Tre donne, tre storie, tre individui: Fallaci, Aleramo, Ernaux

I libri hanno la capacità di trasportarci in mondi immaginari e di vivere storie grandiose, ci immergono in favole o avventure epiche che soddisfano la nostra necessità di fuga dalla realtà. Altre volte invece non ci presentano altro che la verità, uno spaccato nudo e crudo di una vita, una prospettiva umana e a volte anche ordinaria del mondo. Di conseguenza certe storie hanno protagonisti che non sono altro che “un uomo” e “una donna”, spogliati di ogni appellativo, ogni professione, qualità, aspetto fisico, età, interessi, desiderio particolare e si presentano al lettore così come sono: semplicemente umani.

Lo è quella donna raccontata da Sibilla Aleramo nel suo romanzo del 1904 (Una donna, appunto). La osserviamo crescere nella grande città, piena di idee e con gli occhi rivolti in sù, verso il volto del padre tanto ammirato, per approdare poi nel paesino del Sud Italia, sposarsi con poca convinzione ed abbassare quello sguardo, delusa nelle sue aspettative dalla vita, dall’amore, persino dalla figura paterna. Questa donna diventa madre, sembra trovare nel figlio il riscatto di una vita tramutatasi in macigno e per molte pagine scopriamo la sua identità di donna coincidere con quella di madre. La scrittura e il lavoro presso un giornale della capitale le permettono a stento di sopravvivere come individuo. «Amare e sacrificarsi e soccombere! Questo il destino suo e forse di tutte le donne? […] tutto era vano, la gioia e il dolore, lo sforzo e la ribellione: unica nobiltà la rassegnazione» (S. Aleramo, Una donna, 19954). Un amaro riscatto compare solo a poche pagine dalla fine, in cui la donna torna ad essere “una donna”, non solo una madre, e riacquista a caro prezzo la propria identità.

Anche la donna raccontata molto più recentemente da Annie Ernaux in Una donna (L’orma, 2018) tenta di spogliarsi del suo essere madre (la madre della scrittrice) e di presentarsi nella sua nudità umana. Un racconto molto meno intenso e molto più quotidiano che ci riporta una parabola di vita del tutto comune di una donna che ama, che spera, che sogna, che inciampa, che sragiona. Che apparentemente non ha nulla di speciale se non la volontà di esistere, di prendersi i propri spazi, di essere libera, di non chiedere sempre il permesso e quindi, in definitiva, di essere un individuo e poter esprimere appieno sé stessa. Un’individualità che, a differenza del romanzo di Aleramo, è qualcun altro che deve ricostruire: Ernaux è una figlia che all’improvviso si accorge che la madre non è soltanto una madre. «Per me mia madre è priva di storia. C’è sempre stata», scrive l’autrice, e con lei ci accorgiamo di quanto certi ruoli (sociali ma anche familiari) vadano a coprire un’identità molto più ricca tutta da ricercare.

Apparentemente diverso l’uomo raccontato da Oriana Fallaci nel suo romanzo del 1979. Un uomo molto, molto specifico e sotto molti aspetti del tutto speciale, un eroe tragico realmente esistito e capace di gesta e idee non proprio comuni. Eppure quel titolo, Un uomo, ci dona un’opinione diversa del personaggio, ci spinge a giudicarlo per quello che è, più che per quello che ha fatto, intimandoci di considerarlo nella sua interezza, nei suoi grandi ideali così come negli scoppi di collera e negli eccessi. Essere un uomo significa «avere coraggio, avere dignità. Significa credere nell’umanità. Significa amare senza permettere a un amore di diventare un’àncora. Significa lottare. E vincere»: queste le parole di Alexandros Panagulis riportate da Fallaci. Dunque l’uomo può anche essere un eroe, e non ci sono eroi che non siano umani.

Tutti e tre i personaggi descritti nelle storie dei libri sono individui specifici e unici, eppure al tempo stesso tutti e tre si fanno simbolo, senza volerlo. Simbolo di lotta umana, di anelito alla libertà individuale ma anche collettiva (Panagulis nei confronti della Grecia, Aleramo nei confronti delle donne), di autodeterminazione, di inseguimento di un sogno, anch’esso personale ma anche collettivo, di diritto all’errore. Tutti elementi questi che li accomunano e che ci accomunano, tutti nel nostro intimo. Il senso di scoperchiare queste storie “senza nome e senza titolo” è quello di mostrarci come, anche nella rete di relazioni che costruiamo (la donna di Ernaux è sua madre, Panagulis è per Fallaci il compagno) restiamo degli individui, unici, e apparteniamo a noi stessi. Dobbiamo restare in cima alle nostre priorità, cosa che non significa mettere da parte gli altri, ma semplicemente non dimenticarci che noi esistiamo. E meritiamo di esistere, a prescindere dagli altri, per noi stessi.

 

Giorgia Favero

 

[Photo credit Molly Belle su unsplash.com]

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Quando la memoria spezza l’Io: tra Aristotele ed Ernaux

Aristotele, nel De anima, suddivide il processo conoscitivo in tre stadi: sensibile, immaginativo e intellettivo. Mi voglio soffermare sul secondo stadio, l’immaginazione (o phantasia), in particolare sul concetto di phantasmata. Possiamo tradurre questo evocativo termine con la parola “immagine” – intesa come una sorta di fotografia mentale che riproduce all’interno del nostro cervello, grazie alla mediazione degli organi sensoriali, oggetti e soggetti esterni a noi. Tale sembianza viene poi elaborata dall’intelletto, completando così la procedura conoscitiva.

Nel romanzo Memoria di ragazza (L’orma editore, 2017) la scrittrice francese Annie Ernaux ci fornisce un phantasmata di se stessa nel passato, “la ragazza del ‘58”, così come si (e la) chiama lei. La Ernaux prende le distanze, si stacca dalla 18enne che è stata e questo suo alter ego passato aleggia – proprio come un fantasma – tra le pagine di quest’opera autobiografica. Quando non si chiamava ancora Ernaux ma Duchesne (il suo cognome da ragazza), alla viglia della maggiore età la scrittrice trascorse parte dell’estate presso una colonia estiva in Normandia lavorando come educatrice.
Per la prima volta si ritrovò lontana dalla sua rassicurante casa, dalla protettiva “morsa” dei suoi genitori – e si diede alla pazza gioia. Scoprì il sesso, un oscuro arcano, una pratica confusa che ebbe su di lei, ragazzina inesperta e ingenua, un impatto doloroso, totalizzante, umiliante. Annie s’invaghì di H., un educatore più grande, ritrovandosi in un batter d’occhio ad essere completamente soggiogata da lui.

«Ci sono esseri che sono sommersi dalla realtà degli altri […]. Un giorno, o piuttosto una notte, sono trascinati nel desiderio e nella volontà di un unico Altro. Ciò che credevano di essere scompare. Si dissolvono, e guardano il proprio riflesso agire, obbedire, trascinati nel corso sconosciuto delle cose».

Questo è l’incipit del libro, che descrive alla perfezione l’esperienza sentimental-sessuale che sconvolse la vita della giovane Annie.
Tuttavia, non è quest’esperienza a dominare nel romanzo.
Ciò che domina è il tentativo, compiuto dalla scrittrice, di «esplorare il baratro tra la sconcertante realtà di ciò che accade nel momento in cui accade e la strana irrealtà che, anni dopo, ammanta ciò che è accaduto». Il tempo scorre e guardandoci indietro, alla ricerca di noi stessi, troviamo solo dei fantasmi, lontani dal nostro io presente nello spazio e nel tempo.
Per compiere quest’impresa la Ernaux deve dissociarsi da se stessa, decostruirsi: «Non costruisco un personaggio di finzione. Decostruisco la ragazza che sono stata». Osservando una sua vecchia foto dell’epoca si getta a capofitto nei ricordi. Annaspa, ma questo è l’unico modo per tentare di carpire chi è stata, per raccontare e nel contempo rimembrare. È così che si accorge che il tempo, scorrendo inesorabilmente, sedimenta senza sosta strati e strati di ricordi di esperienze vissute, andando a modificare il nostro io. E «scavare fino in fondo in quel 1958 significa accettare la polverizzazione delle interpretazioni accumulate nel corso degli anni».

Togliendo quegli strati si verifica nella Ernaux una scissione dell’io: da un lato c’è l’io presente, consapevole di tutto ciò che ha vissuto; dall’altro lato un io scevro di ricordi – quelli dal 1958 in avanti. Quest’ultimo io è la “ragazza del ‘58” che la Ernaux cerca di riesumare; ma questa operazione di recupero è ardua, stancante, alienante. Per quanto la scrittrice si sforzi, ella si rende conto, nel corso della stesura del romanzo, che non potrà mai tornare ad essere quella che è stata. Come fare, allora, a raccontare un fantasma? Eppure quel fantasma «è reale fuori di me, il suo nome è scritto nei registri del sanatorio di S», ossia della colonia.
Leggendo Memoria di ragazza, ci accorgiamo di quanto sia perturbante rendersi conto che non siamo più chi siamo stati. Un abisso sedimentato di memorie separa la nostra esistenza passata da quella presente.

Qual è, dunque, il legame fra questi due poli che siamo e al contempo non siamo? Il legame è rappresentato solamente dal nome e dal cognome o dai nostri connotati fisici? E cos’è davvero l’io e come possiamo identificarlo e riferirci a esso, se esso continuamente, ad ogni secondo in cui il tempo avanza, si spezza diramandosi in diverse direzioni?
Chi studia e bazzica la filosofia, però, lo sa bene: infinite sono le domande, ma sconosciute – spesso – restano le risposte. Si procede per tentativi, ma potrà essere frustrante. Ma ci può anche capitare di stupirci rendendoci conto che anche noi stessi siamo i phantasmata di cui parla Aristotele. Io sono, e proprio essendo mi lascio dietro delle incorporee rappresentazioni di me stessa che potrò osservare come si osservano delle vecchie fotografie, con la distanza a mediare fra ciò che ero e ciò che sono. Esistere significa proprio stare in bilico su questa spaccatura, accettare il fatto che siamo soggetti “spezzati” e che il tempo ci oggettivizza, continuamente. Del resto, se la realtà è nel qui ed ora, va da sé che non è possibile afferrare compiutamente la memoria di ciò che eravamo.

 

Francesca Plesnizer

 

[immagine tratta da Google immagini]

la chiave di sophia 2022