Sul detto comune “Forse non tutti i musulmani sono terroristi…”

L’aveva capito Immanuel Kant quando, nel 1793, pubblicò il saggio Sul detto comune “Questo può valere in teoria, ma non vale per la pratica”: i proverbi, i modi di dire, i “detti comuni” appunto, sono più di semplici espressioni idiomatiche e di costume, sono vere e proprie cartine al tornasole del sentire comune, della mentalità collettiva. Possono quindi creare una specifica forma mentis e le basi di un sistema di pensiero, quando non ne siano già indicatori.

È questo il caso, oggi, di un detto che sentiamo fin troppo spesso, attribuito a Oriana Fallaci e diffusosi in maniera endemica dai bar ai social network ai talk show: “Forse non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani”, un brillante sunto di teologia, analisi sociopolitica e psicologia che non lascia troppi dubbi in quanto a letture della crescente instabilità che affligge ormai ogni parte del mondo. Peccato che, come sottolineò lo stesso Kant, spesso questi detti siano pure idiozie glorificate da una facile retorica. L’attentato a Londra del 19 giugno e quello a Parigi del 29 giugno dovrebbero già essere valide confutazioni del detto preso in esame, ma lasciando da parte gli attacchi ad opera di singoli, prendiamo in considerazione invece alcuni gruppi terroristici organizzati non islamici.

In Israele, un numero crescente di nuovi coloni, ebrei sionisti, ha compiuto decine di attentati ai danni della popolazione civile palestinese (il più delle volte: nel 2015, l’attentatore scambiò un ragazzo ebreo per un arabo e lo uccise con un coltello), omicidi tesi a rivendicare la totale sovranità ebraica della Terra Santa.

In Birmania, l’etnia rohingya, di religione islamica, è sistematicamente vittima di attentati ad opera di gruppi paramilitari che si dichiarano seguaci del buddhismo theravāda, che agiscono su base nazionalista e razzista. Il tutto, peraltro, avviene con il complice silenzio del Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, ora alla guida del Paese.

Nella Repubblica Centrafricana, le milizie cristiane degli anti-balaka compiono stragi coordinate e brutali ai danni della popolazione musulmana (lo stesso termine “anti-balaka” rimanda ad una contrapposizione religiosa, e può essere tradotto con “anti-musulmano”), con attacchi mirati ai civili.

In India, estremisti indù afferenti al partito del Primo Ministro Narendra Modi, il BJP, organizzano repressioni violente nei confronti delle minoranze non induiste del Paese, arrivando a imporre in alcune regioni (anche popolose e rilevanti come lo stato del Gujarat) una legge ispirata ai precetti indù, una vera e propria “shari’a induista” che punisce con l’ergastolo chi uccide una mucca.

Esisterebbero molti altri esempi anche al di fuori dell’ambito religioso e confessionale, come i movimenti del suprematismo bianco negli Stati Uniti o i rinati movimenti anarchici in Italia. Come accennato, il numero aumenta al momento in cui si aggiungono al novero anche i “lupi solitari” come Darren Osborne, Anders Breivik o perfino il nostrano Gianluca Casseri.

Espressioni come “Non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani” sono, a proprio modo, consolanti: ci portano a pensare che esiste una singola ideologia, religione o dottrina (o comune ridotte in numero e chiaramente identificabili) che è all’origine del male e della violenza, e che una volta eliminata questa, si potrà finalmente vivere tranquillamente, in pace, in armonia. L’alternativa sarebbe angosciante: riconoscere che la violenza ha sempre accompagnato la storia umana, e che individui, popoli e gruppi hanno utilizzato ogni tipo di religione o ideologia per darle una giustificazione ed una legittimazione. Certo, questo presupporrebbe anche un impegno personale e quotidiano nell’eradicazione della violenza, a partire dall’ambito individuale e educativo: fortuna che biasimare l’islam e qualunque altro capro espiatorio lo seguirà sollevi tutti da ogni responsabilità personale.

Giacomo Mininni

[Immagine tratta dalla campagna pubblicitaria Anche le parole possono uccidere realizzata da Armando Testa]

 

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Confusione e Anarchia: due nazioni difficili da governare

<p>immagine tratta da google</p>

Dicevano di vederle sempre assieme: «Si accompagnavano non meno di tre lune fa, lo posso giurare», proprio così dicevano; «Sono amanti nascoste, abitano nella stessa casa – affermava la vecchia acquaiola – certe cose le so per esperienza!». E così il fabbro del borgo, il mastro birraio, la lavandaia, il perdigiorno di professione, persino il cieco ed il frate irriverente; anche le pecore se il buon Dio avesse dato loro la parola avrebbero cantilenato: «Non una volta, nemmeno per errore, che abbiano imboccato due diverse direzioni, ci possiamo giocare all’azzardo tutta la nostra lana».
Così erano Confusione e Anarchia, amiche, sorelle, parenti alla lontana… nessuno in cuor suo lo sapeva con certezza. Se fossero state gemelle forse un’impercettibile differenza nell’ultima ciglia dell’occhio sinistro, un passo breve come tra un carminio e un pompeiano. Il re di tanto in tanto diceva ai suoi uomini migliori: «Sarebbero nazioni dai confini indefiniti, un disastro doverle governare!».
Pochi, pochissimi sapevano andare oltre le semplici apparenze ed erano anche gli unici a non cadere nel tranello delle banalità: è vero, abitavano nella stessa casa, ma ognuna aveva le proprie stanze, ed un muro spesso un braccio tracciava confini ben definiti tagliando persino l’aria; non sempre andavano d’accordo, forse una sottile cortesia di circostanza tra un “buongiorno” e un “buonasera”, ma mai un più dolce “buonanotte”.
E le origini? Anche quelle erano diverse. Confusione nacque da Caos e Disordine, mentre Anarchia era figlia di uomini che un giorno si alzarono in piedi e decisero di non avere padroni o capi a cui rendere per obbligo parte del frutto del loro lavoro, uomini capaci di vivere assieme ad altri uomini in un tacito rispetto di confini molto più netti di quel che si possa immaginare.
È gente che sogna quella che ama Anarchia… un amore di vetro, facile da incrinare se degenerasse in oblio; ecco allora che subitamente si vedrebbe Confusione, regina senza re, bella e di facili costumi.
Ed ecco servito il rovello più cocente, quello che nessuno è riuscito a districare: vivrebbero Anarchia e Confusione l’una senza l’altra? Nel mondo degli astratti, dove tutto è fine a se stesso probabilmente ognuna basterebbe a se stessa… ma noi abitiamo solo il mondo dei normali, dove hanno ragione un po’ tutti e dove tutto è tessuto pazientemente all’insegna di un’infinita ballata di imperfezioni.

Alessandro Basso

Articolo scritto in occasione del secondo incontro ‘Confusione/anarchia’ della rassegna ‘Tra realtà e illusione’ promosso dall’Associazione Zona Franca