Anima gemella e matematica

Chi non ha mai fantasticato sull’anima gemella? Esiste? Chi sarà? Sarà mai possibile trovarla? Insieme ad altre varie domanducce.

Ovviamente non possiamo dire di conoscere un modo per poterla trovare in anticipo (o addirittura in assoluto), diremmo noi, ma c’è chi cerca di attivarsi in senso contrario e di abbozzare diversi metodi per trovarla. L’ultimo esempio è di quella ragazza che ha messo un annuncio con un’espressione matematica e il cui risultato sarebbe stato il suo numero di telefono. Chi l’avrebbe risolta sarebbe stato, secondo la ragazza, abbastanza intelligente da poter meritare di essere il suo ragazzo.

Lasciamo che alla ragazza tocchi il suo destino tranquillamente e auguriamole il meglio, ma facciamo una piccola considerazione: per quanto ancora l’ideale medio di intelligenza dovrà essere accostato all’intelligenza logico-matematica?

La ragazza evidentemente pare cadere nel tranello per cui intelligente è chi innanzitutto di matematica ne sa. Ma come, solo questo richiedi al ragazzo con cui vorresti passare la vita? Non pensi in questo modo di trovare un ragazzo abile, competente, capace, ma non per forza intelligente? Non credo ancora di essere l’unico a credere che questa idea di intelligenza sia un po’ riduttiva: il modo umano di comprendere, interpretare, risolvere, pensare, contiene sì il linguaggio logico matematico – linguaggio per altro estremamente antico, direi originario, e che comunque non trova esempio solo in un’espressione algebrica – ma non ne è esaurito completamente. E sembrerà sì banale come pensiero, anzi lo è e basta, ma è così che ancora vengono formulati e proposti molti test, quiz, valutazioni personali più o meno spicce. Persino i bambini nei loro giochi amano porre domande matematiche per capire quanto sveglio è il proprio amichetto (quante volte ho miseramente toppato quelle domande…).

La complessità e in parte l’ineffabilità delle questioni numeriche affascina nella loro astrattezza e in qualche modo si pone come base per la misura dell’uomo: fino a dove si può elevare la tua mente?

Fin qui tutto giusto, ma pensavo che con l’età adulta i presupposti e i metodi di giudizio si ampliassero un po’, giusto quanto basterebbe per comprendere la vastità e la difficoltà di avvicinarsi al senso della capacità mentale di un uomo. La matematica resta appunto un linguaggio. Chi ne richiede la padronanza per il supposto valore intellettivo è come se richiedesse la conoscenza del francese per potersi dire intelligente. La questione va affrontata a livello culturale, cioè quasi a livello ultrasottile, nei modi in cui quasi ci si scambia battute o si giudica a pelle qualcuno. Una missione impossibile?

Quanto a te, cara ragazza anonima, per me resterai tale. Non so risolvere quell’espressione. Dopo sei anni di liceo scientifico le mie già precarie conoscenze matematiche non me lo consentono comunque. O forse non ho la voglia di sbatterci la testa e perderci tempo, sono pigro. Se non stupido, come insinui tu. In ogni caso spero tu abbia avuto fortuna e abbia trovato non solo un buon contabile ma anche un buon fidanzato, che non ti sottoporrebbe mai a un test simile.

Luca Mauceri

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

 

Rileggendo il Simposio: l’Altro che non uccide, ma fortifica

Quando Aristofane, nel Simposio1, tenta di spiegare la natura di Eros, lo fa elencando i tre casi nei quali questo può declinarsi. Il mito, infatti, narra l’esistenza di tre esseri umani e non unicamente due: la natura del primo, maschile, ebbe origine dal sole, quella femminile dalla terra, mentre il terzo, che condivideva dei caratteri dell’uno e dell’altro, nacque dalla luna e prese il nome di androgino. Quando Zeus, preso dall’ira causata dall’ambizione e dalla spregiudicatezza degli uomini, decise di tagliarli a metà così da rendere ciascuno più debole, privandolo di una parte di sé, fece sì che ciascuna di esse iniziasse la ricerca di quella che l’avrebbe completata.

Ordunque, allorché la forma originaria fu tagliata in due, ciascuna metà aveva nostalgia dell’altra e la cercava; e così, gettandosi le braccia intorno e annodandosi l’una all’altra, per il desiderio di ricongiungersi nella stessa forma, morivano di fame e anche di inattività, poiché l’una non intendeva far nulla separata dall’altra. E se una delle due metà moriva, e l’altra sopravviveva, quest’ultima cercava un’altra metà e le si annodava […]2.

Nacque così Amore, secondo il mito, dall’unione e dal completamento di due metà che, originariamente, costituivano un solo essere umano. Pertanto ciascuno di noi, prosegue Aristofane, in quanto è stato tagliato come si fa con le sogliole, è la metà, il contrassegno, di un singolo essere; e naturalmente ciascuno cerca il contrassegno di se stesso3.

Ci sono diversi aspetti, ricavati dal mito di Aristofane, sui quali riterrei importante soffermarci per portare a termine una riflessione circa la visione più comune dell’amore nella contemporaneità.

Il legame che si stabilisce tra due esseri umani ha origine dalla spinta del desiderio dell’altro che, a sua volta, trova il suo fondamento in una sorta di mancanza primordiale.

Pertanto, se continuiamo a seguire ciò che il mito suggerisce, dal momento che l’essere umano, sia esso uomo, donna o androgino, subì una scissione del proprio Sé in due parti che progressivamente si allontanarono l’una dall’altra fino a non ritrovarsi più, ciò su cui si fonda la vita di ognuno è esattamente la ricostituzione della natura originaria, possibile unicamente attraverso il ritrovamento delle due parti, in un completamento perfetto. Ciò che si desidera, dunque, è il congiungersi e il fondersi con l’amato, fino a diventare un tutto, un unico essere.

Ma a quale prezzo si paga la fusione all’interno della dimensione amorosa?

L’idea di due individui che si legano l’uno all’altro fino a fondersi richiama l’immagine di due metalli che, combinati assieme, diventano un unico e solo nuovo elemento le cui caratteristiche non sono il frutto della sommatoria e del completamento delle caratteristiche dei due elementi componenti considerati individualmente, ma dalla mescolanza delle loro qualità. La fusione, di per sé, indica una mancanza di chiarezza, una sorta d’indistinzione dei due materiali.

Tornando all’argomento che ci interessa più da vicino, quella della fusione amorosa è un’unione simbiotica che ci ricorda molto il legame che si crea tra la madre e il feto: questo, infatti, è sì una creatura distinta dalla figura materna, tuttavia entrambi fanno parte di un tutt’uno. L’uno vive nell’estrema dipendenza dell’altro, una dipendenza soprattutto fisica poiché la creatura ha bisogno della madre per nutrirsi: vive di lei.

Quando, durante la crescita del bambino, la dipendenza fisica si tramuta in dipendenza psicologica, quello che si crea è invece un rapporto fusionale che può sfiorare il patologico poiché uno dei due individui – è importante specificare che il fenomeno di reciproca dipendenza “fusionale” si crea a partire dalle figure parentali le quali non sono riuscite a fare in modo che il proprio figlio potesse “reggersi su” da solo -, vede se stesso solo come una metà che ha estremo bisogno dell’altro per sentirsi completo: stiamo quindi riprendendo il modello dell’androgino platonico basato sull’idea dell’unione degli opposti.

È talvolta la fusione che, entrando in gioco nelle relazioni d’amore, rischia di mettere in serio pericolo la crescita individuale della personalità di ciascuno.

Non esiste amore senza la messa a nudo della propria vulnerabilità, una vulnerabilità che fa sì che tutti abbiamo necessariamente bisogno dell’altro per sopravvivere; tuttavia, non può considerarsi nemmeno amore un rapporto basato sulla vitale dipendenza di uno dei due amanti.

Certo, l’amore ci spinge all’alterità, quell’alterità con cui condividiamo le giornate, attraversiamo la sofferenza, quell’Altro con cui proviamo la gioia. Tuttavia, se quest’alterità fosse lì unicamente per completarci, per renderci perfetti, per riempire tutti i vuoti lasciati da qualcuno nel corso della vita, vuoti che pertanto ci apparterranno sempre, essa perderebbe il carattere di vero “oggetto d’amore”.

Nel dialogo Platonico, Aristofane lo accenna: Amore è desiderio e ricerca.

Ma ricerca di che cosa? Desiderio di chi?

Ebbene, è quando Seneca prende la parola che la spiegazione del significato e dell’origine di Amore diventa chiara. Amore infatti nacque da Poros, letteralmente “Espediente”, “ricchezza”,e Penia, ovvero “Povertà”, durante il giorno della nascita di Afrodite, ed è per questa ragione che, da un lato essendo originato dalla mancanza, dunque da quell’ignoranza causata dalla privazione di risorse propria di Penia, e dall’altro lato, dall’avidità della conoscenza di Poros, Amore è naturalmente tendente a ciò di cui è privo, ovvero al sapere, che rientra tra ciò che di buono e bello esiste.

Se quindi, come conclude anche Socrate, Amore nasce da una forma di mancanza, ciascuno prova un sentimento d’amore nel momento in cui arriva a possedere l’oggetto della propria gioia, o meglio, più che l’”oggetto”, la persona che rappresenta il proprio bene e la propria felicità.

Nel momento in cui la si trova, non abbiamo più bisogno di porci delle domande circa l’esistenza o meno della “nostra dolce metà”, oppure “della nostra anima gemella”.

Quando si ama, le domande spariscono. Spariscono perché stiamo bene, perché non abbiamo bisogno di trovare un “Alter Ego” capace di completarci.

Siamo. E siamo insieme.

In generale ogni desiderio del bene e della felicità si identifica per chiunque nel sommo e astuto amore. […] E c’è chi dice che coloro che amano vanno in cerca della metà di se stessi; ma io dico che l’amore non è amore né della parte né dell’intero, nel caso che, amico mio, non sia effettivamente un bene, dato che gli uomini si lasciano tagliare volentieri e piedi e mani, se si avvedono che le loro membra sono malridotte4.

 

Sara Roggi

 

NOTE:
1 Platone, Simposio, BUR, Milano, 2007.
Ivi, p. 143.
3 Ivi, p. 145.
Ivi, p. 187.

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