Un giorno durante un colloquio: i giovani e il futuro

C: Buongiorno
IO: Buongiorno, si accomodi pure nella postazione che preferisce. Ha avuto problemi a trovare l’indirizzo?
C: No, nessun problema, la ringrazio. Con Google Maps ormai si arriva dappertutto.
IO: Molto bene, mi fa piacere – controllo brevemente i dati del curriculum per assicurarmi che corrispondano a quanto scritto – . Mi dica, come mai si candida per questa posizione? Quali aspetti le piacerebbe trovare nel suo futuro lavoro?
Silenzio. Il candidato mi guarda con due occhi che esprimono paura e smarrimento allo stesso tempo; gli occhi di chi non sa quale sia la risposta giusta, gli occhi di chi si chiede a sua volta perché si trovi seduto su quella sedia difronte a me. 

Spesso nel corso del mio lavoro di Recruiter, mi imbatto in giovani che mi trasmettono tali sensazioni, percepisco il concreto disagio di chi, terminati gli studi superiori, si trova a dover fare scelte importanti di vita: cerco un lavoro oppure mi iscrivo all’Università? Se opto per il lavoro, mi proietto nel mio ambito di studi oppure no? In altre parole: Quale è la mia strada?

In questi ultimi anni di profondi rivolgimenti sociali e politici, che hanno contribuito a creare disagio nelle nuove generazioni, sempre di più manca un appiglio, un concreto progetto sociale, umano, che dia ai ragazzi delle prospettive e li faccia sentire meno persi nelle loro scelte. L’approccio che ritrovo nei giovani è spesso rivolto a provare senza troppa convinzione, prima di aver realmente effettuato un’analisi interiore su quali siano le proprie inclinazioni, i propri sogni o progetti. Ciò significa forse che i ragazzi d’oggi – solita ramanzina degli anziani – non sono più in grado di sognare?

In realtà essi sono inseriti in un contesto sociale così iper-connesso e ricco di stimoli (dal cellulare, alla televisione, alle innumerevoli attività che scuola e istituzioni propongono) che lascia davvero poco spazio e tempo al raccoglimento, alla riflessione, all’analisi di sé, elementi essenziali per conoscere il proprio io profondo. A ciò si aggiunge una società che inneggia al cambiamento, quasi che la stabilità sia necessariamente sinonimo di fallimento, di inattività. Tuttavia, ci dimentichiamo che ogni cambiamento per essere assimilato e dare i propri frutti sulla persona, necessita di un periodo di stabilità interiore, durante il quale tutto ciò che l’uomo ha appreso viene colto dentro di sé, cosa che non accade nel cambiamento continuo senza frutto.

Insomma, per dirla con le parole del filosofo Zygmund Baumann, oggi ci troviamo inseriti in una società liquida, vacillante e incerta, dove le relazioni lavorative e personali vanno decomponendosi e ricomponendosi con una rapidità inquietante, lasciando spazio ad un vuoto di senso. In questa società l’uomo si trova a vivere mille realtà, una dietro l’altra, senza che nessuna sia veramente appagante. A ciò si aggiunge l’apparente tangibilità delle prospettive lavorative e personali: in un mondo in cui ogni barriera è venuta meno e anche persone sconosciute riescono a diventare note – è ad esempio il caso degli influencer – tutto sembra facile e raggiungibile senza sforzo. Manca insomma l’idea di una costruzione di sé passo dopo passo, con i necessari fallimenti e soprattutto la pazienza che un lavoro professionale richiede.

A quegli occhi disorientati che vedo quotidianamente passare davanti a me vorrei dunque dire: imparate a guardarvi dentro, a riflettete su voi stessi. Magari la filosofia può aiutarvi in questo: a cercare di costruire concretamente un progetto in cui credere, seguendo le vostre più profonde inclinazioni, senza troppa fretta ma con tenacia e convinzione. Come disse Steve Jobs in uno dei tanti interventi della sua carriera: «Il miglior modo per fare un ottimo lavoro è amare quello che fate 1. Se non lo avete ancora trovato, continuate a cercare» e, aggiungerei, quando lo troverete capirete che è ciò che fa per voi.

 

Anna Tieppo

NOTE
1. Conferenza di Steve Jobs per i neolaureati alla Stanford University del 2005

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Libertà e linguaggio in 1984 di Orwell

Molti di noi conosceranno l’opera di George Orwell 1984: il romanzo distopico che narra un futuro governato dal Grande Fratello, figura totalitaria che controlla e conosce il mondo circostante e i suoi abitanti. In questa realtà gli uomini non hanno facoltà né di agire, né di pensare; ogni idea contraria al Partito, la forma di governo dominante, viene definito “psicoreato” ed è punito con la morte. Persino il linguaggio, fonte inesauribile di varietà e ricchezza, è stato sottoposto a revisione, allo scopo di impoverirlo sempre di più, creandone uno nuovo: la “neolingua”, contrapposto a quello standard “l’archelingua”.

«Si riteneva che, una volta che la neolingua fosse stata adottata in tutto e per tutto e l’archelingua dimenticata, ogni pensiero eretico (vale a dire ogni pensiero che si discostasse dai principi del Socing) sarebbe stato letteralmente impossibile, almeno per quanto riguarda quelle forme speculative che dipendono dalle parole» (G. Orwell, 1984, 2015).

In sostanza il linguaggio, nel futuro 1984 di Orwell, è ridotto all’osso, in quanto se non esistono nemmeno gli strumenti e la capacità di esprimere un’idea contraria al Partito, con il tempo si esaurirà anche la possibilità di pensarla. Interessante, partendo da questa considerazione, come il nostro autore dia una consistente importanza al potere della parola, il cui esercizio stimola la riflessione, aiuta la creazione di opinioni contrarie e di pensieri indipendenti.
Ecco dunque che, in un ipotetico distopico 1984, la conoscenza del linguaggio standard, il suo studio e la sua lettura, possono essere una minaccia per un regime totalitario che non vuole lasciare nulla al prossimo, ma mira a controllare qualsiasi cosa.

Afferma Winston, il protagonista di 1984, nella sezione conclusiva del romanzo:

«In effetti, ciò che distingueva la neolingua da tutte le altre lingue esistenti, era il fatto che ogni anno, anziché ampliarsi, il suo lessico si restringeva. Ogni riduzione era considerata un successo perché, più si riducevano le possibilità di scelta, minori erano le tentazioni di mettersi a pensare» (ibidem).

Anche se il linguaggio sembrerebbe un fattore esteriore nell’esercizio del pensiero, un mezzo più che una sostanza, Orwell ci dimostra che non è così, in quanto la proprietà di parola conduce necessariamente ad allenare la capacità di espressione delle proprie idee e di sostegno delle proprie tesi. Si pensi a questo proposito all’importanza che il linguaggio ricopre nell’antichità romana: Cicerone affermava nel De Oratore che nulla fosse più importante di intrattenere le menti degli uomini con la capacità di parlare, elemento che fu sempre fiorente «in ogni popolazione libera e nelle società pacate e tranquille»1. Ne deriva che il tentativo di ridurre questa capacità attraverso il controllo della lingua, è alla base di un regime dispotico.

A ciò si aggiunge un altro elemento importante, che Orwell mette in luce nelle ultime battute del suo romanzo: cambiare la lingua in un’altra versione più povera implica l’allontanamento del popolo dalla letteratura del passato, in quanto con il passare del tempo i testi risulterebbero sempre più incomprensibili alla maggior parte delle persone.

«Soppiantata una volta e per sempre l’archelingua, anche l’ultimo legame con il passato sarebbe stato reciso. La storia era già stata riscritta, ma qui e là ancora sopravvivevano frammenti della letteratura  trascorsa, e finché si riusciva a conservare la propria conoscenza dell’archelingua era possibile leggerli» (G. Orwell, 1984, 2015).

Ecco dunque che la revisione del linguaggio permetterebbe il controllo di tutta la letteratura e la sua inacessibilità nel futuro. Ciò implicherebbe l’esclusione automatica di tutto il patrimonio culturale e letterario conservato per secoli.

Traendo le conclusioni dalle riflessioni di Orwell si può soltanto ribadire l’estrema necessità e urgenza della lettura, della conservazione della ricchezza del linguaggio e dell’esercizio della parola. Tutto ciò da un lato è necessario per conservare la memoria del passato e stimolare il pensiero, dall’altro per mantenere la possibilità di esprimere opinioni e idee che sostengano le proprie tesi e permettano, qualora lo si voglia, di prevalere verbalmente sull’altro.

 

Anna Tieppo

 

NOTE
1. Cicerone, De Oratore, 1, 30-31: «haec una res in omni libero populo maximeque in pacatis tranquillisque civitatibus».

[immagine tratta da Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Di Villa in Villa: l’esperienza dell’arte tra le dimore venete

Sono più di 3800 le ville monumentali che, patrimonio artistico e culturale veneto, arricchiscono il paesaggio della nostra regione ormai da secoli. Nate come residenza patrizia tra il XV e il XIX secolo, le ville venete sono oggi una riserva indiscussa di arte e storia, che fa da testimonianza al nostro passato recente, ospitando capolavori architettonici e pittorici. Sebbene la maggior parte di esse siano abitazioni private, una buona quantità risulta sotto la tutela statale e diventa oggetto di visite turistiche, così come luogo per eventi quali matrimoni, spettacoli, incontri. In particolare la Riviera del Brenta è una delle zone più ricche di ville venete: dalla famosa Villa Pisani a Stra, alla Malcontenta di Palladio, a Villa Valmarana a Villa Widmann, per citarne solo alcune.

In un pomeriggio soleggiato di Aprile ho avuto occasione di visitare tre di queste, ma quella che più mi ha colpita è stata Villa Valmarana per l’approccio di tour esperienziale che viene offerto al visitatore. Già dall’ingresso Villa Valmarana spalanca i propri cancelli per lasciarti entrare con l’automobile; sembra quasi di essere invitati a casa di un amico che vive in una sontuosa dimora. Raggiunta la porta principale vengo accolta da una distinta signora che mi fa accomodare su alcuni divani in stile: fin da subito comincio a sentirmi parte dell’ambiente stesso. Il racconto sulla storia della Villa, sui numerosi proprietari, sulle diverse vicissitudini mi permette di immergermi in un mondo altro, che mi spalanca le porte alla successiva visita. Comprendo come mai la Villa è oggi come la vedo, quali sono stati i proprietari più facoltosi e come hanno lasciato la loro impronta nell’architettura. Accedendo al salone principale una musica classica accompagna le brevi letture sulla storia del tavolo posto al centro, sui lampadari preziosi di Murano e sullo splendido soffitto affrescato da Tiepolo. Gli stimoli per rendere partecipe e accogliere l’ospite sono molti: un pianoforte nella seconda sala è a disposizione di chi vuole provare a cimentarsi nell’arte della musica, una scacchiera con le pedine già pronte al gioco lascia intendere i passatempi preferiti dei nostri antenati. In poche parole questo connubio di pittura, musica, ma soprattutto di rapporto diretto con l’ambiente e gli oggetti stessi fanno della visita un’esperienza completa, che imprime delle sensazioni indelebili nel pubblico.

Se l’arte vuole vivere è necessario che riesca a coinvolgere lo spettatore, il quale deve superare il divario tra la propria epoca e quella in cui si trova proiettato. Talvolta ci troviamo difronte ad esempi in cui musei, ville e luoghi culturali non riescono a trasmettere il calore necessario e a stimolare l’immaginazione del pubblico. Spesso manca il tentativo di avvicinare davvero le opere e le strutture al pubblico, quasi la conoscenza debba rimanere elitaria, oppure condivisa con pochi eletti. L’arte, al contrario, necessita di essere libera e di suscitare emozioni diverse in chiunque si avvicini ad essa. Come affermava Oscar Wilde in uno dei suoi Aforismi «esistono due modi per non apprezzare l’arte: il primo consiste nel non apprezzarla, il secondo nell’apprezzarla con razionalità»1 ad indicare la necessità di vivere l’arte attraverso sensazioni, più che di approcciarla con la ragione. Ecco dunque che, a distanza di due settimane dalla mia gita fuori porta, se ripenso alle tre ville che ho visitato, non c’è paragone tra quanto mi sia rimasto impresso nella memoria di Villa Valmarana rispetto alle altre due.

In un mondo come quello contemporaneo, dove l’arte è sempre più sentita come distante, dove facciamo fatica ad immergerci nei “panni degli altri”, che siano amici e conoscenti o semplicemente i nostri antenati del XV – XIX secolo, è necessario cercare di avvicinare quello che vediamo a noi, attraverso uno sforzo in primis delle autorità e degli operatori, che sono coloro che hanno il prezioso compito di conservare il grande patrimonio artistico italiano.

 

Anna Tieppo

 

NOTE
1. O.Wilde, Aforismi, Milano, Feltrinelli, 2008, p.45

 

[Photo credit Villa Valmarana]

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Quel quotidiano, “feriale” sentimento: l’amore in Wislawa Szymborska

Era il 1996, Wislawa Szymborska riceveva il premio Nobel per la letteratura, con stupore e sgomento di molti che si chiedevano chi fosse la poetessa polacca dal nome così difficile. Nata a Kòrnik nel 1923 trascorse la maggior parte della propria vita a Cracovia, dove studiò e mise radici fino alla morte(2012). Oggi, dopo più di vent’anni, la Szymborska è amata in molte nazioni, compresa l’Italia, tanto che i suoi versi sono riusciti a raggiungere anche parte della popolazione comune, viaggiando attraverso un decennio di fama sempre crescente. Disillusione, esperienza bellica, critica sociale e non ultimo l’amore sono i temi prediletti dalla Szymborska1, la quale con sguardo ironico e umoristico descrive sentimenti e scene di vita quotidiana, molto vicine al lettore, il quale facilmente riesce ad identificarsi nei protagonisti dei suoi componimenti.

Il tema dell’amore, in particolare, ricopre un ruolo fondamentale nella poesia dell’autrice, specialmente l’amore vissuto nella sua quotidianità, tendente alla vita di tutti i giorni e non al sublime. Alcuni versi di Amore a prima vista dell’omonima raccolta recitano:

«Sono entrambi convinti/che un sentimento improvviso li unì. È bella una tale certezza/ma l’incertezza è più bella […] Ma che ne pensano le strade, le scale, i corridoi/dove da tempo potevano incrociarsi?» (W. Szymborska, Amore a prima vista, 2017).

L’amore è un sentimento comune, quasi tangibile, tanto che l’ambientazione richiama aspetti urbani e casalinghi come strade, scale, corridoi, senza riferimenti a un panorama rarefatto, dalle caratteristiche trascendenti. È come se la Szymborska volesse narrare l’amore nella sua verità giornaliera, quell’amore che vive nelle case di ognuno di noi ed è fatto di condivisione, passione, ma anche di litigi, scontri e difficoltà. Non c’è pretesa di vedere tutto dall’alto, ma l’autrice si mescola tra la folla e osserva in maniera diretta e semplice ciò che caratterizza le nostre vite.

In La musa in Collera afferma infatti:«[…] taccio solo per timore/che il mio canto in futuro/mi dia dolore/ che verrà giorno e d’un tratto/smentirà le parole/[…] se ne andrà l’amore/ e sarà inafferrabile/come l’ombra di un  ramo» (ibidem), come se l’autrice stessa, parte degli uomini, fosse consapevole della possibilità che l’amore finisca e per questo motivo preferisce “tacere”, non parlare di quel sentimento intenso che la caratterizza.

È proprio questa peculiarità, questo suo “camminare tra gli esseri umani” che rende la Szymborska ancora più interessante al lettore, il quale facilmente si identifica nelle scenette descritte e riflette su di sé e sul proprio vivere.

L’intento della poetessa, dallo sguardo a dir poco pungente, è sicuramente quello di sfatare i miti comuni e la narrazione degli altri scrittori sul tema dell’amore: dalla mitizzazione del sentimento alla necessità, che caratterizza molta narrativa, di mostrare l’intenso dolore dopo la perdita. L’amore è qualcosa di più immediato, più semplice, che non richiede né la sublimazione, né lo strazio di certe descrizioni, eccessivamente caricate.

«Guardate i due felici/se almeno dissimulassero un po’/ si fingessero depressi, confortando così gli amici! Sentite come ridono – è un insulto […] è difficile immaginare dove si finirebbe se il loro esempio fosse imitabile. Su cosa potrebbero contare religioni, poesie […]?» (ibidem).

In altre parole esiste una grande costruzione di aspettative, invidia, finzione che sottende a tutto quello che riguarda l’amore, quando invece può essere riassunto con dei semplici gesti quotidiani, quali il ridere assieme con complicità, che noi tutti conosciamo o abbiamo provato almeno una volta.

L’amore è in fondo quell’ “appropriarsi ed espropriarsi” così a lungo, nella nostra vita giornaliera, che porta ad intuire «l’espressione dei loro occhi dal tipo di silenzio, al buio» (ibidem), ma è allo stesso tempo quel «rimanere talmente soli per tanto disamore» (ibidem) che rende gelido tutto ciò che ci circonda, riducendo per un attimo i due amanti al riflesso di due sedie, accanto ad un freddo tavolino.

Niente più e niente meno di questo, insomma, ma non per questo di minor importanza o centralità nelle nostre vite. Forse, è proprio qui che si nota la maestria dell’autrice e quanto possiamo trarre dalla sua poesia: in quanto il suo “abbassare” l’amore ad oggetto quotidiano, tanto da farlo vivere assieme ad elementi urbani o casalinghi, non ne svuota il significato, anzi lo rende ancor più ricco e colmo di valore.

 

Anna Tieppo

NOTE
1. Cfr. Marchesani in W. Szymborska, La gioia di scrivere, Milano, Adelphi, 2009, pp. XXVII – XLII.

 

[immagine tratta da Unsplash]

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La corporeità delle parole: la mostra-tributo ad Andrea Zanzotto

A cento anni dalla nascita, Pieve di Soligo (TV) celebra il famoso poeta Andrea Zanzotto attraverso una mostra di 60 artisti, interpreti di quella commistione tra parola e immagine che fu cara al nostro autore. Situata presso Villa Brandolini e suddivisa in due sezioni, la mostra ospita infatti opere di “poesia visiva” ovvero di quella tendenza artistica, se così si può definire, volta allo sperimentalismo linguistico, che nasce nel clima della Neoavanguardia, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento.

Camminando tra le sale del piano nobile della villa, il visitatore si immerge tra le parole che si stagliano nelle tele degli artisti, attraverso giochi di colori e di forme che ne risaltano la corporeità. Viene così a crearsi una fusione tra parola e immagine, dove l’una non può vivere senza l’altra e viceversa. Ne sono un significativo esempio le quattro opere di Eugenio Miccini (1925-2007) che uniscono versi di Eraclito con la rappresentazione pittorica degli stessi. In particolare l’opera che riporta la famosa citazione eraclitea “panta rei” :“tutto scorre” di fatto rappresenta l’idea del passaggio del tempo attraverso l’immagine di onde blu marine, che avvalorano quanto scritto a parole. Una poesia che si fa dunque corporea, accentuando la propria “visività”, quasi a voler uscire dal tradizionale supporto cartaceo, per essere percepita e compresa da chiunque.

Tale sensazione emerge, in particolare, nelle opere di Malek Pansera (1940 – 2008) nelle quali è evidente come la singola lettera o il singolo verso hanno bisogno di mostrare la propria tridimensionalità, mettendosi in risalto come in un bassorilievo, per imprimersi nella mente del lettore.

Esempi di questa tipologia ci riportano facilmente al retroscena della poesia zanzottiana, dove la lingua ricopre un ruolo essenziale e diventa essa stessa “corporea”, grazie alla presenza di versi bianchi, di disegni nei testi, di accostamenti arditi tra termini tecnici ed eruditi, più in generale di uno sperimentalismo linguistico che la caratterizza. L’intento è quello di ricordare la difficoltà di espressione nel mondo presente, lo squilibrio che popola un’era come quella attuale, predominata da ossessioni e contraddizioni quali il consumismo, il disastro ecologico, la psicosi umana. Ecco dunque che, secondo Zanzotto, è necessario esprimersi arrivando al nucleo della parola: al morfema o al fonema, che viene svuotato del suo significato consueto, ma si staglia così sulla pagina, come puro suono. La realtà è ormai indicibile, condannabile in molti suoi aspetti, e la lingua non può far altro che mostrare queste dissonanze.

Da ciò nasce un legame anticonvenzionale tra aspetto linguistico e testo poetico, più in generale tra testo e supporto cartaceo, che facilmente si può ritrovare anche nelle opere degli artisti in mostra. In particolare l’intera opera di Claudia Buttignol (1945 – oggi) si ispira ai colori che più popolano le raccolte zanzottiane: a quel rosso delle rose canine o dei papaveri che troviamo spesso nei componimenti del poeta. In Spine, cinorrodi, fibule (Poesie e Prose scelte) il poeta descrive il predominante colore rosso delle rose, forse arrabbiate per il destino ecologico infausto:

Dove mai si pote’ vedere
un getto di feroce rossezza
su un arbusto di spine
rose canine rose canine
incongruo nome, anzi stupendo
di un farneticare di rosso-arrabbiate entita’ […][1]

Rosso che diventa il primo colore delle tele dell’artista, un rosso totalizzante che può essere forse simbolo di ferocia, di rabbia, così come di morte.

Ecco dunque che i versi di Zanzotto sono fonte di ispirazione per un’opera fatta di colore e di immagine, dove la tela vive di sfumature colorate. Insomma una mostra – tributo ad un grande poeta, che qualcuno definì la voce più significativa dei giorni nostri dopo Montale, a cui la letteratura contemporanea è per molti aspetti debitrice.

 

Anna Tieppo

 

NOTE
1. A. Zanzotto, Spine. Cinorridi. Fibule, tratto da Prose e Poesie Scelte, 1999.

[Immagine di proprietà dell’autrice]

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Quando l’impresa si fa donna

«Essere donna è così affascinante, è un’avventura che richiede coraggio, una sfida che non annoia mai» affermava Oriana Fallaci, tra le giornaliste più anticonvenzionali e femministe del secolo scorso. In particolare, della sua nota citazione, emergono due parole significative “coraggio” e “sfida” che rimandano al campo semantico dell’attività, contrariamente a quella “passività” che culturalmente viene attribuita alle donne in quanto “curatrici delle mura domestiche”, “addette alla crescita dei figli” ecc… Ma perché la sua citazione è ancora oggi, nel 2021, così attuale?

Recentemente ho letto un libro dal titolo Le donne che fecero l’impresa, una raccolta di testimonianze di donne – imprenditrici venete che, attraverso diverse difficoltà, si sono fatte carico di attività famigliari, oppure hanno dedicato la loro vita a dirigere aziende di un certo calibro nei più disparati settori commerciali. Si tratta di figure che, nella loro quotidianità, sono riuscite a creare un equilibrio tra famiglia e lavoro, senza rinunciare per questo alla loro sensibilità di madri e alle loro ambizioni professionali.

Esse hanno infatti evidenziato una forte identità e una grande vocazione verso la carriera imprenditoriale.

Oggi si parla molto spesso di parità di genere, di creazione di piani di agevolazione per donne-madri, talvolta però dimenticando che il primo scoglio contro cui ci si imbatte è quello mentale più che fisico.

Ciò che ancora manca, nonostante diversi passi avanti degli ultimi decenni, è accettare che ogni individuo è unico e indipendentemente dal genere, può essere più o meno incline a ricoprire ruoli di leadership. 

Leggendo la storia di Edy Della Vecchia, imprenditrice di Vicenza, sono rimasta colpita da alcune sue affermazioni, nelle quali ricordava come la sua inclinazione caratteriale era molto simile a quella del padre “un uomo estroso con il pallino degli affari”, diversa da quella della madre introversa e pessimista. Tale aspetto significativo l’ha spinta a seguirlo nelle sue attività commerciali fin da piccola, formandola verso quel mondo dell’imprenditoria che poi diventerà il suo. La sua storia fa proprio riflettere sulla necessità di superare quelle barriere mentali e spirituali, che “etichettano” l’individuo secondo delle forme convenzionali, non tenendo conto delle sue inclinazioni.

Analogamente la vicenda di Sabrina Carraro, il cui carattere “tosto e risoluto” viene riconosciuto dallo zio Ivo, fin dalla sua giovane età, la rende la figura adatta a mandare avanti l’azienda dei trenini Dotto, affrontando il difficile passaggio generazionale che la caratterizza. La sua particolare personalità da imprenditrice è evidente fin da subito ed è ciò che le permette di andare avanti tra le difficoltà.

Infine Chiara Rossetto, produttrice di farine, è l’esempio della donna tenace, che nonostante i numerosi rifiuti utilizza l’inventiva per offrire qualcosa di più al cliente finale, mettendosi nei panni delle donne che acquistano il suo prodotto. La sua sensibilità la spinge a pensare alle necessità delle clienti, le quali ricercano anche ricette con cui poter utilizzare le farine, non solo una materia prima da comprare. Con questa convinzione si iscrive a corsi di cucina, partecipa a fiere e più in generale immagina in grande il futuro della propria azienda.

Questi esempi ci lasciano alcuni importanti insegnamenti sulla prospettiva che dovremmo assumere per il futuro. La vera sfida, per ritornare alla citazione della Fallaci, non è soltanto riuscire ad avere delle condizioni favorevoli per agevolare le donne al lavoro, ma pensare che non sia qualcosa di “insolito” vedere una donna alla guida di un’azienda, così come non avere pregiudizi in tale ambito. Il coraggio consiste proprio nello sfatare antichi clichès che, incancreniti nei secoli, devono essere grattati via come ruggine. Da lì si può partire poi a ragionare sulle necessità effettive di donne e uomini e sulle concrete condizioni per favorire questa parità.

 

Anna Tieppo

 

[immagine tratta da Unslash]

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Viaggiando tra i sogni interiori: Myricae di Pascoli

Il sogno e la dimensione onirica sono, come afferma in un suo saggio Fernando Bandini1, elementi portanti della poesia pascoliana, spesso caratterizzata da atmosfere decadenti e rarefatte, che hanno il sapore “dell’altrove”Leggendo, infatti, i componimenti della raccolta Myricae (1891), capita di trovarsi all’interno di paesaggi misteriosi, perlopiù notturni, dove i sensi colgono elementi indefiniti, lontani, appartenenti ad una dimensione altra. Si tratta di percezioni perlopiù uditive o visive, che contribuiscono a creare un’atmosfera carica di elementi simbolici.

Ciò si può notare in L’assiuolo, dove l’io poetico afferma: «Le stelle lucevano rare/tra mezzo alla nebbia di latte:/sentivo il cullare del mare,/sentivo un fru fru tra le fratte;/sentivo nel cuore un sussulto/,com’eco d’un grido che fu/sonava lontano il singulto:/chiù…» (9-16). Il paesaggio riflette una realtà indistinta, dove il canto dell’assiuolo si confonde tra la vegetazione, così come la sua immagine; non è chiaro quanto ci sia di vero in ciò che il poeta percepisce: parte di ciò che sente potrebbe essere immaginato, o meglio sognato. La scelta di ambientare il componimento tra le tenebre della notte contribuisce infatti ad ampliare la sensazione di mistero che pervade l’intera scena.
Analogamente, nel componimento Sogno, Pascoli immagina di essere ritornato nel suo villaggio, nella sua casa e vede che «nulla era mutato» e «ai morti ero tornato». In qualche modo, dunque, l’aspetto del sogno, secondo il poeta, ci mette in contatto con un mondo sospeso, in parte interiore, dove riscopriamo legami antichi, che dentro di noi sono rimasti intatti.

Il sogno, sotto altri aspetti, diventa una porta di accesso che ci permette di viaggiare, forse addirittura nell’aldilà, dove possiamo ritrovare i nostri cari defunti. Sotto questo punto di vista, esso costituisce una sorta di medium, si carica di un ruolo fondamentale nella vita dell’individuo: quello di collegamento tra due mondi da sempre separati. Pascoli realizza dunque una rivalutazione del sogno, agli albori delle teorie psicanalitiche di Freud, che di lì a poco affronteranno le tematiche dell’inconscio.

Ciò non deve far pensare, tuttavia, che il ruolo cruciale attribuito al sogno elevi quest’ultimo ad una situazione di privilegio nell’immaginario pascoliano; esso, al contrario, è perlopiù un sogno di angoscia, di dolore, che viene rievocato da suoni o da visioni lugubri, come dal «pianto di morte» dell’assiuolo. Sembra quasi che l’io poetico tema questi incontri, come se il viaggio dentro di sé, attraverso l’onirico, desti paura, destabilizzazione.
In Paese Notturno, ad esempio, l’oscurità della notte suscita l’immaginazione del poeta, che non distingue le capanne attorno e si chiede se siano un «tempio dell’antico Anubi». La campagna circostante si veste di ombre che l’io non riesce a comprendere e perciò prova una certa paura, di fronte a qualcosa che è apparentemente sconosciuto. È come se il soggetto si fosse immerso in un mondo altro, interiore, dove esistono lati non noti nemmeno a sé e tutto ciò gli suscita timore. Si percepisce inevitabilmente, in questi componimenti, l’influenza freudiana, nello spazio che il poeta lascia all’espressione dei propri sentimenti, in questo caso costruttori dell’esterno, partendo dall’interno.

In definitiva, ciò che emerge dai componimenti della raccolta Myricae ci riporta ad una visione del sogno quale elemento centrale della nostra quotidianità: porta di accesso verso altri mondi o verso noi stessi, al contempo espressione profonda delle nostre paure e della nostra interiorità. In questo senso Pascoli ci ricorda che è importante ascoltarsi, anche nei momenti in cui sogniamo, perché tutto fa parte di noi, e la realtà non è altro che l’espressione di quello che siamo, anche quando non siamo coscienti.

 

Anna Tieppo

NOTE
1. Cfr. F. Bandini, Sogno e visione onirica nella poesia di Giovanni Pascoli, in V. Branca, C. Ossola, S. Resnik, I linguaggi del sogno, Sansoni Editore, Firenze, 1984.

 

[immagine tratta da pixabay]

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Un mondo di Perfetti Sconosciuti: la solitudine del contemporaneo

Quanto conosciamo l’altro? Siamo davvero convinti di sapere tutto sul nostro partner e sui nostri amici più intimi?
Perfetti sconosciuti, film del 2016 diretto da Paolo Genovese, rivela ciò che troveremmo se, durante una cena, tutti mostrassero il contenuto del proprio cellulare, abbattendo le barriere della privacy e condividendo davvero la propria vita. Ne emergerebbe che nessuno è realmente candido nella coscienza, chi per tradimenti, chi per paura di essere giudicato, altri per mancata condivisione delle proprie idee, insomma ognuno mostrerebbe la verità su di sé: la presenza di piccoli o grandi segreti, che nemmeno chi gli è più vicino conosce.

Una sorta di dramma esistenziale, dunque, nel quale lo spettatore facilmente riesce ad identificarsi, guardando sotto la luce della verità la sua vita quotidiana, l’ipocrisia che spesso lo circonda e di cui lui stesso si riveste per apparire in un certo modo difronte al prossimo.

«Siamo tutti frangibili» dirà Rocco, forse il più saggio del gruppo, alla fine del film, mostrando la fragilità dell’individuo attuale, che ha affidato la propria vita alla sim di un cellulare, pensando in questo modo di essere protetto da qualsiasi sguardo indiscreto. Ma in fondo nessuno è forte come crede, in quanto condivide davvero poco con i propri amici o il proprio partner e preferisce comunicare attraverso un dispositivo tecnologico piuttosto di vivere a fondo le relazioni. «Allora se ci parli trenta minuti al giorno sei innamorato» afferma Bianca con ingenuità, rivelando come ormai le nostre conversazioni vere sono ridotte davvero a poca cosa, in mezzo agli impegni giornalieri, tanto che trenta minuti di confronto sarebbero addirittura lo specchio dell’amore.

In Perfetti sconosciuti Paolo Genovese mette insomma in scena il dramma dell’individuo contemporaneo, occupato più ad apparire che ad essere, convinto il più delle volte di non aver nulla da nascondere, per poi scoprire di essere drammaticamente solo e attorniato da “perfetti sconosciuti”.

Si tratta di un’umanità disumana, magistralmente espressa in maniera caricaturale nel film, che lascia l’amaro in bocca a chi, finita la pellicola, non può che guardare con compassionevole partecipazione i sette protagonisti dell’opera.
Siamo dunque destinati a rimanere in questo mondo di inconoscibilità e falsità?

Sotto alcuni aspetti si, come si può intuire dalla conclusione del film, che riporta ognuno dentro alla torre d’avorio dell’io, ignaro della propria solitudine e di quella che lo circonda. Tuttavia, uno spiraglio di luce lo fornisce sempre Rocco, quando, parlando con dolcezza alla moglie, mostra la remota possibilità di un dialogo vero, pregno di umanità.

«Non credo che sia debole chi è disposto a cedere, anzi, è pure saggio. Le uniche coppie che vedo durare sono quelle dove uno dei due, non importa chi, riesce a fare un passo indietro.»

In poche parole, forse dovremmo cercare di ascoltare con umiltà, di condividere e aggiustare finché è possibile, di accettare quando non lo è più, perché questa è la chiave per vivere in modo autentico la nostra relazione.

In fondo l’invito di Perfetti sconosciuti attraverso la voce di Rocco, un Marco Giallini che guarda con pragmatismo alla propria vita, è di essere il più possibile sinceri, perché costruire dei muri che poi diventano voragini non può che allontanare e spingere verso un mondo di isolamento.

Accogliamo dunque l’altro, cercando di ascoltare davvero le esigenze di chi ci sta attorno.

 

Anna Tieppo

 

[Immagine fermo immagine dal film di Paolo Genovese Perfetti sconosciuti]

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Tra ruolo sociale e intima volontà: il personaggio di Anne Elliot in Persuasione (2007)

Tratto dall’omonimo romanzo di Jane Austen, il film Persuasione (2007), diretto da Adrian Shergold, narra la vicenda di Anne Elliot, giovane figlia di Sir Walter Elliot, baronetto di Bath che ha dilapidato tutte le sue proprietà godendo di una vita troppo dispendiosa. Anne, costretta a lasciare la sua casa, rincontra per una serie di coincidenze un suo vecchio fidanzato, il capitano Wentworth, con cui non è giunta a nozze a causa dell’intromissione della sua famiglia. Otto anni prima, infatti, Anne non ha potuto adempiere al proprio desiderio di sposarsi per amore, perché il padre e la madrina, Lady Russel, non approvavano i natali del giovane. Di fatto l’intera vicenda ruota attorno alla figura della protagonista che, incapace di farsi valere, si lascia sfuggire un’occasione unica per i propri sentimenti, che la condanna a otto anni di pene d’amore. Con il tempo, tuttavia, Anne imparerà ad ascoltare di più il proprio cuore, ad essere risoluta e decisa in quello in cui crede.

Da questo punto di vista Anne diventa un po’ l’emblema della donna che lotta per non essere sottomessa, che, con la maturità, impara a non attenersi alle regole della convenienza sociale ottocentesca, che svalutano il valore femminile. Dolce e buona nei modi, incapace di far soffrire chi le sta attorno, solo alla fine della rappresentazione riesce a rifuggire le convenzioni e le etichette che impongono certi atteggiamenti ad una ragazza di alto lignaggio. Anne diventa così l’eroina di tutte, di coloro che desiderano affermarsi a discapito di un ambiente che le vuole incasellate in certe attività e dedicate alla cura del “focolare”. Vittima lei stessa del mondo in cui è cresciuta, il suo personaggio ci fa riflettere a fondo sulla necessità di non uniformarsi alla strada già segnata, prevista da altri, di seguire la propria intima volontà, anche quando chi è attorno a noi ripete incessante gli schemi precostituiti da generazioni. Come afferma infatti Jane Austen nel suo romanzo:

«Anne, con la sua raffinata intelligenza e la sua dolcezza, virtù che avrebbero dovuto collocarla molto in alto nella stima di chiunque fosse dotato di giudizio, non era nessuno né per il padre né per la sorella. La sua parola non aveva alcun valore, le sue esigenze erano sempre considerate poco importanti; era soltanto Anne»1..

Il suo temperamento remissivo, così come la sua condizione di donna, la portano a non essere tenuta in considerazione, a discapito della sua intelligenza e del suo buon cuore. L’eccessiva buona condotta, così come la dedizione assoluta all’altro, possono nuocere all’individuo, sembrano voler dire il nostro regista e la nostra scrittrice; è auspicabile aiutare la propria famiglia, essere devoti, ma la fermezza di carattere è necessaria per affermare l’io, in definitiva per crescere ed emanciparsi e creare una propria vita.

Se riflettiamo, anche ognuno di noi è in parte vittima di consuetudini che non riesce a soprassedere: dall’immagine banale, ma ancora viva oggi, di una donna che deve comunque interamente occuparsi delle faccende di casa, pur lavorando le stesse ore del partner, a quella di un uomo a cui è richiesta una gran carriera per sentirsi realizzato, alla necessità di coprire dei ruoli ben definiti, a seconda dell’ambiente da cui il singolo deriva.

Ancora oggi, sebbene con evidenti passi avanti rispetto ai secoli scorsi, permane comunque l’idea di una libertà condizionata per quanto concerne il ruolo che abbiamo all’interno di una famiglia, della società, del mondo. Tale ruolo, forse necessario per una definizione dell’io, non dovrebbe suscitare giudizi di valore sul singolo, o non essere così ricco di incrostazioni antiche, da cui l’individuo sente di non potersi in nessun modo liberare. Diamo spazio ai sentimenti e alla libertà di pensiero, dunque, perché ognuno ha il diritto di affermare la propria intima volontà.

 

Anna Tieppo

 

 

NOTE
1. tratto dall’omonimo romanzo di Jane Austen

 

[fermo immagine tratto dal film]

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Dalla letteratura alla filosofia: intervista a Adone Brandalise

Cultura,  letteratura e filosofia, tre parole che in un periodo di pandemia, come quello che stiamo vivendo, si fanno spazio con difficoltà tra le molte esigenze quotidiane. La necessità umana di riflessione sul reale, ci spinge tuttavia ad interrogarci su questo momento storico e a chiederci che valore possano avere queste entità, quale sia il legame tra filosofia e letteratura e quale compito spetti all’intellettuale nel mondo odierno.

Ne abbiamo parlato con Adone Brandalise, filosofo, studioso e professore di Teoria della Letteratura presso l’Università degli Studi di Padova, che ha gentilmente ed esaustivamente risposto ad alcune nostre domande, abbandonando le etichette e i pregiudizi che spesso abbiamo quando si parla di questi temi. Oggi più che mai c’è bisogno di libertà, afferma il prof. Brandalise, e forse proprio la Cultura, in particolare la Poesia, ci permettono di sognare e attraverso l’immaginazione di avvicinarci a questa esigenza.

L’intervista al professor Brandalise prosegue nel numero 14 della rivista cartacea La Chiave di Sophia (in uscita a fine febbraio 2021), con alcune considerazioni e riflessioni riguardanti il tema della complessità. Buona lettura!

 

Quale ruolo può avere la letteratura oggi, in un mondo in cui il linguaggio prediletto è quello tecnico-scientifico e non quello evocativo, che crea sensazioni o emozioni diverse e permette di connettere realtà e mondi possibili? Quale ruolo può avere invece il poeta, o più in generale l’uomo di cultura?

Credo non convenga cedere senza riserve alla suggestione di uno schema anche eccessivamente collaudato che vede opporsi irrimediabilmente l’orizzonte del linguaggio poeticamente ricco con quello disincantato ed anaffettivo della scienza. Ai livelli più elevati e quindi necessari dell’esperienza culturale le diverse forme della creatività intellettuale si mostrano, al di là dei diversi apparati in cui si fissa la loro dimensione istituzionale, assai più affini e interagenti di quanto le ideologie, scientiste come umanistiche, propendono ad affermare.

Esiste una classe di pratiche del pensiero che esercitano, per così dire, radialmente la loro utilità, proprio perché non deterministicamente votate a servire a uno scopo prefissato, ma per questo capaci di produrre concretissimi effetti complessivi.

Viene quindi da chiedersi se i processi che stanno così rapidamente ridefinendo la fisionomia di un mondo che si è tentati di ritenere tendenzialmente post-umano, non siano destinati a decidere la complessiva qualità dei loro esiti proprio in ragione della rilevanza che sarà accordata a questa modalità, più spregiudicata e flessibile, della pratica intellettuale.

 

Secondo lei la filosofia cosa è? Cosa significa “fare filosofia”?

Non mi avventuro a proporre definizioni, ma solo provo a evidenziare quanto mi suggerisce il contatto con ciò che avverto come filosofia e che mi si presenta come una disposizione del pensiero e del linguaggio non ostile al prodursi della verità come evento, in cui il sapere si mostra animato da un movimento che lo sospinge ma anche lo supera. Ciò appare quando il pensiero e le parole del filosofo non si riducono alla registrazione di un’opinione o alla compiuta architettura di una esposizione dottrinale, perché in essi si apre un effettivo presente in cui il confronto con il reale va oltre l’istanza conoscitiva che vorrebbe fissarlo in una rappresentazione della “realtà”. La filosofia quindi come pratica del pensiero che non rinuncia a perseguire quanto gli esiti del suo procedere gli indicano come sviluppo necessario in omaggio a limiti che ne caratterizzino un presunto oggetto, dato come un presupposto e come fonte di una legalità disciplinare. Ciò che, a mio avviso, la rende utilmente capace di dialogare con i diversi saperi quando questi, con un moto che è di per sé stesso filosofico, mettono in questione il rapporto tra i propri fondamenti e le proprie prassi.

 

Non sempre ci ricordiamo che la filosofia non si misura in termini di scrittura soltanto con il saggio; la filosofia può essere epistolare (pensiamo per esempio a Seneca) o teatrale (ricordiamo tra gli altri Camus) ed essere veicolata anche tramite il romanzo (tra gli altri citerei Sartre). Lei,professor Brandalise, ritiene che ci siano autori della letteratura che possano essere considerati, per la loro visione di mondo e il modo di tradurla, dei filosofi?

Se ben ricordo Mallarmé sosteneva che là dove vi era sforzo stilistico vi era versification, ovvero linguaggio poetico. Anche limitandoci allo scenario della modernità possiamo riconoscere che quello stesso pensiero che rende tale la filosofia si può manifestare al di fuori di quanto corrisponde ad una identificazione tecnico-disciplinare di questa. In tal modo esso per un verso si può sviluppare secondo sue forme dotate di una propria logica e d’altro lato e contemporaneamente interrogare la filosofia ed esserne interrogato.

Proprio per questo sono soprattutto autori che non si riducono a decorare artisticamente precostituiti contenuti “filosofici”, ma che implicano per propria intima necessità effetti di pensiero nelle loro elaborazioni che divengono luoghi rilevanti e a volte inaggirabili per la filosofia. E ciò riguarda  la poesia, la narrativa ma anche il cinema ( penso a questo proposito alla riflessione deleuziana) o le arti visive e performative.

 

In base alle recenti misure governative nell’ambito del contenimento della pandemia, le librerie sono tra gli esercizi rimasti aperti anche all’interno delle cosiddette “zone rosse” in un’ottica in cui il libro viene considerato un bene essenziale. Professor Brandalise, come giudica questa decisione? In che modo ritiene che la letteratura possa essere un valido aiuto in un periodo così difficile come quello di una pandemia globale, quale quella che stiamo vivendo?

Si sarebbe tentati di applaudire senza riserve. Eppure considerando, per dire così, con una formula assai semplificatrice, il posto che la complessiva organizzazione sociale, quello che  un tempo si poteva chiamare – supponendo ottimisticamente con ciò di avvicinarsi ad una comprensione “forte” delle cose – il “sistema”, tende a destinare a quanto di vitale si apre nella pratica della lettura, si potrebbe sospettare di trovarci di fronte ad una sorta di flebile risarcimento simbolico, a uno di quegli omaggi che “il vizio rende alla virtù”, come proponeva La Rochefoucauld, così definendo l’ipocrisia. 

Comunque la letteratura – e il suo cuore poetico in particolare – possono rendere percepibile l’intreccio di tempi che si concentra nel nostro presente, e così avvicinarci ad una libertà paradossalmente non immaginaria proprio perché affidata alla “materia di cui sono fatti i sogni”, se, come non  smettono di suggerirci antiche filiere simboliche, sognare “sapientemente” è il vero modo di essere desti, così da poter guardare ai nostri incubi senza sottostare al loro fascino.

 

Anna Tieppo

 

[Photo credit adonebrandalise.it]

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