Recuperare il vero significato dell’amore

Il tempo presente sembra aver smarrito il vero significato dell’amore, in particolare per quanto riguarda tale dimensione affettiva all’interno della coppia. La crisi di questo sentimento si palesa a coloro che osservano i fenomeni sociali e si occupano di esseri umani in particolare in ambito educativo e nelle professioni d’aiuto. L’amore sembra essersi svuotato di senso in un orizzonte dominato dalla fluidità dei rapporti, dal disimpegno e dalla superficialità che conducono ad instaurare relazioni a partire da una scarsa consapevolezza di sé, della propria storia personale e della propria unicità. A questo si aggiunge la mancata cognizione che le relazioni affettive hanno bisogno di educazione e pazienza per costruirsi, di nutrimento e cura per solidificarsi nel corso del tempo. La relazione di coppia è un’entità in divenire che deve affrontare numerosi compiti evolutivi nel ciclo di vita e che necessita di un costante cammino di conoscenza reciproca, di crescita dei singoli e del Noi che la coppia va a formare. 

Nel conteso contemporaneo, diversamente, sembra essersi smarrita l’importanza imprescindibile di un simile cammino. Questa assenza conduce spesso a criticità che sfociano in atteggiamenti e rivendicazioni talvolta di natura adolescenziale. È possibile far fronte a queste difficoltà di molte coppie anzitutto riconoscendo la complessità del contesto storico, sociale e la precarietà economica del presente ma anche richiamando l’importanza decisiva di un lavoro di conoscenza di sé, crescita personale e coniugale che richiedono l’impegno e la responsabilità di far fiorire la propria umanità. Questo si realizza quando il fondamentale mantenimento e riconoscimento dell’unicità dei singoli si mette a servizio di un progetto comune che dà senso all’esistenza individuale e della coppia

È pertanto necessario recuperare il significato autentico dell’amore. A questo proposito, Viktor Frankl, psichiatra e filosofo viennese, evidenzia tre diversi livelli di amore e di attrazione fra i partner che finiscono per corrispondere a tre diverse modalità di costruzione del rapporto di coppia1. Il primo livello individuato da Frankl è “l’amore fisico” legato alla bellezza esteriore dell’altro che ci colpisce e ci attrae. Questa passione è transitoria e la relazione che si sia fermata solamente a questo livello (che, peraltro, difficilmente conduce a sperimentare una profonda intimità) è destinata a scemare. L’attuale società dei consumi e dei social network fa leva su questa dimensione richiamando l’attenzione esclusivamente sull’attrazione fisica e su una sessualità destituita di ogni elemento di mistero, in nome di un desiderio di godimento destinato a ricercare sempre nuovi incontri. 

Un secondo livello d’amore individuato da Frankl è quello erotico. In questo caso a colpirci non è solo la presenza fisica dell’altro ma alcune sue caratteristiche psicologiche di personalità quali per esempio generosità, sensibilità, capacità d’ascolto, intraprendenza. Se anche questo livello, come il primo, è un ingrediente fondamentale, certamente non è sufficiente a sostenere un progetto di coppia. Invero, ci si potrebbe sempre imbattere in una persona più bella (livello fisico) o più empatica, intelligente, intraprendente (livello erotico). Affinché una coppia possa entrare in una relazione profonda che, pur nutrendosi dell’attrazione fisica e psichica non si attesti solamente ad esse, è necessario approdare ad un terzo grado che Frankl definisce “amore spirituale”. 

Tale configurazione dell’amore rimanda alla capacità più profonda d’amare che solo l’essere umano può realizzare come il più alto dei valori. In questo caso l’Io incontra il Tu nella sua unicità e insostituibilità, nel suo “essere così”. A questo livello può iniziare un progetto di coppia condiviso, basato sulla maturazione interiore, sull’ascolto interpersonale, la conoscenza reciproca verso una germogliante intimità. Di un amore vissuto in questo intenso contatto spirituale beneficeranno, conseguentemente, anche la dimensione fisica e quella erotica. In questo modo di vivere e intendere l’amore l’Io si dona al Tu in maniera libera e responsabile riconoscendo a propria volta l’altro come essere unico, libero e responsabile. L’amore così inteso non conosce il desiderio di potere, non genera dipendenza e non inciampa nella manipolazione affettiva

Nel nostro tempo che veicola il messaggio di un surrogato dell’amore e che si ferma alla dimensione fisica o psichica, nel solco della superficialità e del dongiovannismo, la visione frankliana può costituire un antidoto, non moraleggiante, certo, ma capace di offrire alle relazioni significato, stabilità e progettualità con benefiche conseguenze anche rispetto all’esigenza di coesione e coerenza educativa per la crescita di eventuali figli.

La prospettiva frankliana non è un dato definitivo ma s’inserisce nell’idea della relazione come via di piena umanizzazione: l’amore spirituale ama la libertà dell’altro e desidera il suo bene oltre ogni deriva egoistica. Per giungere a questo è indispensabile educarsi e percepirsi in un cammino interminabile di maturazione individuale e di coppia imparando così ad amare pur sapendo che tale è una conquista mai definitivamente raggiunta. Invero, il senso dell’amore riposa nell’arte di coltivare, riparare e custodire l’unicità del legame ogni nuovo giorno.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE
1. Cfr., V. E. FRANKL, Logoterapia e analisi esistenziale, tr. it. di E. Fizzotti , Morcelliana, Brescia, 2005.

 

[Photo credit Mayur Gala via Unsplash]

 

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Dal film “Vi presento Joe Black”: dalla Morte all’Amore

Il film Vi presento Joe Black del 1998 mette in scena la personificazione della Morte (Brad Pitt) la quale, affidandosi all’integrità umana del facoltoso Bill Parrish (Anthony Hopkins) decide di sperimentare la vita. La breve esperienza umana della Morte, presentata a tutti con il nome improvvisato di Joe Black, sembra voler rappresentare, contro-intuitivamente, l’arco ideale dell’esistenza umana. Quell’intervallo di tempo, che iniziando in una condizione di innocenza, terminerebbe con il compimento del proprio fondamentale scopo di vita. Infatti Joe, all’inizio della sua bizzarra escursione, si atteggia come un bambino che sperimenta il nuovo, gironzolando, per esempio, nella casa di Bill alla ricerca di qualcosa di imprecisato o mostrandosi goloso e distratto durante la riunione aziendale. Inoltre Joe, sebbene a malincuore, deciderà di terminare la sua avventura proprio dopo la realizzazione del suo obiettivo. Solo dopo aver incontrato e vissuto l’amore con passione, infatti, sarà pronto al definitivo addio.

Se vivere cercando di realizzare ciò che sentiamo essere il nostro scopo principale di vita può consentirci di accettare o di dimenticare, positivamente operosi, l’inesorabilità della nostra stessa morte, quale pensiero può accompagnare a vivere il dolore della morte di una persona che amiamo?

Ora, sebbene il film ruoti intorno al tema della morte e sfiori alcune sue diverse declinazioni – accennando alla sua tragicità nella scena dell’incidente del ragazzo di cui la Morte assumerà le sembianze o alla sua drammaticità nella circostanza dell’anziana donna gravemente malata – in realtà il lungo cortometraggio lascia trapelare dallo sfondo la vulnerabilità umana nei confronti del dolore per la perdita di una persona amata. Lo stesso Bill, che rappresenta un’eccellenza dell’agire umano, rimasto vedovo, confida a Joe la quotidianità di una triste e nostalgica mancanza. Inoltre Joe, al momento della sua partenza, non promette alla sua innamorata Susan (Claire Forlani) l’eccezione dell’eternità bensì l’immunità dal dolore della perdita di chi si ama. Ciò sembra quindi suggerirci che l’aspetto più insostenibile della morte non sia propriamente quello di strappare a noi la vita ma quello di strappare a noi gli affetti.

A questo punto possiamo comprendere allora come il tema della morte e il tema dell’amore siano tra loro profondamente legati. Se l’amore dà senso alla vita – «Fare il viaggio e non innamorarsi profondamente, be’, equivale a non vivere» spiega Bill alla figlia minore Susan in una delle primissime scene del film – vuol dire che, di conseguenza, è proprio l’amore a renderci vulnerabili al dolore della morte. In fondo, l’immensa sofferenza che si prova per l’assenza di chi amiamo altro non è che l’intensità di un amore che collassa – innaturalmente – dentro di noi. Quest’ultima considerazione sull’amore ci rivela quindi tutta l’inadeguatezza di una interpretazione conciliante con la morte. La prospettiva che la concepisce come il termine puntuale, sebbene sempre inatteso, del compimento del proprio fondamentale scopo di vita non dà infatti ragione del grande dolore che si prova per la perdita di chi si ama. Se l’amore dà senso alla vita, è anche vero che quello stesso amore ci rende incomprensibile, se non inaccettabile, la stessa morte, rischiando addirittura di far vacillare l’amore come senso della vita. La morte resta quindi un enigma, la cui conclusiva supremazia manifesta a noi stessi l’evidenza della nostra vulnerabilità.

Ecco che, allora, il subire impotenti la perdita di chi amiamo significa attraversare, senza alcuno scudo, la frattura dell’equilibrio affaccendato della nostra ordinarietà. Il nostro dolore, che si dilata come nell’eterno, schiude bruscamente la nostra esigenza di riflessione. E riconoscendoci vulnerabili, in questa sorta di limbo interiore, può forse accompagnarci il pensiero che l’amore che cerchiamo nella nostra vita altro non sia che la naturalezza di un sentimento presente costantemente dentro di noi. L’amore, proprio come la morte, ma in un senso inverso a essa, si trova infatti in noi, sempre, in una condizione di potenzialità. A pensarci, se l’inesorabilità della morte non priva di vigore il nostro impegno a contrastarla nella vita è proprio perché anche l’amore rivendica tutta la sua realizzazione. E il dolore della perdita della persona che amiamo taglia proprio lì: proprio dove l’amore e la morte, dentro di noi, si toccano. Un tocco che resta indecifrabile alla mente ma palpabile al cuore. E in questo dolore dal sapore metamorfico, possiamo forse provare a lasciarci attrarre dall’idea di liberare nell’aria tutto l’amore di cui siamo capaci e vivere il nostro pezzetto di tempo, anche dolcemente distratti, dal sorriso di chi, inconsapevole della nostra profonda ferita, ci passa per un momento accanto.

 

Anna Castagna

 

[Photo credits Luigi Boccardo by Unsplash]

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La scrittura e la vita. Intervista a Chiara Gamberale

Chiara Gamberale, nata a Roma nel 1977, è una scrittrice e conduttrice radiofonica e televisiva. Laureata presso il DAMS di Bologna, ha pubblicato il suo primo romanzo Una vita sottile nel 1999, dando così inizio alla sua carriera professionale che spazia in numerosi ambiti. Tra i numerosi altri libri pubblicati, l’ultimo, Il grembo paterno, ha avuto un successo davvero notevole. Oggi si dedica a un podcast, Gli slegati, prodotto da Chora Media, e alla sua scuola di orientamento creativo, CreaVità. La sua produzione letteraria non è, però, mai ferma dato che a marzo presenterà il suo nuovo libro.

In quest’intervista, parleremo delle relazioni che intercorrono sia tra noi e gli altri che tra noi e il nostro io interiore. Lasciamoci trasportare dalle parole delicate della Gamberale, che riesce a parlare al nostro io interiore e a farci riflettere su ciò che di più complesso c’è da comprendere: la vita. Buona lettura!

 

Andreea Elena GabaraCara Chiara, la sua vita professionale è decisamente poliedrica. Vorrei, infatti, iniziare chiedendole non di un suo libro ma del suo podcast, Gli slegati. Chi sono gli slegati a cui dà voce?

Chiara Gamberale – Gli Slegati li riconosci con lo sguardo, sono persone che non accettano soluzioni precostituite. Sentono, anzi sentiamo, la vita con cuore, ma la viviamo con la testa. Sono coraggiosi o impauriti, non capisci dove inizi una e finisca l’altra. Sono persone che all’amore chiedono troppo o troppo poco.

AEG – Le puntate del podcast indubbiamente parlano a tutti noi di tutti noi. Come possiamo convivere con il dualismo che ci caratterizza in quanto slegati, ovvero il contrasto tra voglia e paura dell’altro e la tendenza a slegare e allo stesso tempo legare relazioni?

Chiara Gamberale – Potremmo affidarci alla Preghiera degli Alcolisti Anonimi: Dio aiutami a cambiare quello che di me posso cambiare e ad accettare quello che non posso cambiare. Credo fermamente nell’imperativo greco del conosci te stesso… Chi non s’inganna non inganna. Qualsiasi sia il suo fisico emotivo e il tipo di relazione dove quel fisico può crescere, ma senza farlo apposta…

AEG – Viviamo in una società in cui i legami affettivi, a differenza del passato, tendono ad avere breve durata. Per usare un’espressione di Zygmunt Bauman, gli amori sono tendenzialmente liquidi e ci scappano dalle mani, impedendoci di creare relazioni durature. Secondo la sua personale opinione, come mai avere una relazione duratura oggi è così difficile?

Chiara Gamberale – Provo a rifletterci ne Il grembo paterno (Feltrinelli 2021) e ci ho messo quasi duecento pagine per farlo… È una questione troppo complessa per risponderle in poche righe, ma in estrema sintesi credo che oggi siamo più liberi di sentire solo con il nostro cuore e pensare solo con la nostra testa, e questa libertà può rischiare di confonderci anziché orientarci.

AEG – In ogni puntata chiede se slegati si nasce o si diventa. Lei come risponderebbe a questa domanda?

Chiara Gamberale – Secondo me gli Slegati si riconoscono da sempre, dalle medie, dal liceo. Con questo podcast, però, non voglio insegnare niente, né dare risposte, solo incoraggiare le persone a provare a capire chi siamo davvero.

AEG – La famiglia è un tema fondamentale sia del podcast che del suo romanzo Il grembo paterno. Concentriamoci sulla nascita di un/a figlio/a: come affrontare l’arrivo di un tu che si contrappone all’io e al contempo lo riflette?

Chiara Gamberale – Io con l’io ci ho giocato in tutti i romanzi; è sempre stato un contrapporre la vita reale alla fantasia. L’unico modo per non cadere nella tentazione di un tu che si mangi tutto l’io è, forse, restare in contatto. Se restiamo in contatto con noi stessi e con i nostri figli forse potremmo farcela.

AEG – Lei dà molta importanza all’io bambino che ciascuno di noi percepisce in sé e che, secondo lei, ha un ruolo cruciale in qualsiasi relazione. A questo io si accompagna la voce bambina a cui tutti noi dobbiamo dare ascolto, la voce che dà vita all’arte. Come riscoprire questa voce e permetterle di farsi spazio nella nostra mente e nella nostra vita?

Chiara Gamberale – Durante una delle lezioni di CreaVità, la mia scuola di orientamento creativo a cui abbiamo messo le ali quest’anno, propongo un gioco: far scrivere alla bambina o al bambino che siamo stati una lettera indirizzata a qualcuno con cui sentiamo di avere un dialogo ancora in sospeso, qualcosa da dire e sentire. Questa immersione nel Laggiù dà dei risultati potentissimi di cui all’inizio neppure io mi ero resa conto.

AEG – Tra le cose a cui ha dato vita per far riscoprire alle persone questa voce c’è CreaVità, Percorso di Orientamento Creativo. Nel presentare questo spazio in un programma televisivo, lei ha spiegato ai giovani che l’assenza di stimoli e il vuoto sono necessari per capire chi si è. Dato che viviamo in un mondo di sovrastimolazione, cosa possiamo fare per isolarci dagli stimoli continui e tornare in contatto con la nostra persona più profonda?

Chiara Gamberale – Scrivere quella lettera, per esempio. Ritrovare il privilegio della noia, del tempo lento. Credo nel potere dell’arte, a me la letteratura ha salvato la vita; attraversare se stessi usando musica, libri e corpo mi pare un primo importantissimo passo per ri-sentirsi parte di qualcosa.

AEG – Visto che stiamo parlando di mancanza e assenza, mi fa piacere ricordare il suo libro Qualcosa (Longanesi, 2017), favola morale in cui la protagonista Qualcosa di Troppo, che è sempre stata troppo in tutto, si trova di fronte a una mancanza, precisamente la morte della madre. Questo aiuterà Qualcosa di Troppo ad affrontare i limiti e le fragilità. Le mancanze e i limiti sono, quindi, essenziali nella nostra vita?

Chiara Gamberale – Senza dubbio ci permettono di avere uno sguardo trasversale, nuovo. Dal vuoto e dall’impossibilità nascono le idee, quindi i passaggi segreti. Se io non fossi stata una bambina con dei limiti non avrei mai iniziato a scrivere.

AEG – L’arte, che ha descritto come una missione, uno strumento e anche una possibilità di terapia, aiuta a conoscere e affrontare quello che non si ha, cioè i nostri limiti?

Chiara Gamberale – Esattamente. Grazie ai passaggi segreti di cui ho parlato prima, lungo quel tragitto, sento che l’arte ha la sua migliore possibilità di realizzazione. Da lì in poi è tutta una terapia a forma di abbraccio reciproco, e viceversa.

AEG – Immagino che lei sia particolarmente d’accordo con Simone Weil quando scrive che «dentro ogni limite abita un Dio». Cosa significa per lei questa frase?

Chiara Gamberale – Che ci innamoriamo dell’umano e poi invece, da noi stessi, pretendiamo il divino; crediamo anzi che il divino abbia a che fare con l’assenza di limiti, ma non è così. Invito tutti e me stessa ad abbracciarli e coccolarli, i limiti, per le possibilità impensabili che ci offrono.

AEG – Come ultima cosa, dato che abbiamo varcato la soglia del mondo della filosofia, citando Simone Weil, ci tengo a chiederle cosa sia per lei la filosofia e se abbia influenzato la sua vita professionale.

Chiara Gamberale – Sono da sempre affascinata dalla filosofia, ma alla letteratura ho dedicato la mia esistenza. Ricorda cosa sosteneva Gramsci? Che la filosofia mette le mutande al mondo, la letteratura gliele toglie…

 

Andreea Elena Gabara

[Photo credit Feltrinelli]

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Visioni dell’amore: il confine dei corpi tra Platone, Klimt e Munch

Parlare di amore è complicato eppure lo si è sempre fatto; tra le discipline che più hanno contribuito alla discussione sull’amore troviamo l’arte e la filosofia. In filosofia, già con Platone, leggiamo spiegazioni su questo sentimento, soprattutto attraverso il mito, a cui spesso ricorre il filosofo ateniese. Tra i miti troviamo quello dell’androgino, raccontato da Aristofane nel Simposio platonico.

Chi è l’androgino? In origine esistevano tre generi, secondo questo mito: quello femminile, quello maschile e quello androgino, che aveva sia caratteristiche maschili che femminili. Gli androgini erano figli della luna, figure rotonde, con dorso e fianchi formanti un cerchio, quattro mani, quattro gambe e sopra il collo due facce simili in tutto e parti della stessa testa. Gli androgini tentarono di scalare il cielo per assalire gli dèi e, a causa di queste intenzioni superbe e della loro forza, Zeus decise di separarli in due così da indebolirli. Ciascuna metà, però, aveva nostalgia dell’altra e la cercava. Così sarebbe nato l’amore: una ricerca della metà perduta. Una ricerca, però, vana perché ciò che le metà desidererebbero sarebbe il ritorno all’unità originaria, che non sarà mai possibile. Ed è proprio per questo che, quando si ama, l’anima dell’uno desidera dell’altro qualcosa che non sa esprimere, eppure «vaticina ciò che desidera e lo manifesta per enigmi» (Platone, Simposio, 191d). L’amore è quindi il desiderio dell’intero, della fusione con l’altro, dell’androgino.

Come fosse fisicamente l’androgino è ben spiegato da Platone e numerose sono le sue rappresentazioni artistiche. Quello che vediamo in queste ultime è l’indefinitezza dei confini dei due corpi: essendo uno solo l’androgino, non si capiva dove finisse un corpo e dove l’altro, dove finisse la parte maschile e dove quella femminile. I confini sono poco chiari, i due corpi sono fusi, non divisi.

L’indefinitezza dei corpi è come quella che si ha in un abbraccio. Se pensiamo a L’abbraccio o al Compimento (1905-1909) o a Il bacio (1907-1908) di Gustav Klimt, notiamo che i confini tra i corpi degli amanti sono come quelli descritti da Platone: incerti, evanescenti e labili. Nonostante, attraverso piccoli dettagli visivi, siano rese evidenti le differenze tra il mondo dell’uno e dell’altro amante, viene rappresentata la loro fusione, una fusione in un luogo astratto mostrata attraverso da un abbraccio etereo e tenero. Lei, con gli occhi chiusi e un volto estatico, è simbolo di un totale abbandono all’unione.

Anche Munch rappresenta un bacio tra due amanti, ma ciò che trasmette è totalmente diverso. Egli non ha intenzione di mostrare la tenerezza quanto, invece, l’angoscia. Osservando la sua opera Il bacio (1897), lo spettatore non vorrebbe immedesimarsi nei due amanti ma piuttosto allontanarsi da essi, scappare attraverso la finestra che fa da sfondo e che illumina il quadro. Quello che vede è sì una fusione, ma una fusione inquietante. Strindberg, di fronte all’opera di Munch, scrisse che la coppia rappresenta «una fusione di due esseri umani, dei quali il più piccolo, nelle sembianze di una carpa, sembra pronto per divorare il più grande» (S.W. Cordulack, Edvard Munch and the Physiology of Simbolismo, 2022). Questa è anche un’estasi ma «sembrano un orecchio abnorme… sordo nell’estasi del sangue» (ibidem).

I confini di questi due amanti sono davvero difficili da riconoscere perché l’amore, per Munch, rappresenta la perdita della propria identità e della propria persona, il divenire un’unica forma indefinita. Se amare significa perdere la chiarezza di sé, però, per Munch l’amore non può che essere qualcosa da cui fuggire.

L’amore, quindi, non è solo unione di menti, ma può esserlo anche di corpi. I confini tra due persone svaniscono e diventano quasi inesistenti di fronte alla volontà, e forse alla necessità, di questa fusione. I confini e i conflitti dei due corpi creano armonia, esattamente l’armonia dell’androgino, nell’opera di Klimt, e creano, invece, inquietudine nell’opera di Munch. Platone, Klimt e Munch ci presentano visioni dell’amore; noi dobbiamo capirne limiti e possibilità, per applicare la riflessione alla quotidianità, per trovare la nostra prospettiva. Dobbiamo confrontarci con le visioni altrui, per cercare o creare la nostra, nell’abisso delle emozioni.

 

Andreea Gabara

 

[Photo credit Marco Bianchetti via Unsplash]

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Natalia Ginzburg e le piccole grandi virtù che ci permettono di essere

 

Le virtù sono, secondo Aristotele, delle disposizioni d’animo che si trovano in noi esseri umani in potenza, e vanno sviluppate mediante abitudini ed esempi. Esse sono come abiti che impariamo a indossare correttamente grazie all’esercizio, ci permettono di vivere e di comportarci in maniera razionale – poiché, naturalmente, siamo “animali razionali”, che si realizzano e raggiungono la felicità solo esercitando la propria ragione.
Lo Stagirita distingueva tra due tipi di virtù: quelle etiche, che permettono alla ragione di dominare gli istinti e di scegliere, fra due estremi, il “giusto mezzo”, e quelle dianoetiche, che consistono invece nell’esercizio stesso della ragione. Queste ultime finiscono senza dubbio per avere un’importanza maggiore: sono la saggezza, che ha una connotazione pratica, e la sapienza, ossia quella conoscenza senza fine alcuno che eleva l’individuo.

Ma facciamo un grande balzo in avanti fino a Natalia Ginzburg, scrittrice imprescindibile per la letteratura contemporanea italiana e mondiale – osannata e citata, di recente, anche dalla scrittrice irlandese Sally Rooney.
Quali legami (e differenze) ci sono tra l’etica aristotelica e quella di Natalia Ginzburg?
Se conoscete l’autrice in questione anche solo un po’, non può non venirvi in mente Le picco le virtù (Einaudi, 1962): una raccolta di undici saggi autobiografici, un po’ racconti e un po’ memoirs; per lo più brevi, incisivi, che arrivano dritti al cuore e lo bucano, metaforicamente parlando. In essi Ginzburg racconta esperienze estremamente personali, dolorose, tenere, disincantate, che riescono a offrire uno sguardo universale, puntuale e compassionevole, su tutto ciò che più conta nelle nostre piccole grandi esistenze di esseri umani. Parla anche di relazioni e affetti, e, ripercorrendo le tappe del libro, riusciamo a capire quante e quanto importanti siano per lei le virtù che ne emergono: amicizia, affetto incondizionato, fedeltà ai nostri cari, resilienza, umiltà.
Virtù “grandi”, anzi monumentali. E quali sono, allora, le piccole virtù cui fa riferimento?

Nell’ultimo memoir che dà il titolo all’opera, Ginzburg, con stile scarno e grezzo, a tratti brusco, non sempre uniforme ma caldo, veritiero, accogliente, racconta quali sono le virtù che andrebbero insegnate ai propri figli. Delle buone disposizioni d’animo che andrebbero trasmesse e tramandate, cucite su di loro e con loro, usando soprattutto un filo invisibile e lunghissimo, facendo attenzione a non farlo divenire mai e poi mai guinzaglio, strumento di controllo. Un filo leggero ma solido per imbastire quell’abito di cui parlava anche Aristotele, tanti secoli prima di lei.
Un genitore, dice la Ginzburg, dovrebbe insegnare non le piccole, bensì le grandi virtù: perché le grandi possono contenere le piccole, perché le piccole sono più comuni e completano le grandi, esistono e giovano se insegnate insieme alle grandi. Una grande virtù è, ad esempio, l’indifferenza nei confronti del denaro, che alimenta la generosità e rende più indolore la separazione dal denaro stesso. E ancora, sempre sulle grandi virtù: «non la prudenza, ma il coraggio e lo sprezzo del pericolo; non l’astuzia, ma la schiettezza e l’amore alla verità; […] non il desiderio del successo, ma il desiderio di essere e di sapere» (N: Ginzburg, Le piccole virtù, 1962). Non proprio un giusto mezzo aristotelico, a quanto pare, ma anzi dei moniti che scaturiscono da un impeto, perché, secondo la scrittrice, mentre le piccole virtù provengono da un istinto difensivo, le grandi invece «sgorgano da un istinto in cui la ragione non parla, […] a cui mi sarebbe difficile dare un nome. E il meglio di noi è in quel muto istinto: e non nel nostro istinto di difesa, che […] disserta con la voce della ragione» (ibidem). Ancora una volta, pare esserci distanza, tra la sua etica e quella aristotelica.

E allora che cosa lega questi due pensatori? L’idea che le virtù vadano imparate gradualmente, procedendo a tentoni, attraverso una costante imitazione. I nostri figli dovrebbero guardarci, prenderci a esempio – ma non si tratta, secondo Ginzburg, di un’imitazione “a nostra immagine e somiglianza”. Ogni figlio va lasciato essere, non va indirizzato, né va accelerato o forzato quel naturale processo che gli permette di trovare la sua vocazione, che è poi espressione del suo amore per la vita. Anche il figlio che appare come il più pigro e intorpidito, potrebbe invece essere «semplicemente in stato di attesa» (ibidem).
L’etica di Ginzburg non segue tanto la ragione quanto la praticità e la schiettezza sentimentale: i primi virtuosi dobbiamo essere noi, predisponendoci ad amare i nostri figli in quanto esseri singoli e separati da noi: «essi debbono sapere che non ci appartengono, ma noi sì apparteniamo a loro, sempre disponibili, presenti» (ibidem).
La virtù del lasciarli essere presuppone un nostro lasciarci essere: avere noi stessi una nostra vocazione, coltivarla senza mai abbandonarla, o finiremo per aggrapparci «ai nostri figli come un naufrago al tronco dell’albero» (ibidem), pretendendo da loro ciò che solo la nostra vocazione può darci. Ecco l’esempio virtuoso per eccellenza, che i nostri figli dovrebbero imparare a indossare: che il legame affettivo tra noi e loro è imprescindibile e fondamentale, ma non è l’unica cosa che c’è, né deve esserlo mai.

 

Francesca Plesnizer

[immagine in copertina tratta da Pixabay]

 

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Un mondo senza amore: la doppia tirannia in The Lobster

Guardare The Lobster, film del 2015 del regista greco Yorgos Lanthimos, è un’esperienza quasi surreale. Per tutti i 118 minuti della pellicola, lo spettatore e la spettatrice si trovano quasi costantemente nella scomoda situazione di non sapere se ridere o inorridire. È il risultato di un film davvero ben pensato, oltre che ben realizzato – ma qui non ci soffermeremo sulla fotografia sapientemente algida e sui (rari) movimenti di macchina –, esattamente quel genere di prodotto artistico capace di sollevare degli interrogativi nello stesso momento in cui intrattiene.

La realtà fantascientifica in cui si muovono i protagonisti di The Lobster, primo su tutti David (Colin Farrell), non potrebbe essere più realistica: un hotel dal sapore elegante e antico nella prima parte del film, una fitta foresta nella seconda. Due scenari evidentemente contrapposti, se non fosse che, oltre alla semplice apparenza, risultano entrambi sfondi di una stessa tirannia: quella in cui l’amore è bandito. Nella società in cui vive David infatti è vietato essere single: non appena si perde il compagno o la compagna, si viene “deportati” in dei centri specifici per trovare un sostituto e ricostituire la coppia; se non si riesce nell’intento entro 45 giorni, l’epilogo è la trasformazione in un animale. Scegliere quale tipo di animale è una delle poche concessioni al libero arbitrio previste in questi centri, dove la ricerca di un compagno non ha a che fare con l’amore ma con dei calcoli di affinità degni delle becere promozioni sui cellulari dei primi anni Duemila. Persino in una società in cui è vietato essere soli, dunque, la complessa alchimia dell’amore passa in secondo piano e ciò che conta è la performance della coppia, molto più della sua felicità. Una società repressa in cui non ci si può masturbare, né uscire dal binomio etero o omosessuale, e nemmeno portare il 44,5 come numero di scarpe – come nel caso di David – ma nemmeno avere tratti e caratteristiche dissonanti rispetto a quelle del proprio partner: bisogna essere compatibili in tutto e per tutto. Ed è proprio dinanzi a queste caratteristiche che in The Lobster sembra di veder scomparire l’individuo nella sua unicità, tanto è vero che, a parte David, non ci sono dati sapere i nomi degli altri personaggi, che diventano “donna miope”, “uomo con la zeppola”, “ragazza con l’epistassi” e così via.

Ma non esistono mezze misure nemmeno là dove si millanta la libertà, ovvero nella foresta dove vivono i solitari: un regno primordiale in cui nonostante le difficili condizioni di vita è proibita la solidarietà e – peggio ancora – l’amore. In fuga dall’hotel, David si ritrova in una seconda tirannia, non meno insensata, crudele e punitiva della prima. Due mondi agli antipodi: da un lato la demonizzazione della vita da single, dall’altra quella della vita in coppia. È l’estremizzazione di una situazione che vede l’individuo contemporaneo strattonato da una parte all’altra, tra la ricerca dell’amore a ogni costo – o meglio, la costruzione di una coppia “modello” a prova di social – e la tendenza a non accontentarsi mai, a rinunciare alla ricerca per difendere un ego che sembra sempre meno disposto a spartire le proprie necessità con un altro individuo, o magari a rifiutare la ricerca per la paura del rifiuto. In altre parole un individuo sempre più fragile dinanzi a una società contemporanea sempre più feroce, sempre pronta a inquadrare in degli schemi precostruiti degli esseri umani modello.

Per uno scherzo del destino, è proprio nella foresta dei solitari che David sembra trovare il vero amore, una donna miope interpretata da Rachel Weisz con la quale, dopo mille peripezie, riesce di nuovo a fuggire. E proprio quando The Lobster sembra arrivare a una morale, a un barlume di speranza sulla visione del regista a proposito delle relazioni amorose, ecco che le ultime immagini ci lasciano nuovamente storditi e dinanzi al finale aperto ci si aprono innumerevoli interrogativi. L’amore è davvero una questione di calcolo e compatibilità? È fabbricabile con una serie di falsità e ipocrisie “a fin di bene”? Esiste davvero il – cosiddetto – vero amore? Il film sembra convincerci per tutto il tempo del fatto che la vita di coppia è una pura costruzione sociale fatta di regole scritte e altre non scritte, ma solcate nel nostro DNA morale e sociale, e che quindi la felicità nella vita di coppia è pura utopia. Voi cosa ci vedete in quel finale?

 

Giorgia Favero

 

[immagine in copertina tratta dal film The Lobster]

la chiave di sophia 2022

Alterità e perdono: i rapporti duraturi seguendo Recalcati

Quotidianamente constatiamo di vivere in una società frenetica, che corre incessantemente senza permettere alcun momento di pausa. In una società così caratterizzata, chiediamoci come risulta essere il rapporto con l’alterità, con l’Altro, che si inserisce nel tempo che abbiamo a disposizione per correre e, tendenzialmente, ci porta a rallentare il nostro incedere. In questa realtà, le relazioni sono sempre più instabili ed effimere, nel senso etimologico della parola poiché durano poco, quasi un giorno solo (epì eméra = per un giorno). Sono relazioni liquide, come direbbe Zygmunt Bauman, i cui legami e vincoli sono fragili, deboli e incerti non solo nel domani, ma anche nel presente. E ciò a cosa può essere dovuto se non alla nostra voglia di correre per soddisfare immediatamente tutti i nostri desideri, senza alcuna attesa? Al per sempre, quindi, non viene dato modo di esistere e Massimo Recalcati (Milano, 1959) se ne rende conto, come racconta in una sua intervista:

«L’amore non è destinato a durare ma a spegnersi in breve tempo. Il suo doping ha il fiato corto. Le coppie non credono più al matrimonio, al vincolo del legame, si disfano più facilmente. Il nostro tempo è il tempo, come direbbe Bauman, degli amori liquidi.»

Soffermiamoci sulla relazione più totalizzante, sulla cui durata, però, noi non abbiamo più tempo di interrogarci, poiché ci risulta naturale pensare all’amore come qualcosa di passeggero. Eppure esiste la possibilità di un amore duraturo, che in certi casi è anche il risultato di un lavoro sul perdonare l’altro, sforzo che si nasconde dietro a questo sentimento malleabile. Se la società frenetica tende a plasmare l’amore con le categorie che identificano la realtà, cioè incertezza, mutamento continuo e fugacità, noi, con la riflessione, possiamo esprimerci su un lavoro lento e faticoso, un lavoro che richiede tempo e impegno.

«L’amore eterno non esiste. Eppure esiste la promessa, l’aspirazione degli amanti a rendere il loro amore eterno.»

Il per sempre, dunque, non ci è garantito: sta a noi renderlo realtà e volerlo fare non è mostrarci immaturi bensì trasformare l’eventualità dell’incontro con l’altra persona nella continuità di una relazione. Per far ciò potremmo dover perdonare, ma perchè farlo?
Nel momento in cui l’Altro ci volta le spalle, la sua presenza subisce un’eclissi traumatica: ci dobbiamo confrontare con un vuoto che l’Altro ha creato nella nostra vita e in noi, come persona. La sua assenza è una perdita, senza dubbio, ma non una perdita irreversibile: per questo sarà il soggetto a doversi chiedere, nel caso in cui l’oggetto del perdono voglia riprendere il discorso amoroso che lui stesso ha frantumato, se decretare una fine definitiva dell’amore o richiamare l’altro alla presenza.

«Sono io a decidere se la sua immagine deve morire o no.»

Dovrà chiedersi se perdonare, se intraprendere un lavoro sulla sua imperfezione, non sull’imperfezione dell’Altro, un lavoro che permette di giungere faccia a faccia con le contraddizioni e i contrasti quotidiani della nostra vita. Il perdono non potrà cancellare la ferita, e nemmeno ricomporre il vaso, per ridargli la forma precedente la caduta, ma potrebbe permettere di amare l’altro nella sua più radicale libertà, che aveva offeso la promessa e frantumato l’immagine inedita della realtà. Il rapporto con l’Altro non sarà lo stesso di prima, perché la nostra percezione dell’Altro sarà cambiata, dato che lui ha subito una metamorfosi: da anima totalizzante si è eclissato con il tradimento e ora tenta di riaffermarsi nella nostra vita.

In una società così dedita all’hic et nunc, al qui ed ora, permettiamoci di rischiare per una promessa, di concederci di perdonare, se sentiamo che la felicità si trovi al di là del correre incessante. Concediamoci di tornare sui nostri passi, concediamoci un gesto gratuito di perdono per essere liberi di ricercare rapporti duraturi, in un’epoca che ci inonda di sensazioni effimere. Permettiamoci di vivere la fiducia in un mondo nuovo, creato dall’unione dell’Io e dell’Altro.

Andreea Gabara

[Photo credit Alex Schute via Unsplash]

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Brevemente, sull’amore

Esiste un ormone nel corpo umano definito “ormone dell’amore”. Si tratta dell’ossitocina, un ammasso di amminoacidi che permette di amplificare le esperienze emozionali che viviamo, riempendole di entusiasmo e trepidazione.

In realtà sarebbe più corretto definire questa componente dell’individuo, come “ormone dell’innamoramento”, perché è proprio questa fase dei rapporti interpersonali, che suscita fervore e passione. Si tratta di un periodo che può manifestarsi più volte nell’esistenza di una persona, ma che può durare pochi mesi o, nelle situazioni che hanno uno sviluppo più lento, fino a tre anni. La differenza tra innamorarsi e amare risiede, dunque, in questo: lasciarsi travolgere dall’istinto e, al contrario, decidere di stare accanto ad una persona. Due fasi spesso accomunate, ma in realtà opposte, che presuppongono due tipi diversi di predisposizione, che possono susseguirsi, ma mai sostituirsi.

Ci troviamo nell’epoca in cui esse vengono confuse, spesso abbandonando la nave poco prima che ci si possa ritrovare nello stadio della responsabilità, della scelta, dell’amore. Il confronto – talvolta scontro – che Hegel poneva alla base della crescita dell’Io attraverso l’altro, viene considerato come superfluo, come un qualcosa di nefasto da tenere debitamente lontano. Ci si rifugia in considerazioni, quali: “la vita è già difficile, perché dover lottare anche per amore?” Quasi come se l’amore fosse un residuo, una sorta di tertium non datur dopo il lavoro e gli impegni personali; chi me la fa fare?

La risposta la si potrebbe trovare ne L’amore ai tempi del colera, in Jane Eyre, o più semplicemente parlando con i propri nonni o i propri genitori. Tuttavia il confronto ha lasciato spazio all’individualismo, in base al quale ognuno sa badare a sé e nessuno ha bisogno di nessuno. La conseguenza non è un mondo più perfettibile, bensì una vera e propria castrazione di emozioni. Ci siamo resi fautori di strumenti e di istituti che – a guardare indietro – viene da chiedersi come si potesse vivere senza. Si pensi al divorzio, all’aborto, alla possibilità di cambiare città in pochissimo tempo; forse, però, ci siamo al contempo dimenticati della parte “positiva” della vita, laddove il termine in questione fa riferimento alla sua naturale etimologia e che – dal latino ponĕre, ci regala il significato di “porre”, “fare”, “aggiungere”. Ci siamo dimenticati di come si ama. Sono forse le priorità ad essere cambiate?

Galimberti, eccelso pensatore e scrittore, parla di questa come dell’ “epoca della revocabilità”; un’epoca in cui si «sviluppa un concetto di libertà come assoluta revocabilità di tutte le scelte, che non implicano più impegni e conseguenze perché tutto, dalla scelta di un amico a quella di un amante, dalla scelta di una gravidanza o di una carriera, può essere suscettibile di una cancellazione immediata, non appena si offrono opportunità all’apparenza più gratificanti.» Ed allora risulta più proficuo vivere il momento, cullarsi nel “qui ed ora”.
Nulla quaestio se, nel rapportarsi in tal modo ad un’altra persona, si comunica in modo diretto e trasparente questo mood prescelto di vita. Ma cosa succede se si ingenerano aspettative, se offuscati, magari da quell’ossitocina che spesso annebbia le menti, non si rende edotto l’altro, del proprio non essere capaci di amare, cioè di “desiderare in modo totale” (dal sanscrito “kama”)?

Il mondo che stiamo costruendo risulta sempre più caratterizzato da un’egosintonia dell’anaffettività, in cui ognuno trova quiete solo nel rapporto con sé stesso, nel prefiggersi continui obiettivi di formazione o di lavoro, tralasciando il lato della medaglia che attiene all’investimento nei rapporti umani. La creazione di un “nido” viene vista come anacronistica, quasi come un affronto alle tante battaglie femministe – a partire dal 1800 con il movimento delle Suffragette – verso la conquista del diritto di voto, di condizioni migliori nei luoghi di lavoro, dell’accesso all’università, dell’uguaglianza uomo – donna. Ma oggigiorno siamo molto distanti da quello che, successivamente, anche nel 1900, Simone de Beauvoir sosteneva e creava, in una Francia colpita dalla seconda guerra mondiale, iniziando dalle menti dei suoi studenti, da un mondo accademico che – nonostante le morti e la disperazione – aveva sete di rinnovamento. Una libération des femmes che chiedeva di aggiungere, di ottenere, di possedere un valore concreto all’interno di una società ancora troppo maschilista e patriarcale per poterne accettare le regole.

Oggi si chiede di poter togliere, abdicare, venir meno. L’ideale è stato per lo più sostituito da un programma giornaliero personale, che non contempla l’altro. In questo contesto, delineare un sentimento in fattezze non evanescenti, diviene un’impresa ardua, che confligge col disperato bisogno di essere protagonisti, di rivestire sempre il ruolo di “figli”, in un mondo con sempre meno genitori.

 

Chiara Savazzi

 

Classe ’93. Laureata in giurisprudenza a Bologna, è dottoranda di ricerca in diritto penale a Catanzaro, dove si occupa principalmente di neuroscienze e imputabilità. Ha un master in diritto di famiglia ed è Coordinatrice Genitoriale, perchè crede che le parole – ancor prima dei tribunali – possano molto. Pubblica su svariate riviste giuridiche e non (Pacini Giuridica, Sole 24 Ore, Il Mulino, ecc), su opere collettanee e su libri di diritto. È specializzanda in criminologia investigativa.
Il suo amore per la scrittura nasce a sei anni e mezzo con la prima poesia “Il sole ride” e, da allora, scrive sempre i suoi contributi a mano, prima di ricopiarli al computer.
Il suo cuore è costantemente diviso: fra due città; fra cane e gatto; fra diritto e letteratura. Ama: i viaggi in solitaria, le persone leali, i mercatini vintage.

 

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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Tre platonici e una gamba. Vero Amore™ e poliamore

In una celebre scena di Tre uomini e una gamba, veniva raccontata abbastanza fedelmente una parte della concezione dell’amore che compare nel Simposio platonico: ciascuno di noi è come la metà di una mela alla ricerca della sua altra metà, per potersi poi completare e conquistare la più perfetta felicità. Ancora oggi, la nostra società vive le conseguenze di questo settaggio: sicuramente, conosci almeno una persona convinta che il Vero Amore è quello monogamo, esclusivo e unico (magari esclusivamente tra un uomo e una donna). Amare significherebbe trovare finalmente “la persona giusta”: o stai in coppia o non stai davvero con qualcuno – anzi, nemmeno esisti fino in fondo, dato che resti incompiuto. Si definisce così non soltanto un Amore Ideale, ma anche un Ideale d’Amore.

Forse oggi Platone verrebbe per questo facilmente collocato – a torto o a ragione, non posso qui esprimermi – tra i sostenitori della mononormatività, un’estrema versione dell’amatonormatività: la convinzione – esplicita o implicita – che non solo esiste un unico modo di amare davvero, ma anche che – stringi stringi – le relazioni d’amore rappresentano il culmine dei rapporti umani, come se le altre non fossero Vere Relazioni. Questo perché le relazioni d’amore sono concepite secondo una rigida “scala mobile”, finalizzata al macro-obiettivo di accasarsi e riprodursi e strutturata secondo step ben precisi:

approccio → corteggiamento → coppia ufficiale → progetti comuni → fidanzamento → convivenza → matrimonio → figli → acquisto di beni famigliari (→ Felicità).

 I “mononormativi”  difendono la clausola per cui tutto ciò deve essere fatto esclusivamente con un’unica persona: la propria “dolce metà”1.

A questo punto, Aristotele potrebbe forse candidarsi a diventare l’idolo filosofico dell’insieme di creator, attivisti e influencer che sta cercando di far aprire gli occhi sul fatto che amare si dice e – soprattutto – si fa in molti modi: non esiste un solo modo di stare insieme. Niente Vero Amore. È questa l’idea fondamentale di chi per esempio difende le ragioni e – prima ancora – l’esistenza del poliamore: uno stile relazionale per cui è possibile – con il desiderio e il consenso di tutte le persone coinvolte – avere più relazioni sentimentali e sessuali (o romantiche, asessuali, ecc.) in contemporanea e alla luce del sole. Si può insomma amare più di una persona, non solo nelle proprie fantasie, ma nella propria vita quotidiana: per esempio, si può convivere anche con più di un partner.

Quali che siano le tue preferenze e tradizioni amorose di riferimento, il poliamore va preso sul serio, anche in chiave strettamente filosofica: non solo perché esso sollecita la decostruzione prima e la ricostruzione poi di valori e principii dati per scontati (già non è poco!), ma anche perché esprime tanto 1) una diversa visione della realtà delle relazioni quanto 2) un rinnovato inventario dei beni relazionali.

1) Nel “poliuniverso”, le relazioni hanno una consistenza propria, irriducibile alla stoffa delle “cose”, sostanze prestabilite e fisse: conta quel particolare campo di interazioni, non un modello di rapporto dato (stile “moglie + marito”), ossia una Super-Cosa rispetto a cui ogni volta doversi commisurare – facendo inevitabilmente brutta figura e mortificandosi. Scompare così l’idea che se non trovi l’altra metà della mela, o nemmeno desideri niente di simile, allora sei difettoso e colpevole: la realtà delle relazioni amorose dipende dalle dinamiche interne di quei rapporti stessi, in cui le persone stesse vengono (tras)formate, non da un termine di confronto esteriore, magari idealizzato, tale che gli individui sono chiamati a occupare un ruolo predefinito.

2) Il menu del “polimondo” è molto più ricco del mondo cosiddetto normale e riconosce l’esistenza di entità come (un piccolo assaggio):
• la compersione: la sensazione di gioia per la felicità che i propri partner provano anche con altri partner;
• la polecola: una “molecola” relazionale tra persone che possono intrattenere rapporti reciproci di diversi tipi;
• il metapartner: il partner del proprio partner.

Sia chiaro: nemmeno nel poliamore è tutto rose e fiori. Intanto perché sono i rapporti umani a non esserlo; poi perché una società mono-impostata non agevola certo le poli-cose; infine perché ogni specifico orientamento o stile di vita ha comunque i suoi “lati oscuri”. Inoltre, non è che il poliamore diventa la nuova normalità e sanità al posto della monogamia: il punto è piuttosto decidere liberamente e consapevolmente, senza considerare scelte diverse come immature, promiscue, aberranti e minacciose, se non patologiche.

Insomma, non c’è l’obbligo di vivere l’amore pluralisticamente, ma forse è ora quantomeno di chiedersi: pensare l’amore universalisticamente è l’unica via percorribile, o la migliore? Io credo di no: e tu? Chissà che cosa racconterebbe una web-serie intitolata Tre aristotelici e una gamba

 

Giacomo Pezzano

 

NOTE
1. Il punto di partenza migliore in lingua italiana per cominciare a esplorare è la guida ebook di D. Piras, Oltre la coppia monogama: poliamore e fluidità relazionale, 2021, inserita nel progetto https://www.miosessuologo.it/.

[Photo credit Tim Marshall via Unsplash]

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Quel quotidiano, “feriale” sentimento: l’amore in Wislawa Szymborska

Era il 1996, Wislawa Szymborska riceveva il premio Nobel per la letteratura, con stupore e sgomento di molti che si chiedevano chi fosse la poetessa polacca dal nome così difficile. Nata a Kòrnik nel 1923 trascorse la maggior parte della propria vita a Cracovia, dove studiò e mise radici fino alla morte(2012). Oggi, dopo più di vent’anni, la Szymborska è amata in molte nazioni, compresa l’Italia, tanto che i suoi versi sono riusciti a raggiungere anche parte della popolazione comune, viaggiando attraverso un decennio di fama sempre crescente. Disillusione, esperienza bellica, critica sociale e non ultimo l’amore sono i temi prediletti dalla Szymborska1, la quale con sguardo ironico e umoristico descrive sentimenti e scene di vita quotidiana, molto vicine al lettore, il quale facilmente riesce ad identificarsi nei protagonisti dei suoi componimenti.

Il tema dell’amore, in particolare, ricopre un ruolo fondamentale nella poesia dell’autrice, specialmente l’amore vissuto nella sua quotidianità, tendente alla vita di tutti i giorni e non al sublime. Alcuni versi di Amore a prima vista dell’omonima raccolta recitano:

«Sono entrambi convinti/che un sentimento improvviso li unì. È bella una tale certezza/ma l’incertezza è più bella […] Ma che ne pensano le strade, le scale, i corridoi/dove da tempo potevano incrociarsi?» (W. Szymborska, Amore a prima vista, 2017).

L’amore è un sentimento comune, quasi tangibile, tanto che l’ambientazione richiama aspetti urbani e casalinghi come strade, scale, corridoi, senza riferimenti a un panorama rarefatto, dalle caratteristiche trascendenti. È come se la Szymborska volesse narrare l’amore nella sua verità giornaliera, quell’amore che vive nelle case di ognuno di noi ed è fatto di condivisione, passione, ma anche di litigi, scontri e difficoltà. Non c’è pretesa di vedere tutto dall’alto, ma l’autrice si mescola tra la folla e osserva in maniera diretta e semplice ciò che caratterizza le nostre vite.

In La musa in Collera afferma infatti:«[…] taccio solo per timore/che il mio canto in futuro/mi dia dolore/ che verrà giorno e d’un tratto/smentirà le parole/[…] se ne andrà l’amore/ e sarà inafferrabile/come l’ombra di un  ramo» (ibidem), come se l’autrice stessa, parte degli uomini, fosse consapevole della possibilità che l’amore finisca e per questo motivo preferisce “tacere”, non parlare di quel sentimento intenso che la caratterizza.

È proprio questa peculiarità, questo suo “camminare tra gli esseri umani” che rende la Szymborska ancora più interessante al lettore, il quale facilmente si identifica nelle scenette descritte e riflette su di sé e sul proprio vivere.

L’intento della poetessa, dallo sguardo a dir poco pungente, è sicuramente quello di sfatare i miti comuni e la narrazione degli altri scrittori sul tema dell’amore: dalla mitizzazione del sentimento alla necessità, che caratterizza molta narrativa, di mostrare l’intenso dolore dopo la perdita. L’amore è qualcosa di più immediato, più semplice, che non richiede né la sublimazione, né lo strazio di certe descrizioni, eccessivamente caricate.

«Guardate i due felici/se almeno dissimulassero un po’/ si fingessero depressi, confortando così gli amici! Sentite come ridono – è un insulto […] è difficile immaginare dove si finirebbe se il loro esempio fosse imitabile. Su cosa potrebbero contare religioni, poesie […]?» (ibidem).

In altre parole esiste una grande costruzione di aspettative, invidia, finzione che sottende a tutto quello che riguarda l’amore, quando invece può essere riassunto con dei semplici gesti quotidiani, quali il ridere assieme con complicità, che noi tutti conosciamo o abbiamo provato almeno una volta.

L’amore è in fondo quell’ “appropriarsi ed espropriarsi” così a lungo, nella nostra vita giornaliera, che porta ad intuire «l’espressione dei loro occhi dal tipo di silenzio, al buio» (ibidem), ma è allo stesso tempo quel «rimanere talmente soli per tanto disamore» (ibidem) che rende gelido tutto ciò che ci circonda, riducendo per un attimo i due amanti al riflesso di due sedie, accanto ad un freddo tavolino.

Niente più e niente meno di questo, insomma, ma non per questo di minor importanza o centralità nelle nostre vite. Forse, è proprio qui che si nota la maestria dell’autrice e quanto possiamo trarre dalla sua poesia: in quanto il suo “abbassare” l’amore ad oggetto quotidiano, tanto da farlo vivere assieme ad elementi urbani o casalinghi, non ne svuota il significato, anzi lo rende ancor più ricco e colmo di valore.

 

Anna Tieppo

NOTE
1. Cfr. Marchesani in W. Szymborska, La gioia di scrivere, Milano, Adelphi, 2009, pp. XXVII – XLII.

 

[immagine tratta da Unsplash]

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