Inglesismo selvaggio

L’inglesismo selvaggio è ormai un dato di fatto nella quotidianità di molti contesti lavorativi e universitari, nei quali le persone utilizzano termini e acronimi che molto spesso non sanno cosa vogliano effettivamente dire. All’interno della loro nicchia linguistica ciò appare loro come dotato di un significato e di una intrinseca coerenza. Tale fenomeno prolifera nel linguaggio comune e deve il suo successo all’alto livello di contagiosità; capita così che il termine impresso nella memoria balzi fuori al bar mentre si sta bevendo un aperitivo con gli amici, i quali rimangono sbigottiti o ancora peggio annuiscono anche se non stanno capendo assolutamente nulla di ciò che viene detto.

Spezzerò tuttavia una lancia a favore degli inglesismi, come premessa necessaria a riflettere criticamente su questa tematica. Le parole sono come organismi viventi: alcune migrano da un contesto linguistico all’altro, possono nascerne di nuove, è possibile generare parole da altre parole etc… Una lingua esiste propriamente quando c’è qualcuno a parlarla ed evolve insieme a coloro che la scrivono e la proferiscono. Spesso l’Italia è tacciata di esterofilia, ma c’è da dire che oggi nessuno metterebbe in discussione parole come computer, mouse o driver di installazione, in altri paesi tali termini non hanno passato il vaglio di una analisi critica ed è così che in Francia driver è diventato operator o in Spagna il mouse è diventato ratón. La contaminazione linguistica non è un male assoluto, può essere sensato, soprattutto in campi funzionali, mantenere il valore di quelle parole nella lingua originaria, e l’inglese è una lingua decisamente molto sintetica e immediata, quindi effettivamente riesce ad esprimere alcuni concetti in modo molto esaustivo e diretto.

Da un approccio potenzialmente corretto gli italiani sono poi incorsi nell’abuso dell’inglesismo, introducendolo in maniera acritica nel linguaggio comune, il che finisce per essere una patologia linguistica estremamente virale.

Perché chiamiamo il cartellino badge? Perché i giornali titolano killer e non assassino? Perché sono termini semplici e intuitivi, altri giustamente direbbero che è così perché vengono utilizzati di più e più le parole più si usano più si rinforzano. Personalmente credo che le ragioni vadano ricercate più in profondità e in particolare in una tempesta linguistica che abbiamo preparato noi come popolo.

Da un lato abbiamo gli italiani, un popolo che è stato unificato in tempi relativamente recenti e che per sua stessa natura ha mantenuto forti i propri legami e le proprie radici territoriali e dialettali. A questo aggiungiamo come conseguenza una scarsa predisposizione verso la lingua italiana, a tale proposito pensate alla trasmissione televisiva dal titolo Non è mai troppo tardi del maestro Manzi che negli anni sessanta insegnava l’italiano per superare il diffuso analfabetismo.

Gli italiani avendo, in generale, meno strumenti identitari nazionali hanno facilmente seguito la moda o il suono suadente di certe parole inglesi. A questo si aggiunge che, nonostante il doppiaggio in lingua italiana di film e altri prodotti audiovisivi abbia costituito una forma di difesa strutturale, la continua importazione di format televisivi nelle reti nazionali ha indubbiamente favorito la proliferazione di termini stranieri.

Dall’altro lato ci sono invece alcuni ambienti accademici che hanno avviato una crociata linguistica contro questi nuovi modi di dire, teorizzando a più riprese una vera e propria epurazione, un ritorno alle origini, giocando sulla nostalgia per i bei tempi in cui la lingua era “nostra” e ci connotava come popolo. Talvolta queste teorie sono state accompagnate da un forte sentimento nazionalistico: non dobbiamo infatti dimenticare che nell’inconscio collettivo degli italiani c’è il retaggio del fascismo, anche se spesso lo rimuoviamo acriticamente o con una condanna solo formale, che non aiuta a rielaborare quel periodo che ha investito ideologicamente il nostro Paese in modo negativo. La lingua è diventata allora un modo per rilanciare un certo sentimento di dignità nazionale che, cosa tipica del pensiero totalitario nelle sue molte formulazioni, può sussistere solo nell’identificazione di un “nemico”, molto spesso più immaginario che reale. In quest’ottica, la lotta alla proliferazione degli inglesismi si presta perfettamente a tale tipo di retorica.

Una parte del mondo accademico e in generale alcuni “presunti” intellettuali italiani, molto spesso troppo autoreferenziali, hanno tacciato l’italiano medio di limitarsi a scimmiottare gli americani, rinunciando a distinguersi dagli altri per conformarsi agli stili di vita dettati da marchi internazionali.

Gli intellettuali anziché instillare una analisi critica, e setacciare dove davvero le parole inglesi portavano un valore aggiunto in termini di funzionalità, si sono arroccati in cima alla “torre d’avorio” del sapere accademico dalla quale hanno solo saputo giudicare tutti gli altri.

A questi richiami gli italiani hanno risposto sostanzialmente infischiandosene della “purezza” della lingua nel parlare quotidiano e nel relazionarsi.

Scrive bene Wilhelm von Humboldt: «La lingua è la manifestazione fenomenica dello spirito dei popoli: la loro lingua è il loro spirito e il loro spirito è la loro lingua»1. E aggiunge: «L’uomo vive principalmente con gli oggetti, e quel che è più, poiché in lui patire e agire dipendono dalle sue rappresentazioni, egli vive con gli oggetti percepiti esclusivamente nel modo in cui glieli porge la lingua»2.

Il vero problema dell’inglesismo, linguaggio che si diffonde ogni giorno nell’uso comune, è che parliamo pensando di sapere cosa diciamo senza però riuscire nemmeno in molti casi a riportare quei concetti nella nostra lingua. In qualche modo siamo asserviti dalle stesse parole che usiamo perché non le padroneggiamo.

Anziché arroccarsi nella “torre d’avorio” gli intellettuali e la classe dirigente di questo Paese dovrebbero educare e educarsi come popolo all’analisi critica, alla chiarezza e alla limpidezza del linguaggio, senza rinchiudersi nella dimensione dell’ideologia, ed anzi recuperando un sano approccio genealogico come ci ha ben indicato Nietzsche. Pertanto dobbiamo tutti interrogarci non solo in merito a ciò che diciamo, ma soprattutto a perché lo diciamo, così da scegliere davvero consapevolmente come esprimerci.

Quindi proviamo a porci qualche domanda di consapevolezza su cosa stiamo ascoltando o dicendo quando magari affrontiamo con leggerezza termini come spread o spending review, e cerchiamo di esprimerci con parole di cui conosciamo effettivamente il significato e che non usiamo “a pappagallo” solo perché le utilizzano tutti.

 

Matteo Montagner

 

NOTE:
1. W.Von Humboldt, La diversità delle lingue, Roma-Bari, Laterza, tra. It. Di D. Di Cesare, 1991, p. 33.
2. Ivi, p. 47.

 

banner-pubblicitario_la-chiave-di-sophia_rivista

Uno sguardo diverso sul mondo Pop: l’esempio italiano

Roma, anni ’60, alcuni artisti sorseggiano una bevanda calda presso caffè Rosati, in piazza del Popolo, conversando sul loro tempo, sulle nuove tendenze culturali del periodo. Sono gli artisti che hanno segnato la storia della Pop Art in Italia: Mario Schifano, Tano Festa, Franco Angeli, Giosetta Fioroni, Lucio Del Pezzo, Renato Mambor, Enrico Baj, Titina Maselli; uomini e donne che hanno dato nuovi sensi e significati all’arte contemporanea, interpretando un mondo in continua evoluzione, sullo sfondo di una capitale che è centro del dibattito culturale del periodo. Se la Roma degli anni ’60 manifesta una profonda ripresa economica dopo le Grandi Guerre, facendosi portavoce delle rivoluzioni mediatiche (dal cinema alla televisione), anche gli artisti emergenti sentono la necessità di esprimere la realtà del tempo, accordandosi con un momento storico in cui l’arte pretende una svolta, necessita di un forte cambiamento. Nascono in questo modo capolavori come gli Argenti di Giosetta Fioroni, le rappresentazioni del paesaggio urbano di Cesare Tacchi, le opere in plexiglass di Gino Marotta che, nella commistione tra materiali industriali e soggetti quotidiani, propongono uno stile nuovo, al passo con i tempi.

Un vento di cambiamento, dunque, quello che si respira nella Roma degli anni ’60, sebbene permane quella sensazione di una italianità che non rinuncia alle proprie origini pittoriche, come ben esprimono le opere di Mario Schifano, il “nostro Andy Warhol”. Una Pop Art diversa dalla sua controparte americana, più intimistica, legata all’ambiente in cui nasce e cresce e al passato culturale da cui trae le mosse e da cui non può prescindere.

Dai primi moti, fino al trionfo con i tre grandi artisti: Angeli, Festa e Schifano; dalle opere di piccole dimensioni fino a quelle monumentali: questo il percorso che è stato costruito all’interno della mostra situata presso il Museo Civico di Asolo, visitabile fino al 2 aprile 2018.

recensione mostra schifano pop art asolo_La chiave di Sophia

Un panorama composito che, nella varietà di volti, scolpisce con completezza un periodo storico, una corrente e una geografia. Il tutto coronato dalla presenza di alcune tra le opere più significative del protagonista di questo movimento: Mario Schifano.

Egli interpreta la realtà seguendo il gusto di colui che ha colto i sentimenti di un’epoca, senza rinunciare alle proprie origini e alla propria identità. Oggetto della sua indagine diventa tutto ciò che lo circonda, in primis la propria città natale, Homs, centro di molteplici rappresentazioni da lui realizzate. Ciò che colpisce di Schifano è la capacità di dare vivacità e dinamismo all’immagine, grazie all’utilizzo di colori vivi, abbondantemente distribuiti sulla tela. Non c’è risparmio di colore nelle sue opere, le pennellate colpiscono letteralmente il supporto, creando increspature, conferendo tridimensionalità e giochi di luce e ombra. Da ciò deriva quella “pittoricità” dell’immagine, come è stata definita dalla critica, che differenzia Schifano dal grande luminare del mondo pop: Andy Warhol.

Pur non estraneo dalle logiche di produzione in serie e dalle influenze dei mass media, Schifano sceglie di non emulare in tutto e per tutto Warhol, ma conserva la volontà di rimanere in primis pittore, abbandonando la scuderia di Leo Castelli, che gli chiedeva di realizzare loghi o paesaggi anemici, troppo riduttivi per il suo istinto artistico. Una figura cardine per capire dunque il paesaggio entro cui si sviluppa questa corrente, dai risvolti davvero significativi per la storia dell’arte.

recensione mostra schifano pop art asolo_La chiave di Sophia

Il percorso prende le mosse dal primo piano del Museo Civico ed è corredato di fotografie storiche, che mostrano gli artisti immersi nel loro tempo. Il visitatore che sale è trasportato in una realtà a più livelli, varia anche nella tipologia di materiali che vengono utilizzati. Un viaggio emozionale che vuole scolpire il movimento Pop a tutto tondo, non tralasciando nulla di quelle che sono le caratteristiche dei protagonisti e della loro arte.

Tutto questo fino al 2 aprile, ad Asolo.

 

Anna Tieppo

 

[Tutte le immagini sono di proprietà dell’autrice]

copertina-abbonamento-2020_nuovo