Polifonia sulla legittimità del suicidio

– Morte spiran suoi sguardi!… A me quel ferro.
– A lei pria il ferro, in lei! Muori.
– Ah!… Tu pur morrai.
(V. Alfieri, Rosmunda, atto V scena 5)

 

È sempre il solito, vecchio e trito, problema shakespeariano:

«Essere o non essere, questo è il quesito. […] Morire, dormire, nulla di più, e con un sonno dirsi che poniamo fine al cordoglio e alle infinite miserie naturale retaggio della carne»1.

Come ho cercato di dimostrare parlando d’Anassimandro, nascere è una disgrazia: ci condanna alla sofferenza, alla contingenza, alla libertà, alle scelte, agli sguardi. Soprattutto alla solitudine. Resta da comprendere se questa disgrazia-lunga-una-vita sia sufficientemente dura da giustificare il suicidio. La risposta, lo vedrete, sarà volutamente gesuitica.
Per addentrarmi meglio nella questione, inizierò aggrappandomi al pensiero di Sartre e Leopardi.

Sartre ne L’essere e il nulla, afferma che la nostra condanna alla libertà si esplica attraverso la “progettualità” costante; ora, se l’uomo è pro-getto (cioè gettatezza nel futuro, nell’avanti), la morte rappresenta l’evento antiumano per eccellenza, perché interrompe lo scagliarsi-innanzi della coscienza. Questa antiumanità è, naturalmente, centuplicata dall’atto suicidario.
Data la natura temporale dell’uomo, e la necessità di pro-gettare ogni azione nell’avvenire, ne consegue che gli atti hanno senso solo se aprono alla possibilità di un alterità futura: il presente insomma, attraverso il pro-getto, si consegna alla possibilità del futuro per garantirsi senso; conseguentemente, un gesto che nega tout-court il futuro non ha significato.
Eo ipso, il suicidio (ammessa e concessa l’estrema dolorosità della vita) non ha senso:

«Se dobbiamo morire, la nostra vita non ha senso perché i suoi problemi non ottengono alcuna soluzione. Sarebbe inutile ricorrere al suicido per sfuggire a questa necessità. Il suicidio non può essere considerato come una fine per la vita di cui sarei il fondamento. Essendo atto della mia vita, richiede anch’esso un significato che solo l’avvenire gli può dare; ma siccome è l’ultimo atto, esso si priva di  avvenire»2.

Leopardi argomenta in modo più complesso: leggendo lo Zibaldone e le Canzoni del suicidio, risulta essere è una via praticabile e gli animi grandi riconoscono in esso una vittoria sul dolore, una situazione preferibile. E da un certo punto di vista, non vi è nulla di più ragionevole di questo gesto, essendo anzi la ragione causa precipua dell’eventualità suicidaria:

«La speranza non abbandona mai l’uomo in quanto alla natura. Bensì in quanto alla ragione. Perciò parlano stoltamente quelli che dicono che il suicidio non possa seguire senza una specie di pazzia, essendo impossibile senza questa il rinunziare alla speranza ecc. Anzi tolti i sentimenti religiosi, è una felice e naturale, ma vera e continua pazzia, il seguitar sempre a sperare»3.

Insomma, il suicidio non è che il frutto consequenziale di una scelta sociale operata dal pensiero imperante nel mondo occidentale a partire dall’Illuminismo:

«Quando le illusioni e le fede fossero scomparse dal suo orizzonte, il moderno fruitore di un’esistenza geometrica e disincantata si sarebbe ammazzato da sé stesso»4.

Nel Dialogo di Plotino e Porfirio il tema è trattato diffusamente: il propugnatore del suicidio è Porfirio; Plotino, suo maestro e difensore della vita, obietta al suicidio seguendo una doppia linea di ragionamento. La prima, è dettata dal pragmatismo:

«[Uccidendoci] non avremmo alcuna considerazione degli amici; dei congiunti di sangue»5.

La seconda è, invece, più sottile: Plotino invita 1) ad assumere su noi stessi il dolore di tutto il mondo, e 2) nota che l’autoeliminazione è un atto, per quanto eroico, certamente manchevole d’amor proprio: compito del saggio è comprendere che:

«La vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo, in quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla. […] Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme»6.

Una strana chiusa, rispetto a quanto sostenuto nello Zibaldone, dove il suicidio è visto come il succo della mentalità contemporanea; forse, nel pensiero di Leopardi, è in atto, negli anni di stesura delle Operette Morali, una certa  evoluzione, che culminerà nella poetica de La Ginestra, nella quale viene riconosciuta la «social catena»7 degli uomini riuniti in fratellanza il ruolo d’ultimo baluardo contro la paura e la distruttività insita nella rerum natura.

Insomma: Sartre dice no, Leopardi dice no, ma … E chi scrive che dice? A livello umano sarebbe portato a dire “No”. A livello filosofico, invece dire che non si può escludere il suicidio dall’orizzonte teorico della possibilità esistenziale.

Se il buio davanti a noi è torbido, il pensiero del suicidio non può essere scartato a priori dalla mente (che, anzi, è fondamentale abituare a pensare (il) tutto). Tuttavia, se da un lato è necessario affrontare il fantasma razionale della morte (anche nella sua forma ectoplasmatica suicidaria), dall’altro è doveroso rimarcare che pensare questa possibilità non vuol dire attuarla!

La vita (eterna scelta tra odio e amore) comprende anche il pensiero del suicidio, ma nella pratica esso resta un assurdo e, proprio in virtù della vocazione esistenziale alla scelta, lo è sia dal punto di vista dell’odio che da quello dell’amore. Chi odia, infatti, perché mai dovrebbe liberare della propria fastidiosa presenza gli altri che tanto detesta; e chi ama come può accettare di vivere un’eternità senza quell’alterità che egli così profondamente dilige? L’amore e l’odio sono verità che non si modificano sub speciem desperationis.

Insomma: sì alla teoria, no alla pratica del suicidio. Pensare il suicidio ci fa crescere (e ci insegna a rifuggirlo), praticarlo ci annulla senza, peraltro, risolvere nessuno dei nostri problemi. Ricordatevi dell’esempio di Vittorio Alfieri, dei suoi eroi tragici (che s’ammazzavano all’arma bianca) e del fatto ch’egli morì di malattia.

 

David Casagrande

 

NOTE:

1. W. Shakespeare, The tragedy of Hamlet, act III, scene 1.
2. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1997, p.600
3. G. Leopardi, Zibaldone 183 (23 luglio 1820).
4. R. Damiani, L’impero della ragione. Studi leopardiani, ed. cit., p. 114.
5. G. Leopardi, Operette morali, in: G. Leopardi, Tutte le prose e tutte le poesie, Grandi Tascabili Economici Newton, p. 508.
6. Ivi, p. 509.
7. G. Leopardi, La Ginestra o il fiore del deserto, v. 149, in: G. Leopardi, Canti, in: G. Leopardi, Tutte le prose e tutte le poesie, ed. cit., p. 204.

 

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Occidentali’s Karma: chi è la scimmia nuda?

C’è poco da fare, d’ora in poi capiterà spesso di avere nelle orecchie il motivetto del brano vincitore del festival della canzone italiana. Una di quelle canzoni che entrano in testa senza chiedere il permesso, prive di riguardo. In molti si ritroveranno a canticchiarla, più o meno consapevolmente.

Critica in musica pop degli aspetti controversi della società digitale, Occidentali’s Karma dichiara sin dal titolo di voler riflettere sul destino della civiltà occidentale, su quello che l’uomo moderno potrà raccogliere, considerati i semi che sta seminando.

Lo fa cospargendo il suo testo di un retrogusto intellettuale: attinge con ironia al linguaggio delle filosofie dell’ovest e dell’est, all’arte e alla letteratura, costruendo una costellazione di easter egg colti.

A chi non è capitato di provare un misto di invidia malcelata e di fastidio per la saccenteria, davanti a qualcuno che con naturalezza riesce ad accostare al proprio pensiero le citazioni di personaggi illustri? Sapevatelo, oggi Gabbani regala a tutti la possibilità di sfoggiare una folta sequenza di rimandi culturali.

Ecco l’origine del significato di dieci riferimenti presenti in Occidentali’s Karma, dieci punti da leggere per cantare la canzone, citando responsabilmente:

1.
Essere o dover essere
Il dubbio amletico

Il principio della canzone si spiega da sé: richiama l’opera, anche se tralascia l’autore. Ma la fama della citazione è tale che la spiegazione suona quasi superflua: è naturalmente il «To be, or not to be», tratto dall’Amleto di William Shakespeare, la battuta che apre il soliloquio in cui il protagonista pondera sull’indecisione tra azione e inazione.

2.
Comunque vada panta rei

Pánta rêi: aforisma greco che si traduce come “tutto scorre”. È l’espressione utilizzata per riassumere il pensiero del filosofo greco Eraclito, il filosofo del divenire, che concepisce il l’esistenza del mondo che ci circonda come un continuo mutare, un flusso sempre diverso in cui la realtà di ogni istante è in perenne evoluzione.

3.
And singing in the rain

Con pánta rêi, fa rima e c’è, stacce, direbbero Lillo e Greg. Riferimento proveniente dall’ambito della settima arte. È il titolo del film e della canzone protagonista della pellicola: stiamo parlando di Cantando sotto la pioggia, il film del 1952 diretto e interpretato da Gene Kelly. Inserito nel testo di Gabbani, richiama anche un’altra celebre frase, attribuita all’artista Vivian Greene: «Life isn’t about waiting for the storm to pass… It’s about learning to dance in the rain».

4.
Lezioni di Nirvana
C’è il Buddha in fila indiana
La folla grida un mantra
Occidentali’s Karma
Namasté Alé

Carrellata di terminologia in sanscrito, la lingua dei testi classici della religione e della filosofia indiana. Uno per uno in fila (fila indiana, appunto):
Nirvana: Associato ai significati di “estinzione”, “libertà dal desiderio”. È lo stato finale dell’esistenza professato dalla dottrina buddhista, lo stato di cessazione di ogni dolore.
Buddha: Significa “risvegliato”. È l’essere che ha raggiunto il più alto grado dell’illuminazione.
Mantra: formula verbale rituale, composta dai versi tratti dai testi sacri dell’induismo, recitata con una funzione mistica, di preghiera o di meditazione.
Karma: traducibile come “azione”, si riferisce all’interpretazione induista del principio di causa-effetto, a cui è associata una connotazione morale.
Namaste: saluto di origine indiana che significa “mi inchino a te”.

5.
Per tutti un’ora d’aria, di gloria

Ricorda le parole profetiche rese celebri da Andy Warhol: “Nel futuro, ognuno avrà il suo quarto d’ora di celebrità”.

6.
L’evoluzione inciampa

Seconda delle tre grandi umiliazioni inferte all’umanità e alle concezioni che descrivono il posto dell’uomo nel cosmo (assieme a quelle firmate Copernico e Freud). La teoria dell’evoluzione, del naturalista inglese Charles Darwin, fissa l’origine della specie umana nella realtà animale dei primati.

7.
La scimmia nuda balla

Nel 1967 lo zoologo Desmond Morris pubblica il saggio La scimmia nuda. Studio zoologico sull’animale uomo. Nel testo descrive l’uomo come una delle 193 specie di scimmie esistenti, primate tra i primati, animale nella sua essenza, e diverso per lo più per il fatto che la sua pelle è sprovvista di peli. Per questo appare nudo rispetto alle bestie sue simili.

8.
Piovono gocce di Chanel
Su corpi asettici

Questa volta l’ambito è quello della cultura generale, che rievoca la risposta di Marilyn Monroe alla domanda di una storica intervista. Al quesito del giornalista: «Cosa indossa per andare a letto? Un pigiama? Una camicia da notte?» rispose «Due gocce di Chanel N°5».

9.
Coca dei popoli
Oppio dei poveri
 

Karl Marx, autore del Manifesto del partito comunista accosta la pratica religiosa all’assimilazione di sostanze che confondono l’intelletto. Scrive in una delle sue opere: «La religione è il singhiozzo di una creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di una condizione priva di spirito. È l’oppio dei popoli».

10.
Quando la vita si distrae cadono gli uomini

In questo ultimo passo possiamo intravedere una reminiscenza delle parole del filosofo Friedrich Nietzsche, che in un passo di Cosí parlò Zarathustra, il testo dove viene espressa la dottrina del superuomo, scrive: «Io amo coloro che non sanno vivere anche se sono coloro che cadono perché essi sono coloro che attraversano».

I versi della canzone attingono a un patrimonio di sapere che attraversa le epoche, le culture e le regioni del mondo. Forse nel successo di questo brano si può intravedere un desiderio inappagato di profondità culturale, compensazione della pratica continua della superficialità che tanto critica il testo di Occidentali’s Karma. O forse è stata innalzata sul podio solo perché ci piace vedere una scimmia ballare su un palco. Probabilmente le due cose non si escludono.

O forse ancora, se l’essere è, e il non essere non è, è semplicemente perché Sanremo è Sanremo.

P.S. La scimmia nuda, sei tu.

 

Matteo Villa

 

Link YouTube per riascoltare la canzone

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