Perché fermarsi ad osservare il passato piuttosto che correre sempre avanti

Per dare un volto alla sua critica al progresso, Walter Benjamin sceglie Angelus Novus, un quadro di Paul Klee, in cui «è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo»1. Secondo il filosofo tedesco ciò che l’angelo sta fissando con occhi colmi di pietà è il passato, da cui è costretto ad allontanarsi da una violenta bufera che lo sospinge in avanti, verso il futuro: «ciò che chiamiamo il progresso è questa bufera»2.

angelus-novus-paul-klee_la-chiave-di-sophiaLa critica di Benjamin si muove su un piano storico: egli attacca il mito occidentale del progresso perché ci illude che la felicità sia sempre in avanti, alla fine della storia, e così ci convince a rimandare all’infinito la realizzazione dei nostri desideri. E questa bufera, oltre a strapparci dal presente, ci impedisce anche di osservare il passato. Se ci soffermassimo a guardarlo potremmo vedere che esso è pieno di detriti: sono gli scarti della storia, sacrificati sull’altare del mito del progresso; sono storie che ci parlano di felicità non realizzate, utopie di un mondo diverso che sono rimaste inascoltate. Interpretare la storia come una linea retta che procede inesorabile verso un punto d’arrivo finale ci porta a dimenticare ciò che è successo, il dolore che è stato causato, le idee che sono state abbandonate.

Le immagini di Benjamin si hanno solo un significato storico, ma si possono facilmente declinare anche sulla situazione individuale. Perché in fondo tutti noi siamo simili all’angelo di Paul Klee. Noi figli dell’Occidente ci siamo abituati fin da bambini a interpretare la vita come una corsa in avanti: la scuola ci deve preparare a studiare e ad essere performanti all’università, i corsi di lingua ci devono dare un’arma in più da usare per trovare un lavoro, lo stage deve essere un trampolino di lancio verso il posto fisso, il lavoro stesso deve avere una porta aperta verso una promozione… Una corsa che, in un’epoca in cui il futuro è sempre più povero di sicurezza, diventa ancora più frustrante.

Persi in questa forsennata corsa in avanti, quando ci guardiamo alle spalle anche noi vediamo gli inevitabili scarti della nostra vita: gli attimi che non abbiamo vissuto fino in fondo, le scelte che abbiamo sbagliato o che più semplicemente potevamo fare diversamente, le persone che non abbiamo apprezzato a sufficienza. Se ci fermassimo ad analizzare le nostre scelte passate forse potremmo capire meglio noi stessi, cogliere più a fondo i nostri desideri per provare a realizzarli. Ma la corsa in avanti non si può fermare. E forse guardarci alle spalle ci fa anche paura perché temiamo di realizzare che abbiamo sbagliato tutto, che a forza di correre sempre più veloce non abbiamo capito di aver sbagliato strada.  

Qual è dunque la soluzione? Dobbiamo abbandonarci alla bufera del progresso e sperare che essa ci trasporti in un qualche luogo felice? Benjamin fornisce la sua soluzione, o quantomeno la sua riflessione, attraverso un’altra immagine potete. Egli racconta che durante la Rivoluzione francese «giunta la sera del primo giorno di scontri, avvenne che in più punti di Parigi, indipendentemente e contemporaneamente, si sparò contro gli orologi dei campanili»3. Sparare agli orologi per fermare il continuum temporale, infrangere quella linea che procede solo in avanti per poter finalmente tornare indietro, passeggiare tra i detriti della (nostra) storia per guardarli da vicino, perché in fondo la «felicità che potrebbe risvegliare in noi l’invidia c’è solo nell’aria che abbiamo respirato, con le persone a cui avremmo potuto parlare, con le donne che avrebbero potuto darsi a noi»4.

 

Lorenzo Gineprini

 

NOTE:
1. W. Benjamin, Tesi sul concetto di storia, Einaudi, Torino, 1997, p. 35
Idem
Ivi, p. 49
Ivi, p. 8

 

banner-pubblicitario-abbonamento-rivista-la-chiave-di-sophia-03-03

Un angelo che ha voluto essere libero

Occhi grandi, scuri, da cerbiatto. Capelli lisci, tagliati in un caschetto, fini e sollevati dal vento. Un sorriso radioso, illuminato ancor di più dal sole e da quei fasci di luce che rivelano delicatamente tutti i colori dell’arcobaleno. Un arcobaleno di riflessi, della stessa sostanza dell’ energia che una ragazza di diciannove anni dovrebbe sprigionare.

È questa l’immagine che mi lascia legata a lei e che, inspiegabilmente, resta nel mio cuore.

È questa l’immagine che voglio tenere con me, lontano da quel sonno profondo che per più di dieci anni l’ha incatenata a sé per poi portarsela via.

A diciannove anni, si è soliti dire di avere tutta la vita davanti. Talvolta è così. Talvolta è la vita a essere rifiutata, negata. Altre volte ancora, è lei ad allontanarsi da noi.

A diciannove anni, si ha tutta la vita davanti. Eppure, degli incidenti di percorso possono interromperla.

Ed è così che, un giorno come tanti altri, la sua vita si è inceppata, impedendole di rincorrere i suoi sogni e di vivere l’amore. E da quel giorno, un sonno profondo l’ha stretta a sé, svuotando quegli occhi che brillavano al sole, lasciandola imprigionata in quel suo corpo fragile disteso su un letto irrimediabilmente legato a delle macchine che avevano in pugno la sua vita.

Le macerie di un corpo esausto, forse? Segni esteriori di qualcosa che ha in fondo ancora un po’ di vita? La speranza di un risveglio? E quelle lacrime che talvolta scendevano dai suoi occhi, che cosa significavano? Volontà di vita oppure di abbandono di sé?

Durante un intervento al quale doveva sottoporsi, il coma l’ha inghiottita a sé, e le ha impedito di risvegliarsi per sempre. È così entrata in un incubo dal quale è quasi impossibile, se non raro, uscire.

Eppure, quella speranza, quell’incapacità di dire no a una vita che, forse, non ha più lo stesso senso di essere vissuta, permane e, in un certo qual modo, costituisce per i cari che le sono vicino il solo appiglio cui tenersi aggrappati, come se mantenerla in vita potesse aiutarli a sentirla fisicamente più presente a loro.

Eppure, la persona, non è solo corpo. Eppure ciò che la rende tale, è anche altro.

Una vita psichica, una dimensione emotiva, i molteplici fili relazionali di cui la sua esistenza è intessuta.

Quando Kant nella Metafisica dei costumi[1], parlava della differenza tra le cose e le persone, la dignità era l’elemento centrale di questa distinzione.

E qualora mancasse questo, che valore potrebbe assumere il corpo inerte, bloccato a un letto di ospedale? Chi ha tuttavia il diritto di decidere della vita di qualcun altro? E decidere per essa significa decidere unicamente per la sua interruzione, oppure al contrario, talvolta, un vero “attentato” alla vita e alla dignità può ritenersi quello di mantenere in vita “artificialmente” un corpo che ormai è svuotato del suo senso e valore profondo?

 Per tutto ciò che riguarda le questioni di etica medica, l’Occidente è progressivamente passato da un modello paternalista, secondo il quale tutte le decisioni dovevano essere prese dal medico e da tutto il servizio sanitario che si prendeva cura del paziente, ad un modello autonomista, secondo il quale il paziente avrebbe il diritto di scegliere il suo destino ed esprimere la propria volontà[2]. Il primo modello sembrerebbe guidato da quello che in francese è definito con il termine di principe de bienfaisance (ovvero, “principio di benevolenza”): secondo tale criterio, solo il medico può agire secondo il bene e del paziente e per la sua salute; sarebbe soltanto costui, l’unico quindi a decidere a-priori ciò che è bene e ciò che invece potrebbe essere fonte di malessere.

Il secondo, invece, farebbe risiedere la capacità decisionale unicamente nel paziente, in quanto soggetto completamente libero di prendere delle scelte riguardanti l’interruzione o meno di un trattamento terapeutico. A tale scopo nel 2002 in Francia, la legge n° 2002-303 del 4 marzo[3]avrebbe lo scopo di definire, all’interno del quadro dei diritti del malato e della qualità del sistema sanitario, il riconoscimento giuridico dell’autonomia del paziente, anche qualora questi manifestasse il rifiuto di un trattamento.

 Aucun acte médical ni aucun traitement ne peut être pratiqué sans le consentement libre et éclairé de la personne, et ce consentement peut être retiré à tout moment[4]».

( Trad. : « Nessun atto medico, né alcun trattamento può essere praticato senza il consenso libero e informato della persona, e questo consenso può essere ritirato in ogni momento».)

 Come prendere una decisione se è la coscienza del paziente a venire meno, nel momento in cui la sua capacità di intendere e volere scompare? Come può costui capire ciò che è bene o male per sé, se la sua situazione psichica è già parzialmente compromessa? Può davvero ritenersi autonomo nella scelta? C’è qualcun altro che, in caso contrario, può davvero decidere per la sua vita?

Uno dei tratti della condizione umana, lo sappiamo bene, è la finitudine. La vita ci viene tolta, proprio come ci viene data.

Ciò che inoltre distingue l’essere umano dalle cose, lo abbiamo detto, è la dignità, considerata come quella qualità che valorizza ciascun essere umano in quanto insostituibile ed unico nella sua specificità.

Sono pertanto queste due caratteristiche, finitudine da un lato e dignità dall’altro, a entrare in gioco nel momento in cui trattiamo la dibattuta questione etica dell’eutanasia.

Una cosa, infatti, è mantenere artificialmente un corpo in vita e volere a tutti i costi che il suo cuore batta grazie all’uso delle macchine, nonostante l’assenza evidente di una vita psichica, un’altra cosa è comprendere che, talvolta, è giusto lasciare andare la persona cara, poiché la morte potrebbe divenire una sorta di liberazione de quel peso che schiaccia non più una vita, ma solo un corpo inerte.

L’eutanasia è vietata in nome della legge. Nessuno dunque può porre fine alla vita di una persona, nemmeno quando è quest’ultima a domandarlo.

Oggi anche quella ragazza dagli occhi grandi se n’è andata.

Un altro angelo è lassù che mi protegge oramai.

Tuttavia, a volersene andare, è stata proprio lei.

Ha smesso di respirare e ha lasciato quel letto in punta di piedi, alzando al cielo quelle ali che, finalmente, potevano respirare il profumo della libertà.

 

[1] I. KANT, Fondements de la métaphysique des moeurs, Le Livre de Poche, Paris, 2014.

[2] M. MARZANO, Je consens, donc je suis, PUF, Paris, 2006.

[3] Ibidem, p. 77.

[4] Ibidem, p. 76, rif. alla legge n° 2002-303 del 4 marzo 2002, art. L. 1111-4.

 

Sara Roggi

[Immagini tratte da Google Images]