e vennero uccisi per aver protetto ebrei»3. Il problema è che, comunque, collaborarono «diverse migliaia di cittadini polacchi. Ma anche qui c’è dibattito tra gli storici: quanti lo fecero volontariamente? […] Il più grande eccidio commesso materialmente dai polacchi è il pogrom di Jedwabne: il 10 luglio 1941, quaranta polacchi (scelti dai nazisti) bruciarono vivi 340 ebrei rinchiusi in un pagliaio»4.
Inoltre potremmo indagare i perché più profondi di questa nuova disposizione: il clima politico attuale e ciò che lo ha preceduto. Negli ultimi tempi, la politica di destra al governo «si è fatta forte di uno slogan che è un’ossessione nazionale: “ridare dignità alla Polonia”. Che da una parte prende di mira l’Europa, accusata di limitare la sovranità nazionale all’interno dei confini. Dall’altro attacca gli sforzi per svelare la storia»5 è sempre Gross a parlare, che continua: «una nazione non può crescere e progredire senza fare i conti con il passato»6.
Attualmente Jaroslaw Kaczynski, presidente del Pis (Diritto e Giustizia), controlla il governo ed il Parlamento. L’ideale, sin dall’insediamento, era di promuovere una “politica storica”, quindi esaltando le virtù nazionali ma anche controllando direttamente la narrazione storica.
«Il fatto è che da quando il paese ha conquistato la libertà il principale tema della discussione pubblica sono i crimini perpetrati dai polacchi ai danni degli ebrei sotto l’occupazione tedesca. […] Era ed è una discussione che portava e porta alla messa in questione dell’identità polacca, intesa come appartenenza alla nazione cattolica, etnicamente omogenea, generosa con le minoranze (ebrei) e vittima dei vicini (russi e tedeschi)»7 è Wlodek Goldkorn a parlare, con una riflessione che può indicarci chiaramente come e perché questa legge sia stata promossa.
Infatti negli ultimi tempi il potere polacco sta scatenando una campagna d’odio verso l’Europa, la Germania ed i traditori interni. È proprio attraverso quest’ottica bisogna leggere la nuova disposizione che «per chi conosce le regole (non tanto) segrete della retorica polacca è ovvio che si tratta di un provvedimento in fin dei conti xenofobo e che si richiama all’immaginario antisemita»8 sempre parole di Goldkorn.

La scrittrice Halina Birenbaum − ebrea polacca sopravvissuta all’Olocausto − è rimasta sconcertata: «c’erano polacchi che segnalavano gli ebrei ai nazisti, ora potrebbero arrestarmi per averlo detto, ho un biglietto aereo per Varsavia ma ho paura. […] I tedeschi occupanti non sapevano sempre chi era ebreo, ma i polacchi sì. C’erano vicini coraggiosi che ci nascondevano, ma anche altri che denunciavano. Mi sento malissimo, questa legge ferisce i sopravvissuti e i milioni di cui non rimasero che numeri»9.

Non si può nascondere la storia sotto un tappeto, men che meno se si sta parlando di implicazioni con la tragedia ebraica. È certamente scorretto affidare colpe che non hanno ai polacchi, ma non si può negare che almeno qualcuno abbia favorito, aiutato ed in qualche caso sostenuto il massacro nazista. Il clima antisemita preesisteva già, in Polonia come in molti altri Paesi europei, e fare finta che così non fosse, minacciando con il carcere chi voglia fare ricerca e pubblicare le proprie scoperte in questo ambito è semplicemente controproducente.
Di sicuro le cause che hanno portato all’imposizione nazista in Germania sono sfaccettate, ma altrettanto certo è che due di queste siano state la sottovalutazione di eventi di questo genere e il non voler ammettere che la follia nazista dava voce ad un sentimento, se non condiviso, almeno già in parte esistente.

Pensiamo alla Germania ed al suo enorme sforzo di fare i conti con la propria storia. Il risultato? L’acquisizione dell’accettazione dell’altro. Non a caso quando c’è stato bisogno d’aiuto con la crisi migratoria, le porte tedesche si sono subito aperte.

 

Massimiliano Mattiuzzo

NOTE
1. 2 febbraio 2018, La Repubblica, pag. 3
2. 2 febbraio 2018, La Repubblica, pag. 2
3. Ibidem
4. Ibidem
5. 2 febbraio 2018, La Repubblica, pag. 3
6. Ibidem
7. 2 febbraio 2018, La Repubblica, pag. 28
8. Ibidem
9. 2 febbraio 2018, La Repubblica, pag. 3

[Immagine tratta da Google immagini]

 

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Louis-Ferdinand Céline, un nichilista? Viaggio al termine della notte: ritratto di un’epoca

 

La nostra vita è come il viaggio di un viandante nella notte; ognuno ha sul suo cammino qualcosa che gli dà pena.

Canzone delle guardie svizzere, 1793

 

«Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario: ecco la sua forza, va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. È un romanzo, nient’altro che una storia fittizia.»

Incipit del Viaggio al termine della notte, citato all’inizio del film La grande bellezza

Louis Ferdinand Céline (1894-1961) è stato uno scrittore francese, uno dei più controversi personaggi della letteratura del XX secolo ma anche uno dei più ammirati ed influenti.

Di professione medico, Louis Destouches assunse lo pseudonimo letterario di Céline ed esordì nel 1932 con il romanzo Viaggio al termine della notte, tuttora la sua opera più famosa. Il romanzo fu oggetto di attenzione e dibattito già al momento della sua pubblicazione, dividendo trasversalmente i lettori di ogni schieramento. Vi fu chi lo salutò come una rivelazione letteraria di prim’ordine e chi lo giudicava una sorta di parodia del maledettismo, un nichilista anarchico e disfattista. Il romanzo, chiamato in breve Voyage, è la storia di Ferdinand Bardamu, alter-ego dell’autore, dall’intervento nella Prima Guerra Mondiale nel 1914 fino ai primissimi anni ’30. Nel Voyage è spesso impossibile capire quali elementi siano tratti dalla vita del dottor Destouches e quali invece siano frutto d’invenzione. In questa sede potremmo solo soffermarci brevemente su due aspetti: sul valore della descrizione storica della sua epoca che Céline ci offre sulla nomea di nichilista che l’autore si è spesso attirato. Dovremmo purtroppo trascurare del tutto il valore strettamente letterario dell’opera, che pure è enorme: considerate dunque quanto segue non una vera analisi della vita e dell’opera di Céline, unite in maniera inscindibile, ma come un invito ad approfondire la figura di questo scontroso medico parigino.

Il Viaggio al termine della notte è la narrazione in prima persona della vita del dottor Bardamu, il racconto di quindici anni di vita in una lingua veloce e vorticosa, tanto sboccata e vicina al parlato quanto frutto di grande abilità letteraria. Nelle parole del narratore vengono in discussione tutte le fondamenta del ventesimo secolo. Nella Grande Guerra non vi sono soldati eroici, ma uomini che tentano di sopravvivere in un massacro di cui non capiscono né il motivo né l’utilità. Il colonialismo traspare come uno sfruttamento sistematico di popolazioni indigene dagli usi incomprensibili da parte di europei abbrutiti ed incattiviti. L’espansione delle città nelle campagne appare un contrasto tra due mondi opposti, le nascenti grandi industrie di Detroit sono un mondo alienante, l’ambiente medico ed accademico è pervaso da rivalità ed arrivismo. Ciò che più appare evidente in questo ritratto di un’epoca è però la critica al sistema sociale vigente, che abbandona i più sfortunati al loro destino di povertà. Quella povertà che sia l’uomo Céline sia il personaggio Bardamu vedevano come un’orrenda malattia e che conobbero loro stessi, offrendo assistenza medica anche a tutti coloro che non potevano permettersi di pagare il servizio. Nell’affrontare i grandi miti del Novecento Céline non diventa mai partigiano di una certa parte né si adagia su posizioni di comodo. All’orrore della guerra non segue una dichiarazione di pacifismo. La giungla africana è un posto selvaggio come la metropoli di New York, la severa critica al colonialismo non cede mai il passo ad un retorico elogio del “buon selvaggio”, alla disumanità della realtà industriale non corrisponde una nostalgia del mondo rurale, meschinità ed ipocrisia affiorano tra i ricchi come tra i poveri. Una vorticosa e pessimista descrizione delle brutture della vita e del mondo, in cui però affiorano timidi ed inaspettati momenti di autentica commozione e generosità, specialmente da parte dei reietti, gli ultimi della società. Nemmeno questi ultimi sono però oggetti d’idealizazione: Céline era infatti convinto che un eventuale riscatto delle classi più umili non potesse partire da esse, e tale convinzione gli alienò da subito la simpatia di molti critici.

Il Voyage non è un banale elenco di blasfemie, ingiustizie ed amoralità. Come egli stesso ammise, l’intento di Céline era quello di esprimere i sentimenti che un uomo può sentire ma non può confessare. E i sentimenti che traspaiono nel Voyage non sono quelli di una persona che ha realizzato il vuoto della vita si è abbandonato al nichilismo più crudo convinto dell’inutilità dell’esistere. Céline ci mostra invece i sentimenti di un uomo con un’altissima concezione della vita e degli esseri umani, e che proprio per questo non tollera le bassezze morali cui ogni uomo, di ogni estrazione ed egli stesso compreso, è dedito. Alla luce di ciò è facile mettere in discussione l’idea di Céline come nichilista. Se si mette in discussione ogni principio morale ed il valore stesso della vita allora si rifiuta inevitabilmente anche il mondo in cui si vive. Céline invece, senza apparentemente aderire a nessun credo, si dedica a smontare i falsi miti della società e a porre in evidenza le insanabili contraddizioni del mondo, non a respingere acriticamente ogni cosa.

Purtroppo il valore del pensiero e della letteratura di Céline sono stati a lungo tempo oscurati dalla nomea di nazista che lo scrittore si attirò dopo aver pubblicato, alla fine degli anni ’30, alcuni pamphlet dichiaratamente antisemiti. Opere che appaiono ancora più incomprensibili da parte di uno scrittore di tal valore, pregne di un antisemitismo ben distinto dal nazismo ma che rasenta il farsesco, toccando il complottismo più ingenuo e la pseudo-scienza più cialtrona. Con la Seconda Guerra Mondiale, Céline riparò presso il governo filo-tedesco di Vichy, dove non ebbe però incarichi. Alla fine della guerra il dottore fuggì in Danimarca temendo l’accusa di collaborazionismo, ma fu presto arrestato e rimpatriato. Céline fu scarcerato nel 1951, ma la sua figura era ormai irrimediabilmente compromessa, ed il dottor Destouches pagò i suoi errori vivendo in disparte ed in oblio gli ultimi dieci anni di vita. Difficile esprimersi sull’antisemitismo di Céline, tutt’ora oggetto d’incertezza e d’indecisione. Alcuni ridimensionano il razzismo celiniano fino a considerarlo solo un’espressione dell’antisemitismo che in Francia fu serpeggiante fino alla seconda guerra mondiale, e la colpa dello scrittore sarebbe stata l’averlo ammesso apertamente. Altri evidenziano come tale pregiudizio non avesse nello scrittore nessun fondamento religioso o razziale, ma che egli avesse semplicisticamente identificato negli ebrei la grande borghesia arricchita. Già all’epoca della loro uscita questi pamphlet suscitarono sconforto nella critica di sinistra e dubbi in quella di destra: in molti lo accusarono di nazismo o di opportunismo e solo in pochi, come André Gide, reputarono i tre libri un gioco “letterario” cui l’autore stesso non credeva.

Bisogna sempre distinguere tra un uomo ed il suo lavoro, anche quando vita ed opera sono strettamente intrecciate e confuse come in Céline. Ma come è discussa la figura di Céline, così è indiscutibile il valore dei suoi libri. Prendete questa pagina come un piccolo invito a leggere il Viaggio al termine della notte.

«Così finiscono i nostri segreti quando li esponi all’aria e in pubblico. Di terribile in noi e sulla terra e in cielo c’è solo quello che non è stato ancora detto. Saremo tranquilli solo quando tutto sarà stato detto, una volta per tutte, allora finalmente faremo silenzio e non avremo più paura di stare zitti. Ci saremo.»

Louis-Ferdinand Céline

«…perché ti piace Céline? Perché si è tolto fuori le viscere e ci ha riso sopra. un uomo molto coraggioso. Perché è importante il coraggio? È una questione di stile. l’unica cosa che ci è rimasta.»

Charles Bukowski

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Umberto Mistruzzi

[Immagini tratte da Google Immagini]

Etica e politica dell’ebraismo italiano

[di Dario Calimani – articolo tratto da ‘Pagine Ebraiche’, Dicembre 2010]

La crisi della cultura e della politica italiane sta forse trascinando con sé anche la cultura e l’etica dell’ebraismo che viviamo?

La domanda viene naturale quando si mediti sul dibattito intermittente in corso con il mondo cattolico, da un lato, e con il mondo politico, dall’altro. Chi, da anni, cerca di tenere vivo il dialogo con il mondo cattolico avrebbe ogni elemento a disposizione per ricredersi sulla sua utilità ogni qualvolta, attraverso le sue molteplici e variegate voci, la Chiesa si esprime nei confronti dell’ebraismo. Con tattica semplice e collaudata, voci sempre diverse si risvegliano per negare la Shoah, per riaffermare il valore della “pro perfidi Judaeis”, per rimproverare chi non riconosce la silenziosa santità di Pio XII, per affermare che il Vaticano ha salvato più ebrei di quanti non ne abbia lasciati morire, per biasimare l’ebreo caparbio che non si converte, per aggredire la cultura (ebraica) del relativismo. Ogni tanto poi il cristianesimo scende in politica, e dal suo piedistallo religioso censura l’ingiustizia di Israele che, contro l’interesse politico dei palestinesi, continua a esistere.

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