A colazione con Marx

Se vi fosse la possibilità di invitare per colazione uno solo tra i pensatori più importanti vissuti nell’Ottocento credo che sceglierei la compagnia di Karl Marx. Magari, visto la dirompente personalità, gli offrirei del caffè decaffeinato o del tè deteinato con dei biscotti rigorosamente fatti in casa. Lui arriverebbe con entrambe le braccia cariche di libri, chiedendomi subito di aggiornarlo sulla classe operaia e io, trattenendomi dal raccontargli a valanga una miriade di cose, gli direi affettuosamente di prendere posto in cucina. 

«Buongiorno dott. Marx, grazie di essere qui!»
«Buongiorno! A dire il vero ho parecchio da fare, ma una pausa dai miei studi mi farà senz’altro bene!» mi risponderebbe Marx, indicandosi con una buffa smorfia barba e capelli.

Dovete sapere, infatti, che Marx fu una persona animata da una profondissima passione per il cambiamento della società. Ricercava e studiava perché voleva assolutamente trovare il modo di dimostrare scientificamente lo sfruttamento dei lavoratori. È come se qualcuno o qualcuna oggi decidesse di impegnarsi a studiare, per proprio conto, tutto l’umanamente possibile allo scopo – ai più, forse un po’ bizzarro – di formulare dei validi argomenti a favore di una società migliore. Il ché fa di Marx una persona che tutti e tutte dovremmo voler ben conoscere. 

«Dott. Marx, il mondo di oggi è molto cambiato ma, in effetti, non ha proprio più smesso di produrre merci! Le va, allora, se parliamo un po’ di alienazione?»
«Certamente!» mi avrebbe risposto subito lui.

Marx aveva a cuore l’auto-realizzazione delle persone. Non riusciva ad accettare che si potesse vendere il proprio impegno per qualcosa come il lavoro nelle fabbriche che non era una attività né libera né creativa. Coloro che vi erano occupati dovevano adattarsi a una pesante realtà produttiva nei confronti della quale non avevano pressoché alcuna voce in capitolo. Oggi – sebbene le condizioni di lavoro, in molti settori, siano migliorate anche per la nostra attenzione alla salute e alla sicurezza – resta a noi spesso preclusa la possibilità di ampliare il senso di questa sua osservazione critica. Noi infatti, generalmente, abbracciamo l’idea dell’auto-realizzazione professionale e in questa coincidenza tra noi e il nostro lavoro, perdiamo la possibilità di valutare con distacco quello che facciamo. Coltivare la nostra persona è invece fondamentale per migliorare la nostra capacità di analisi e di giudizio.

«Dott. Marx, ne ha davvero passate tante… È stato costretto a rifugiarsi a Parigi, a Bruxelles e poi a Londra per le sue idee rivoluzionarie. Cosa la affascinava così tanto del “comunismo”?»
«Bè, allora, una precisazione! Secondo la mia analisi il comunismo sarebbe sorto dalle stesse contraddizioni del capitalismo! Nessuna utopia!>> avrebbe cercato di chiarire Marx.

In fondo, Marx nutriva il sogno di una umanità migliore. L’antagonista principale della sua battaglia era il capitalismo perché, ai suoi occhi, la struttura economica era il bersaglio prioritario del cambiamento. Per il filosofo rivoluzionario intervenire su questa struttura voleva dire cambiare anche la personalità degli esseri umani. Per Marx, infatti, l’organizzazione del lavoro capitalistico le disumanizzava poiché impediva loro l’espressione di un’attività di lavoro libera e completa. Inoltre, egli considerava ingiusto il capitalismo perché accumulava profitto a vantaggio dei soli capitalisti. Profitto che si configurava come l’eccedenza di un valore-lavoro che non veniva corrisposto a chi effettivamente lavorava. Se il salario doveva corrispondere a quanto serviva per la sussistenza dei lavoratori, il sovrappiù che si ricavava dall’organizzazione di produzione capitalistica come e a chi doveva essere distribuito? Questa era la domanda a cui Marx cercava di rispondere. Oggi, per noi, le retribuzioni sono il frutto di una contrattazione collettiva e sono giuste non tanto perché devono pareggiare la nostra sussistenza ma perché accordate tra le parti sociali. Ci resta il proposito di una retribuzione che consenta una vita dignitosa, ma demandando alla rappresentazione sindacale il compito della negoziazione, per noi è giusto ciò che risulta da un conflitto di forze, deboli o forti che siano. In questo, perdiamo il senso di una riflessione sulla comprensione di cosa sia giusto e cosa no e, di conseguenza, la sostanza e la responsabilità delle nostre argomentazioni.

«La ringrazio molto della sua disponibilità!» direi a Marx salutandolo all’uscita. «Ah, aspetti! Un’ultima cosa: il nostro primo articolo costituzionale sottolinea l’importanza del lavoro!» esclamerei un po’ sbrigativamente.
«Hai visto… Sono proprio arrivato dappertutto!» sorriderebbe Marx; ora, a mani vuote.
I suoi libri, tutti in pila, lasciati in cucina; ecco, da oggi avrò meno tempo per preparare biscotti!

 

Anna Castagna

 

[Photo credit Hennie Stander via Unsplash]

 

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Dal film “Vi presento Joe Black”: dalla Morte all’Amore

Il film Vi presento Joe Black del 1998 mette in scena la personificazione della Morte (Brad Pitt) la quale, affidandosi all’integrità umana del facoltoso Bill Parrish (Anthony Hopkins) decide di sperimentare la vita. La breve esperienza umana della Morte, presentata a tutti con il nome improvvisato di Joe Black, sembra voler rappresentare, contro-intuitivamente, l’arco ideale dell’esistenza umana. Quell’intervallo di tempo, che iniziando in una condizione di innocenza, terminerebbe con il compimento del proprio fondamentale scopo di vita. Infatti Joe, all’inizio della sua bizzarra escursione, si atteggia come un bambino che sperimenta il nuovo, gironzolando, per esempio, nella casa di Bill alla ricerca di qualcosa di imprecisato o mostrandosi goloso e distratto durante la riunione aziendale. Inoltre Joe, sebbene a malincuore, deciderà di terminare la sua avventura proprio dopo la realizzazione del suo obiettivo. Solo dopo aver incontrato e vissuto l’amore con passione, infatti, sarà pronto al definitivo addio.

Se vivere cercando di realizzare ciò che sentiamo essere il nostro scopo principale di vita può consentirci di accettare o di dimenticare, positivamente operosi, l’inesorabilità della nostra stessa morte, quale pensiero può accompagnare a vivere il dolore della morte di una persona che amiamo?

Ora, sebbene il film ruoti intorno al tema della morte e sfiori alcune sue diverse declinazioni – accennando alla sua tragicità nella scena dell’incidente del ragazzo di cui la Morte assumerà le sembianze o alla sua drammaticità nella circostanza dell’anziana donna gravemente malata – in realtà il lungo cortometraggio lascia trapelare dallo sfondo la vulnerabilità umana nei confronti del dolore per la perdita di una persona amata. Lo stesso Bill, che rappresenta un’eccellenza dell’agire umano, rimasto vedovo, confida a Joe la quotidianità di una triste e nostalgica mancanza. Inoltre Joe, al momento della sua partenza, non promette alla sua innamorata Susan (Claire Forlani) l’eccezione dell’eternità bensì l’immunità dal dolore della perdita di chi si ama. Ciò sembra quindi suggerirci che l’aspetto più insostenibile della morte non sia propriamente quello di strappare a noi la vita ma quello di strappare a noi gli affetti.

A questo punto possiamo comprendere allora come il tema della morte e il tema dell’amore siano tra loro profondamente legati. Se l’amore dà senso alla vita – «Fare il viaggio e non innamorarsi profondamente, be’, equivale a non vivere» spiega Bill alla figlia minore Susan in una delle primissime scene del film – vuol dire che, di conseguenza, è proprio l’amore a renderci vulnerabili al dolore della morte. In fondo, l’immensa sofferenza che si prova per l’assenza di chi amiamo altro non è che l’intensità di un amore che collassa – innaturalmente – dentro di noi. Quest’ultima considerazione sull’amore ci rivela quindi tutta l’inadeguatezza di una interpretazione conciliante con la morte. La prospettiva che la concepisce come il termine puntuale, sebbene sempre inatteso, del compimento del proprio fondamentale scopo di vita non dà infatti ragione del grande dolore che si prova per la perdita di chi si ama. Se l’amore dà senso alla vita, è anche vero che quello stesso amore ci rende incomprensibile, se non inaccettabile, la stessa morte, rischiando addirittura di far vacillare l’amore come senso della vita. La morte resta quindi un enigma, la cui conclusiva supremazia manifesta a noi stessi l’evidenza della nostra vulnerabilità.

Ecco che, allora, il subire impotenti la perdita di chi amiamo significa attraversare, senza alcuno scudo, la frattura dell’equilibrio affaccendato della nostra ordinarietà. Il nostro dolore, che si dilata come nell’eterno, schiude bruscamente la nostra esigenza di riflessione. E riconoscendoci vulnerabili, in questa sorta di limbo interiore, può forse accompagnarci il pensiero che l’amore che cerchiamo nella nostra vita altro non sia che la naturalezza di un sentimento presente costantemente dentro di noi. L’amore, proprio come la morte, ma in un senso inverso a essa, si trova infatti in noi, sempre, in una condizione di potenzialità. A pensarci, se l’inesorabilità della morte non priva di vigore il nostro impegno a contrastarla nella vita è proprio perché anche l’amore rivendica tutta la sua realizzazione. E il dolore della perdita della persona che amiamo taglia proprio lì: proprio dove l’amore e la morte, dentro di noi, si toccano. Un tocco che resta indecifrabile alla mente ma palpabile al cuore. E in questo dolore dal sapore metamorfico, possiamo forse provare a lasciarci attrarre dall’idea di liberare nell’aria tutto l’amore di cui siamo capaci e vivere il nostro pezzetto di tempo, anche dolcemente distratti, dal sorriso di chi, inconsapevole della nostra profonda ferita, ci passa per un momento accanto.

 

Anna Castagna

 

[Photo credits Luigi Boccardo by Unsplash]

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Imparare: alcune riflessioni, da un pensiero di Nietzsche

Credo non accada molto spesso di dedicarsi alla lettura di un libro accorgendosi, anche un po’ per caso, di possedere come lettrice o lettore la stessa età anagrafica dell’autore o dell’autrice nel periodo di stesura per quello specifico scritto. A me è capitato, qualche tempo fa, con Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è di Friedrich Nietzsche composto nel 1888.
La consapevolezza di quella inusuale oltre che casuale coincidenza d’età, tra chi scrive e chi legge, trasformò la mia lettura in una sorta di confronto immaginario con un coetaneo d’eccezione. Sicché, mentre procedevo nel racconto della sua autobiografia, mi pareva quasi che i pensieri espressi dal filosofo Nietzsche superassero la normale relatività della sua prospettiva culturale e del suo contesto storico e giungessero fino a me, nel XXI secolo, carichi di un senso e di un significato immune dalla parzialità a cui solitamente li costringe il tempo. E tra questi suoi pensieri autentici, perché profondamente sentiti e sinceri, ve n’è uno su cui vorrei soffermarmi e condividere alcune riflessioni.

 Scrive Nietzsche nel suo capitolo intitolato “Perché scrivo libri così buoni”:

«In definitiva, nessuno può trarre dalle cose, libri compresi, altro che quello che già sa. Chi non ha accesso per esperienza a certe cose, non ha neppure orecchie per udirle» (F. Nietzsche, Ecce Homo, 1991).

Con queste due brevi e risolute asserzioni, Nietzsche offre l’occasione alle sue lettrici e ai suoi lettori di riflettere più attentamente sulle caratteristiche del nostro modo di imparare. Egli infatti, in queste poche righe, allude a una immagine del conoscere interattiva e selettiva dove la persona che impara non subisce passivamente e indistintamente tutto quello che gli viene proposto; questo perché, nella dinamica del suo apprendimento, la persona chiama in causa quello che già sa o quello di cui ha già avuto esperienza. Potremmo dire che, in effetti, chi impara non si trova mai propriamente nella condizione concreta di una tabula rasa pronta e disponibile a colmare meccanicamente le sue lacune conoscitive, ma che è sempre la singolarità della sua persona a esserne coinvolta.

Possiamo ora appuntare due ulteriori riflessioni molto importanti per la comprensione del nostro modo di imparare.

La prima, che ha il valore di una semplice constatazione, riguarda la nostra capacità deduttiva che, diversamente da come si è soliti pensare, non si presenta come una abilità automaticamente espansiva bensì personalmente selettiva. Se infatti proviamo a riflettere sulle nostre deduzioni possiamo osservare come esse non nascano semplicemente dalla lettura o studio di un testo. Se fosse veramente così, l’uguaglianza delle nostre letture e dei nostri studi determinerebbe da sola anche l’uguaglianza delle nostre riflessioni. Ma, nella realtà, possiamo riscontrare che non avanziamo mai nel nostro apprendimento in modo tra di noi uniforme proprio perché le nostre deduzioni, le quali caratterizzano la nostra personale crescita conoscitiva, non si trovano inscritte a priori, una volta e per sempre, nel sapere trasmesso dai testi. Quando impariamo noi non rendiamo esplicite deduzioni di per sé implicite, bensì la singolarità del nostro patrimonio conoscitivo e delle nostre esperienze di vita veicola una selezione, più o meno consapevole, tra la disponibilità e la varietà logica dei nostri pensieri.

La seconda – che può dare avvio a una pratica, ora, poco diffusa – riguarda la nostra capacità di comprensione che, diversamente da quanto si è soliti porre attenzione, può svilupparsi al crescere delle nostre esperienze di vita, e per questo migliorare con l’aumento graduale dell’età. Infatti, gli avvenimenti della nostra vita conducono a un ventaglio interiore che può predisporci a un ascolto più partecipato, e quindi a una comprensione più ampia e sfaccettata. Di conseguenza, accostarsi in età matura ai pensatori e alle pensatrici della nostra storia culturale non può che essere benefico per la nostra consapevolezza interiore, perché la gamma dei nostri vissuti agisce un attrito in grado di generare lo sdoppiamento empatico dell’immaginazione.

Detto questo, solo una piccola avvertenza sul carattere del nostro bagaglio conoscitivo ed esperienziale che, in quanto perno e motore del nostro apprendimento, potrebbe condurci a liquidare troppo in fretta quelle letture che, in un dato momento, ci risultano troppo lontane e poco familiari. In questi casi, è bene pazientare e cercare qualcosa che ci aiuti ad attutire la distanza perché ogni grande pensatore e pensatrice ha qualcosa di profondo da dirci. Capire questo qualcosa significa scoprirne l’umanità che è, insieme, la loro ma sempre anche la nostra.

Anna Castagna

[Photo credit Kimberly Farmer via Unsplash]

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A lezione di libertà con il film “Mona Lisa Smile”

Nella pellicola cinematografica Mona Lisa Smile del 2003 si racconta la storia di una docente di Storia dell’Arte che, giungendo dalla California nel Massachusetts, inizia a insegnare presso l’istituto femminile Wellesley College. Qui, fin dalla prima lezione, l’insegnante Katherine Ann Watson (Julia Roberts) si accorge dell’ottima preparazione nozionistica delle sue allieve. Colta un po’ alla sprovvista dalla dinamica della lezione, che si conclude con la decisione delle allieve di proseguire nello studio per proprio conto, escogita una diversa strategia formativa alla seconda lezione. Questo perché l’obiettivo educativo fondamentale della docente sembra essere quello di voler insegnare alle ragazze a ragionare con la propria testa.
Ma questo ambizioso proposito che cosa davvero significa? In fondo, è veramente possibile insegnare a ragionare liberamente? E se sì come? 

Iniziamo con il cercare di rispondere alla prima domanda e al riguardo, notiamo subito che molte conversazioni del film ruotano intorno al tema dell’Arte che possiamo considerare, in un duplice senso, occasione ed eccellenza dell’espressività umana. L’opera artistica, infatti, rappresenta non soltanto la testimonianza della singolarità dell’artista, ma offre anche a chi la osserva la possibilità di rintracciare, rispetto all’opera, il proprio personale sentire. Cosicché la disciplina dell’Arte può rappresentare una perfetta opportunità didattica per una lezione sulla libertà espressiva attraverso l’unicità di chi esegue e di chi osserva l’opera artistica. Non a caso, l’insegnante Katherine sollecita più volte le sue allieve a esprimere una propria opinione intorno a un dipinto e a soffermarsi a riflettere per poter esplicitare a parole il proprio pensiero, il proprio sentire. Ciò sembra quindi suggerirci che il ragionare con la propria testa significhi mostrare di saper riconoscere ed esprimere ad altri l’autenticità del proprio sentimento e della propria sensibilità.

Passiamo ora al secondo quesito che ci invita a riflettere sull’apparente paradosso della pretesa pedagogica di Katherine ben espresso dal docente di Italiano Bill Dunbar (Dominic West). Nella scena del film che sancisce la rottura della loro relazione, Bill, infatti, con aspra franchezza, le dice: Tu non sei venuta qui per aiutare le persone a trovare la propria strada, ma per aiutare le persone a trovare la tua strada!” 

Katherine non è sposata, è economicamente indipendente e nell’America degli anni Cinquanta, che vede nel matrimonio la piena realizzazione della donna, Katherine rappresenta l’opposto del modello femminile tradizionale. L’accusa di Bill allude quindi al rischio di Katherine di imporre alle ragazze il suo stile di vita, confondendo il suo obiettivo educativo alla libertà con l’aspettativa di essere da loro emulata.
In realtà, la vicenda dell’allieva Joan (Julia Stiles), che sceglie di sposarsi e rinunciare agli studi universitari, ci suggerisce che Katherine ha sì indirizzato Joan al modello femminile dell’auto-realizzazione professionale, aiutandola per esempio nella compilazione della domanda universitaria, ma che sembra anche essere riuscita, in qualche modo, a far emergere nella giovane studentessa la fermezza della sua personale decisione.

A questo punto, allora, possiamo considerare il terzo quesito che ci spinge a riflettere su come sia possibile insegnare a ragionare liberamente. In questo caso è la vicenda di una altra alunna a suggerirci una possibile risposta. Betty (Kirsten Dunst), che rappresenta l’aspirazione femminile al matrimonio, tradita dal marito, finirà per chiedere il divorzio, rifiutandosi di fingere una felicità d’apparenza così come le viene invece indicato dalla madre. L’atteggiamento di Betty, quindi, si capovolge nel corso del film: da sostenitrice imperterrita della tradizione culturale a donna che riesce a dare legittimità al suo sentire senza avvertire la necessità di una approvazione che non sia esattamente la sua. In questo cambiamento interiore Betty riconosce l’importanza della testimonianza della sua insegnante Katherine, dedicandole l’ultimo suo articolo al Wellesley College. Katherine, quindi, è riuscita a far maturare in Betty la consapevolezza di sé stessa; e lo ha fatto, non attraverso uno scontro diretto con lei, ma attraverso l’argomentazione in aula della sua profonda delusione per il fraintendimento del suo insegnamento, accusato di sovvertire il ruolo naturale delle donne. 

Tutto questo ci predispone a comprendere il valore pedagogico di una autentica testimonianza di libertà di pensiero e di vita. Testimonianza che ha il duplice scopo di rafforzare in noi ciò che vi è di simile e, parimenti, di sfidare ciò che, al contrario, ne è diverso. Insegnare a ragionare con la propria testa significa, allora, distendere la trama del possibile. Imparare a farlo vuol dire, per questo, avvertire vibrare i propri confini. La libertà è l’elasticità del nostro dettaglio che scopre la singolarità del suo slancio attraverso l’unicità delle piccole e grandi opere del mondo.

 

Anna Castagna

 

[immagine tratta da un fermo immagine del film]

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Una breve riflessione sul pensiero critico

La nostra cultura contemporanea concorda pressoché unanimemente sull’importanza del pensiero critico. Ma precisamente qual è lo scopo di questa operazione intellettuale? qual è il risultato empirico-sociale che ci attendiamo? e perché ne sottolineiamo frequentemente la necessità? Al fine di non sottovalutare la rilevanza di questi quesiti scelgo qui di seguito di richiamare e commentare una particolare scena cinematografica del film Codice d’onore del 1992 (titolo originale A Few Good Men).

Mi riferisco alla deposizione al banco dei testimoni del Caporale Jeffrey Barnes (interpretato da Noah Wyle) a cui l’avvocato d’accusa, il Capitano Jack Ross (interpretato da Kevin Bacon) mostra un paio di libri per i Marines allo scopo di fargli ammettere l’inesistenza procedurale del Codice Rosso. In particolare, l’avvocato d’accusa, strutturando il suo ragionamento deduttivo sulla base della premessa che solo ciò che è presente e definito in un libro è potenzialmente applicabile, ricorre alla testimonianza di Barnes sull’assenza del Codice Rosso come argomento di testo, per persuadere la Giuria della colpevolezza dei due Marines che avrebbero così agito indipendentemente da un ordine militare.

A ciò l’avvocato difensore, il Tenente Daniel Kaffee (interpretato da Tom Cruise) interviene con successo, accogliendo sì la stessa premessa ma in un ragionamento logico finalizzato a evidenziarne la falsità: se solo ciò che è presente e definito in un libro è potenzialmente applicabile come si può spiegare la fruizione concreta del servizio mensa, di cui si accetta, concordemente, l’assenza di una sua indicazione scritta? «Allora non capisco. Come sapeva dov’è la mensa se non è scritto nel manuale?» chiede al testimone con simulato stupore il Tenente Kaffee.

A questo punto, esposto questo dettaglio cinematografico, vorrei evidenziare due aspetti della nostra razionalità per poter poi articolare una breve riflessione sul nostro pensiero critico.

Il primo aspetto riguarda la coerenza logica, che come si evince dalla scena descritta è sì necessaria alla costruzione congruente di un ragionamento razionale ma non è di per sé determinante all’esito vincente di una argomentazione nel momento in cui le premesse di base individuate risultino discutibili o persino totalmente false. Nel dibattito cinematografico il non costituirsi come argomento di testo scritto non equivale a constatare e a sancire la reale inapplicabilità del Codice Rosso.

Il secondo aspetto, delicato perché ambivalente, riguarda l’uso intenzionale della logica. Il Capitano Ross e il Tenente Kaffee mirano entrambi a ottenere il favore del verdetto della Giuria e costruiscono i loro discorsi a sostegno rispettivamente dell’accusa o della difesa degli imputati.  Se generalizziamo questa caratteristica processuale, possiamo sostenere che, se è vero che siamo vincolati dalle medesime regole della logica razionale, è altrettanto vero che, siamo proprio noi i fautori della sua progettazione e selezione argomentativa.

Ora riepilogando, se la coerenza logica è il requisito obbligato di una argomentazione ma non la garanzia di per sé della sua veridicità – e se la parzialità, come l’obiettività, sono più propositi della nostra volontà che qualità intrinseche della razionalità, tanto che l’aggettivo ‘logico’ non è automaticamente sinonimo di ‘giusto’ – possiamo renderci maggiormente conto delle implicazioni effettive del pensiero critico. Esso ci conferisce l’abilità di decostruire tutte quelle affermazioni che appaiono convincenti senza per questo essere necessariamente vere, mostrando per esempio l’erroneità dei presupposti che sono i fondamenti, potenzialmente sempre vulnerabili, dei nostri discorsi. Inoltre e soprattutto, il pensiero critico ci consente di esperire una certa autonomia di pensiero. Ogniqualvolta esso individua e comprende la probabile posizione prospettica altrui acquista di rimbalzo la consapevolezza del proprio intendimento e la facoltà del proprio intento.

Detto questo, in una realtà intricata come la nostra, l’importanza del pensiero critico eccede di gran lunga l’appagamento individuale della propria libertà di pensiero. Esso ha piuttosto un duplice valore strategico: da un lato, ci permette di non subire inconsapevolmente l’abilità persuasiva altrui e dall’altro, ci consente di strutturare più consapevolmente il nostro intento, obiettivo o parziale che sia. In questo senso lo scopo del pensiero critico è anche lo scopo dei nostri valori e delle nostre intenzioni. Il risultato empirico-sociale che attendiamo non è quindi per nulla scontato poiché è la nostra stessa libertà a contemplare la molteplicità delle possibilità. Forse, la frequenza con cui sottolineiamo la necessità del pensiero critico testimonia la nostra generale difficoltà ad argomentare in favore di una società globale migliore.

Ecco che allora riflettere sul pensiero critico significa chiedersi:

  • quanti presupposti so individuare?
  • quanta parzialità sono in grado di percepire o ipotizzare?
  • e soprattutto, quanto riesco a imprimere nella precisione logica della ragione il mio senso personale di giustizia?

 

Anna Castagna

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Per una prospettiva politica di emancipazione

Nel libro Il lavoro delle donne nell’Italia contemporanea di Alessandra Pescarolo vi è una frase che ha attirato la mia attenzione per settimane. La riporto per intero: «Non c’è, dunque, niente di automatico nello sviluppo dell’autonomia economica delle donne, che dipende dall’incrocio fra le trasformazioni del contesto e la capacità di mobilitazione soggettiva e politica delle attrici e degli attori storici»1.

Leggendola e rileggendola il mio pensiero non era soltanto rivolto alla questione attualissima della disoccupazione, sia essa femminile, giovanile, ecc., ma più in generale alla sua perdurante persistenza. Non riuscivo infatti a smettere di riflettere sull’immagine dell’ incrocio indicata da Pescarolo come elemento figurale determinante dell’emancipazione economica. Il motivo della mia insistenza era dovuto dalla seguente riflessione deduttiva: se accetto il disegno concettuale dell’incrocio sono costretta ad ammettere un insidioso limite insito nella protesta sociale e nella proposta politica. Questa figura implica infatti che le due determinanti variabili storiche, rispettivamente le trasformazioni del contesto e la capacità di mobilitazione, siano concepite come condizioni necessarie all’emancipazione ma non di per sé sufficienti se non nell’indefinita contingenza di una loro presenza congiunta e/o congiunturale. Pertanto qualsiasi forma di mobilitazione, senza l’opportuno cambiamento del contesto, è destinata all’inconcludenza a meno che non si riesca a prospettare e a definire un nostro ruolo attivo proprio nelle trasformazioni del contesto.

Per questo penso alla possibilità di definire una prospettiva politica di emancipazione capace di incrementare i nostri punti di presa direzionali sulle dinamiche del nostro cambiamento storico. A tal fine sarà innanzitutto necessario attribuire un senso nuovo alla distinzione che solitamente operiamo tra spazio pubblico e spazio privato. Tale distinzione non intenderà demarcare l’impermeabilità o l’invalicabilità dei rispettivi confini ma evidenziare i due termini di una relazione fondamentale.

La qualità di vita di ogni singola dimensione privata dipende infatti dalla profondità della nostra discussione pubblica. Questo perché il nostro bene comune più che essere una meta ideale da raggiungere è un magma sotterraneo da far emergere. Il bene è comune non nel senso di un minimo comune denominatore, una sorta di uguale resto fortuito e successivo alla soddisfazione dei nostri singoli interessi privati, ma è comune nel senso che ci accomuna, che ci lega l’uno all’altro in una griglia relazionale da identificare. Perciò partecipare alla politica non significa scegliere da che parte stare, non significa limitarsi a una opzione di voto ma vuol dire interagire a monte nella definizione delle questioni politiche, vuol dire indagare per poter collaborare.

Ecco che allora la nostra emancipazione non potrà prescindere dal progetto intellettuale di un approfondimento individuale e interpersonale. Tale progetto non potrà che essere:
eccezionale perché spesso è proprio il nostro stile di vita a censurare il tempo della ricerca e della riflessione, che è invece essenziale per poter disinnescare preventivamente «l’uso supremo e più insidioso del potere [che] è quello di far sì che le persone non abbiano rimostranze, plasmando le loro percezioni, preferenze e cognizioni»2.
trasversale alle nostre occupazioni quotidiane e professionali perché in politica l’uguaglianza non si riferisce all’identità di uno status economico-sociale ma alla conquista di una assertività capace di astrarre dal proprio ruolo non per accantonarlo ma per ricomprenderlo alla luce di un contesto storico e contingente più ampio.
volto a migliorarsi e a migliorare perché la ragione senza desiderio di armonia dimentica la sua intrinseca contraddizione. La ragione infatti non può evidenziare senza nel contempo oscurare, argomentare senza tralasciare, trascurare o addirittura fuorviare.

Per di più, se davvero la società è «un insieme di individui i cui interessi economici e sociali sono inevitabilmente in conflitto o in concorrenza»3 sarà importante che ciascuno di noi scelga di assolvere il compito paradossale di affidarsi con diffidenza alla razionalità. Senza riflessione il lume della ragione si affievolisce, si spegne. Senza sensibilità del bene proprio quel lume ci abbaglia, ci acceca poiché impedisce di vedere e di mostrare alla ragione ciò che le manca. E la strada della nostra emancipazione sta proprio lì, nel mezzo, tra l’inconsapevolezza e la rivendicazione, tra la sottomissione e la prevaricazione, tra il disinteresse e la compiutezza non porosa del sapere.

L’emancipazione è il buon uso della ragione. Riconoscerne l’eccellenza perennemente in difetto è la vera chiave per diventare, ovunque, l’uno il collaboratore dell’altro.

 

Anna Castagna

 

NOTE:
1. A. Pescarolo, Il lavoro delle donne nell’Italia contemporanea, Viella 2019, p. 28
2. Citazione riportata in Anne Stevens, Donne, potere, politica, Il Mulino 2009, pp. 35-36 di S. Lukes, Il potere. Una visione radicale, Milano, Vita e Pensiero, 2007
3. A. Stevens, op. cit., p. 104

[Photo credit pixabay]

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La preziosa inaffidabilità del nostro denaro

Che cos’è il denaro?
Patrimonio o debito, remunerazione o imposta, dono o sanzione il denaro è indiscutibilmente un elemento imprescindibile nelle nostre vite che detiene e trattiene una specifica problematicità estrinseca. Il denaro è infatti una necessità costruita e condivisa e mai parimenti suddivisa. Esso si configura come la convergenza gravitazionale monetaria di una struttura storico-economica produttivamente consequenziale-gerarchica, di una potenzialità speculativo-finanziaria fruttuosamente attraente e di una interconnessione globale contestualmente disomogenea. Di conseguenza, sebbene il denaro venga solitamente concepito e considerato come un oggettivo, efficace e funzionale mezzo di scambio paritario e pacifico, in realtà esso si configura come «l’espressione e lo strumento di un rapporto, della reciproca dipendenza degli uomini, della loro relatività»1 e in quanto tale stabilisce ed evidenzia la misura di una apparentemente ineliminabile asimmetria relazionale reciproca. Esso è ed esprime la cifra, il perno nodale, di una determinata e precisa interdipendenza sociale.

Cosicché il denaro non è semplicemente il fluido ingranaggio capace di garantire il funzionamento continuo e senza intoppi dei meccanismi socio-economici, ma rappresenta quantitativamente la trama specifica di una fitta filatura socio-culturale. Infatti non solo «i valori e i sentimenti corrompono […] il denaro, dandogli un senso morale, sociale e religioso»2 ma, anche attraverso di esso, veicoliamo bisogni e desideri, aspettative e priorità, doveri e mancanze; e in tal senso il denaro cattura e converge incessantemente la nostra singolarità che, mentre si impegna a soddisfare la sua necessità o passione, scopre e sperimenta paradossalmente il brio e la freschezza della libertà testimoniando di volta in volta la gamma estesa o ristretta delle sue opzioni o alternative di scelta.

Per questo il denaro non può e non deve essere concepito come un criterio indiscutibile e infallibile a cui poter affidare serenamente il successo armonioso della nostra tessitura sociale, poiché esso risulta da sempre compromesso dal fraintendimento della nostra indipendenza che non articola, non conosce e non comprende l’infinito intricato intreccio di necessità sottostante e precedente all’esercizio della propria libertà. Di fatto la posizione relativa che occupiamo riflette ed esprime perennemente l’imprecisione di una conoscenza difettosa ed emotivamente fuorviata. Le nostre necessità contingenti come le nostre possibilità disponibili, filtrate numericamente dal denaro, seguono filamenti inconsapevolmente incuranti del contesto radiale e retrogrado della loro genesi. Inoltre la nostra posizione relazionale risente significativamente della quantità di denaro posseduta poiché il grado di libertà espressa altera in eccesso o in difetto la percezione della possibilità di defilarsi definitivamente o invano dalla nostra interdipendenza, non riuscendo quasi mai a interpretare l’inferiorità come una reale reiterata strutturale difficoltà.

Perciò il denaro, che filtra, converge e traduce quantitativamente la nostra asimmetria relazionale, potrebbe diventare un particolare e prezioso oggetto di studio non esclusivamente «confinato ai territori intellettuali degli economisti»3. Il flusso del denaro potrebbe infatti essere concepito come una sorta di marcatore fluorescente in grado di indirizzare e accompagnare le nostre indagini lungo le molteplici connessioni da esso generate a evidenziare i difettosi vuoti conoscitivi come i deformanti responsi emotivi allo scopo di districare puntualmente le iniquità dalle criticità delle dinamiche e strutture sociali. In poche parole si immagina uno studio a tutto tondo sul denaro capace di dispiegare le interrelazioni dirette o indirette tra le condizioni contestuali dell’abbondanza e gli effetti a catena della carenza perché in una intelaiatura interdipendente marcatamente asimmetrica è verosimile che il denaro non possa espandersi da un lato senza evitare di comprimere da un altro in una circolarità espulsiva di reciprocità al ribasso.

E oggi che «viviamo in un’epoca in cui quasi tutto può essere comprato e venduto»4 l’esigenza fuorimisura del denaro può interpretarsi come l’evidenza di un elevato grado di dipendenza sociale in una visione culturale che è fortemente affascinata dall’autonomia. Per questo si ipotizza la progettazione di una prospettiva conoscitiva radiale e retrograda capace di individuare progressivamente le connessioni laterali e/o collaterali tra l’abbondanza e la carenza per verificare la possibilità di equilibrare costruttivamente, attraverso un investimento correttivo, protettivo e nobile, l’intelaiatura organizzativa portante. La nostra filatura socio-culturale ne trarrà conseguentemente beneficio e il denaro non apparirà più come il criterio neutrale e innocente della nostra calcolata obiettività ma come la risorsa aggregante e accelerante della nostra perfettibile umanità.

 

Anna Castagna

 

NOTE:
1. G. Poggi, Denaro e modernità. La “Filosofia del denaro”, Georg Simmel, Il Mulino 1998, p. 142

2. V. A. Zelizer, Vite economiche. Valore di mercato e valore della persona, Il Mulino 2009, p. 117
3. Ivi, p.112
4. M. J. Sandel, Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato, Feltrinelli 2013, p. 13

[Immagine di copertina proveniente da pixabay]

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Ragionando con Platone: sviluppo, sapere, sensibilità

Nella Repubblica Platone (428/7-347 a.C.) delinea un preciso rapporto di corrispondenza parallela e speculare tra la composizione psicologica dell’individuo e l’organizzazione politica della città-stato1. In effetti, egli individua e articola tra il singolo e l’intero una relazione reciproca: «non c’è individuo giusto se non in una società giusta»2 e «non c’è società giusta se non lo sono insieme i suoi singoli membri»3.
Possiamo anche oggi affermare che esiste una relazione reciproca tra la persona e la sua società? Se sì, come la formuliamo e la tracciamo? E successivamente, quali considerazioni possiamo avanzare? 

Ecco proposta qui una breve riflessione che sceglie come elemento di congiunzione nella relazione reciproca non la giustizia ma lo sviluppo, quest’ultimo inteso nel senso più esteso e immaginabile.

Teoricamente se la persona cresce e migliora, anche l’intera società evolve, e a sua volta se la società registra condizioni sociali, politiche ed economiche favorevoli, anche la singola persona verosimilmente ne trae beneficio. In tal senso possiamo affermare che lo sviluppo della persona è anche lo sviluppo della società e viceversa. In termini grafici la società potrebbe assomigliare a un grande cerchio che si estende man mano che tutti i cerchi più piccoli al suo interno – le persone – crescono. Tale espansione e sviluppo sociale avrebbe poi un effetto di incremento positivo sulla qualità di vita delle persone.

Ma che cosa determina lo sviluppo?

La risposta potrebbe essere proprio ciò a cui lo stesso Platone attribuisce grande importanza e rilevanza nella costruzione del suo progetto politico: il sapere4. Ma se nel caso di Platone il sapere è definito come «un complesso sistema di conoscenze etico-scientifiche»5, qual è il sapere funzionale al nostro sviluppo? Si tratta di un sapere unicamente di tipo tecnico-scientifico?

Ora, se è vero che il «processo di innovazione tecnologica […] è da sempre il maggiore catalizzatore di ricchezza e benessere»6, è altrettanto vero che «tutte le innovazioni tecnologiche contengono dei valori, rinvenibili nell’idea iniziale e nel processo di sviluppo e diffusione»7. I valori costituiscono quindi il contrassegno originario e il riferimento creativo delle tecnologie sin dalla loro primissima ideazione. Ciò sembra sottilmente suggerire la possibilità di attribuire alla dimensione etica, quale insieme globale dei valori non esclusivamente una funzione limitante, di controllo e di censura ma una funzione generante, di decollo e di fioritura.

A questo punto, esplicitata questa riflessione e tenendo conto che sono proprio i sentimenti gli «ispiratori, supervisori e mediatori dell’impresa culturale umana»8, possiamo ricorrere alla nozione di sensibilità qui proposta come intreccio singolare e dinamico tra valori e sentimenti, la cui caratteristica sostanziale sta nel configurarsi come una grandezza a dimensione variabile. In primo luogo perché quando parliamo di relativismo dei valori constatiamo in realtà e innanzitutto una varietà valoriale quantitativa, in parte ordinabile, indipendentemente da quanto riteniamo confrontabile questo variegato assortimento misterioso. In secondo luogo perché quando ci avvaliamo del concetto di civilizzazione nell’interpretazione della storia umana ammettiamo indirettamente un cambiamento storico-culturale della sensibilità.

Di conseguenza, più questa dimensione riesce ad avvertire e annotare concezioni e condizioni aridamente indifferenti alla tesaurizzazione della persona e delle sue relazioni, più essa contribuisce a mantenere attiva e vigorosa la grande agenda dell’impresa creativa umana. Detto altrimenti, la sensibilità estende orizzontalmente e minuziosamente gli orizzonti multiformi della curiosità, della ricerca e dell’immaginazione, poiché invita sempre e di nuovo la ragione a sbilanciare la sua coerenza, sfidandola ad abbracciare tutte le sfere di realtà che essa ha reso tenacemente consistenti e visibili. La sensibilità non è propriamente una bussola che indica una direzione precisa, ma è contemporaneamente un proiettore che rivela una maggiore spaziosità visiva e un propulsore che fornisce la spinta e l’intensità all’azione.

Sarà poi questa sensibilità a costituire lo sfondo brioso e brulicante del nostro dialogo socio-economico, generando un sapere capace di vigilare operativamente sugli elementi sottrattivi dello sviluppo e di ridurre le distorsioni reciproche dovute alle differenti posizioni relazionali. Lo sviluppo non sarà più una linea che sfreccia verso l’alto assottigliandosi, ma un raggio che volteggiando vorticosamente rasoterra spinge e ci sospinge incommensurabilmente più in alto. È l’ampiezza della sensibilità, che aziona e dispiega virtuosamente il sapere l’imperdibile moltiplicatore del nostro sviluppo.

 

Anna Castagna

 

NOTE:
1. M. Vegetti, L’etica degli antichi, Editori Laterza 2010 – Cap. V – pp. 116-117, 122-124, 131-135
2. Ivi, p. 117
3. Ibidem
4. Ivi, pp. 122-3
5. Ibidem
6. K. Schwab, Governare la quarta rivoluzione industriale, FrancoAngeli 2019 Parte 1, p. 29
7. IIvi, p. 36
8. A. Damasio, Lo strano ordine delle cose, Adelphi 2018, p. 13

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