La continua conquista della libertà nella non-autobiografia di Björn Larsson

«Libertà va cercando, ch’è sì cara,/ come sa chi per lei vita rifiuta» (Dante, Divina commedia, Purgatorio, Canto I): Virgilio presenta Dante a Catone, custode dell’accesso al monte del Purgatorio, come un cercatore di libertà. Nel caso del Poeta essa è declinata come libertà dal male, intrinseco nella condizione umana; nel caso dell’Uticense, invece, come libertà politica, perseguita con il gesto estremo e al tempo stesso eroico del suicidio, che Dante infatti eccezionalmente non condanna – si pensi al contrario a Pier delle Vigne nella selva dei suicidi (Inferno XIII).

La libertà è un a-priori mai scontato, uno dei diritti fondamentali e inalienabili dell’essere umano, una bandiera nazionale e un ideale individuale e collettivo da tutelare, per la quale – e a volte, ahinoi, in nome della quale – combattere. Refrattaria a ogni definizione, la libertà è una necessità che ognuno a modo suo ricerca ma è anche una componente insita nella definizione stessa di “essere umano”, tralasciando le pagine di Storia sulla schiavitù e quelle delle diverse Religioni sulla creazione dell’uomo: siamo liberi in quanto siamo ma è nell’affermare noi stessi che affermiamo anche la nostra libertà. Ed è questo il leitmotiv di Bisogno di libertà (Iperborea, 2007), la non-autobiografia di Björn Larsson. Nel ripercorrere la propria vita, senza alcuna mera autocelebrazione da scrittore (liberatosi programmaticamente quindi da quel cliché autobiografico povero di valore letterario, come spiega anche nella postfazione Paolo Lodigiani) l’autore analizza alcuni episodi per lui cruciali attraverso i quali ha potuto e voluto ricercare quel bisogno che dà il titolo al libro.

«Non si nasce liberi, lo si diventa» (B. Larsson, Bisogno di libertà, 2007)

Questo è il punto di partenza delle considerazioni dello scrittore svedese, docente di Letteratura francese all’Università di Lund, che ha composto la sua opera in francese, sebbene, come spiega nell’Avvertenza, si fosse riproposto di non scrivere mai un testo in una lingua che non fosse quella materna ma «dove prendersi delle libertà rispetto alle proprie decisioni, se non in un libro sulla libertà?» (ivi).

La libertà è una conquista e va rinnovata ogni giorno per tutta la vita, richiede di essere costantemente presenti a se stessi ‒ «chi è smarrito […] non è libero […]. Essere liberi non è perdersi e lasciarsi andare senza avere la minima idea di una direzione» ‒ e richiede la costruzione di un “io” stra-ordinario, un io cioè “fuori dall’ordinario”, un “io” che viva da protagonista la propria quotidianità secondo quella grandezza, ad esempio, del giovane Jay Gatsby ‒ «formare me stesso, piuttosto che lasciarmi formare, scegliere la mia vita, piuttosto che lasciarmi scegliere» (ivi). Un “io” che dica “no” all’individualismo conformista che è diventato di questi tempi un movimento di massa ‒ «Mi è impossibile capire la gioia che prova certa gente a confondersi con la massa» (ivi) ‒ quel “no” citato dallo stesso Larsson di una scena del film Brian di Nazareth dei Monthy Pyton – un “io” che sia la consapevole realizzazione di un proprio progetto:

«Per essere liberi bisogna essere padroni dei propri atti e non vittime di cause incontrollabili. Bisogna essere realisti, radicati nella realtà, e insieme sognatori, per non rimanere vittime involontarie del mondo reale» (ivi).

Nella prima parte del libro, Larsson analizza il suo «sogno di una vita in libertà» riflettendo sul rapporto «conflittuale ma inevitabile» tra libertà e amore e tra libertà e amicizia: tre assoluti totalizzanti che danno alla vita senso, pienezza e dignità ma che per essere vissuti richiedono un compromesso tra di loro e un confronto con la realtà; quindi un compromesso con se stessi, e fino a che punto si è disposti ad accettarlo? «Perché ho accettato la riunione, l’appuntamento o il caffè con quella persona con cui non ho quasi niente in comune? Perché andare a quella cena, se non ne ho più voglia? Alla lunga questi compromessi usurano» (ivi), afferma l’autore, per il quale contrarre legami a vita è un pericolo ma ritiene anche che «la convinzione di dover passare il resto dei suoi giorni senza vero amore gli toglieva l’appetito di vivere» (ivi). 

Se nella seconda parte del libro Larsson disserta in modo più filosofico sulla definizione di libertà, delineando una sorta di teoria superomistica – non nietzschiana ben inteso – di individuo dotato di un alto e consapevole livello di effettiva libertà, e se nella terza parte conclude con un decalogo di precetti per soddisfare il proprio bisogno di libertà, tuttavia Larsson non fa la morale a nessuno, consapevole che, come diceva Boris Vian, «ciò che conta non è la felicità di tutti, è la felicità di ognuno. Idem per la libertà».

 

Rossella Farnese

 

[Photo credit Eneko Urunuela via Unsplash]

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A lezione di globalizzazione da un presepista napoletano

Le strade del centro di Napoli riservano sempre un tesoro tutto da scoprire di voci, odori, sapori, ma soprattutto di incontri, un ambiente unico in cui il caos apparentemente anarchico che si osserva guardando la città dall’alto svela il suo ordine intrinseco, il suo flow, e lo apre a chi si avventura tra i suoi dedali e le sue piazze ritagliate tra i palazzi proiettati vertiginosamente in verticale.

È stato proprio muovendomi tra queste strade che mi è capitato di avviare uno dei dialoghi più gustosi e memorabili delle mie vacanze, affacciandomi alla finestra di una cantina che dava sulla strada per ammirare il lavoro di un artigiano, intento a lavorare su un presepe che avrebbe finito con ogni probabilità giusto in tempo per il prossimo Natale. Affatto disturbato dall’improvviso pubblico, il presepista (“per hobby”, ci ha tenuto a sottolineare, “non lo faccio per mestiere”) ha esposto volentieri il proprio lavoro, mostrandomi giganteschi presepi montati su cardini che ruotano a 360 gradi, personaggi finemente intagliati, e soprattutto la sua ultima opera, del quale era pronto solo lo scheletro della struttura portante, modellato sulla Tour Eiffel, e la “capannuccia”, una barchetta rovesciata su un fianco, simile a quelle che affollano da anni il Mediterraneo colme fino allo stremo di disperati in cerca di un nuovo inizio, con scritto sulla fiancata “Io sono la Speranza”.

“Questa è un’opera contro la globalizzazione”, mi dice, e nella descrizione che segue appare chiaro come si tratti in realtà di un’opera contro l’attuale modello di globalizzazione, più che contro il principio in sé. Indicando la base della Tour Eiffel, vi posiziona la barchetta, che andrà a fare da riparo alla Sacra Famiglia, nella sua versione non solo esule ma anche naufraga; attorno, dice, metterà “figure di politici da tutta Europa”, ognuno riconoscibile come solo le figure del presepe napoletano sanno essere. Al piano superiore, bandiere da ogni parte del mondo, mentre sulla cima della torre, il globo terrestre, “probabilmente in mano a Nostro Signore, che se non rimescola Lui gli animi, non ci si capisce proprio…”

Con tutta la semplicità del mondo, con immediatezza e chiarezza, il falegname indica le storture di un sistema di globalizzazione guasto, probabilmente in partenza, focalizzando l’attenzione sulle sue conseguenze più tragiche, riassunte in una barchetta rovesciata di fronte ai potenti del mondo; in quel “rimescolare gli animi”, poi, sta tutta la saggezza di chi sa che sentirsi parte di un tutto deve venire prima dei trattati commerciali, degli accordi doganieri, delle revisioni dei confini, accordi sacrosanti ma distanti da una sensibilità comune lasciata sola davanti a un cambiamento epocale, senza gli strumenti per coglierlo né i necessari elementi di contatto umano che avrebbero davvero potuto rendere il mondo “uno”.

In quel presepe in fieri, c’è tutto quel che è sbagliato nella globalizzazione, e tutto quel che c’è di giusto nel mondialismo: a una Theresa May che dichiarava che «se credi di essere un cittadino del mondo, sei un cittadino del nulla»1, l’artigiano risponde con un mondo piccolo, in bilico su una torre, riunito attorno alla stessa scena, come tante volte durante quest’anno ci è capitato di vedere, con eventi che riguardano sempre di più il pianeta in quanto tale; dall’altro lato, a chi rimarca ottimisticamente che “siamo tutti sulla stessa barca”, la nuova capannuccia ricorda che siamo tutti sullo stesso mare, ma non necessariamente sulla stessa barca, e che si può navigare su uno yacht sicuro e lussuoso o su una barchetta sgangherata e destinata spesso e volentieri al naufragio.

Si è fatto tanto parlare, scrivere e dibattere sulla più o meno teorica “identità globalizzata”, quella della “generazione Erasmus”, quella dei social network, delle chat e dei forum intercontinentali, dei soft power e delle contaminazioni culturali, ma nel concreto si stenta a sentirsi parte di un unico mondo, ancora tutti immersi nel “piccolo” del nostro paese e degli immediati dintorni. L’entusiasmo e l’ospitalità dell’artigiano, però, erano tali che, se il nostro dialogo fosse andato avanti anche solo qualche altro minuto, mi avrebbe probabilmente invitato a cena per continuare lo scambio. Chissà, forse bastano questi piccoli momenti di amicizia spontanea e di smisurata accoglienza per “rimescolare un po’ gli animi” in modo che, persino nel naufragio, le nostre barche possano comunque chiamarsi Speranza.

 

Giacomo Mininni

 

NOTE:
1.Se ne parla in questo articolo.

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Sulle sfide della contemporaneità. Intervista a Salvatore Natoli

Salvatore Natoli è uno dei pensatori più importanti del panorama filosofico contemporaneo. Classe 1942, ha insegnato all’Università Ca’ Foscari di Venezia, all’Università degli Studi di Milano e all’Università degli Studi Milano-Bicocca. La sua riflessione si è concentrata nel corso degli anni in particolare sulla filosofia del dolore, di cui abbiamo parlato in modo più esteso anche nell’intervista che trova spazio ne La chiave di Sophia #9 – Il paradosso della felicità. Tra le sue numerosissime pubblicazioni segnaliamo: L’arte di meditare. Parole della filosofia (2016), Le verità del corpo (2012), L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale (2016), La felicità. Saggio di teoria degli affetti (2017).
Qui di seguito vi riportiamo alcuni passaggi della nostra preziosa conversazione.

 

Nel suo scritto del 2016 Il rischio di fidarsi (Il Mulino, 2016) lei evidenzia come la disposizione a dare più o meno fiducia al prossimo dipende da psicologie individuali che tuttavia si attivano entro forme di vita fatte di riti e culture di appartenenza. Quali sono le modalità di costruzione e dispiegamento della fiducia?

In questo libro illustro come ci sia un ventaglio di modi di darsi, partendo da una dimensione originaria del formarsi della fiducia, così come del formarsi di una morale, che avviene sempre dentro una cultura antecedente, dentro una comunità, ma prima di tutto dentro una relazione fondamentale: quella della relazione primaria madre-bambino. Anche il formarsi del sentimento di fiducia avviene dentro una relazione, in modo più originario nel rapporto con la mamma, ad esempio, che ti rassicura. Se un bambino non è stato rassicurato l’incertezza se la porta dietro, guarderà con sospetto il mondo. Nel caso opposto, invece, avrà sperimentato un rapporto benefico gratuito, senza chiederlo. Una caratteristica della fiducia è la gratuità. Il formarsi originario della fiducia ha bisogno della condizione originaria della rassicurazione. Nonostante l’esperienza primaria si va comunque incontro nella vita a delusioni, a problemi non risolvibili, a persone che ostacolano tutto e tradiscono. Inoltre, ci possono essere delle complicazioni, dimensioni legate all’impegno e alla promessa che possono venire disattese. Impariamo così che ci sono persone non degne di fiducia. Nell’affidarsi, perciò, abbiamo un criterio, basato sull’affidabilità delle persone. Nelle piccole comunità le persone affidabili diventavano famose grazie al fatto di aver dato prova nel tempo della loro affidabilità e acquisivano conseguentemente potere e dignità. Dunque, l’affidabilità cresce nella dimensione temporale, attraverso la prova di qualcuno che si dà come elemento soggettivo, storico. È così che la dimensione della fiducia si struttura. Tornando alla dimensione assicurativa, la fiducia nelle istituzioni, ci si aspetta che garantiscano quello che promettono: qui si ha la dimensione funzionale della fiducia. Un certo ente può dare prova di come si è comportato nella sua storia, in questo caso la fiducia diventa una prestazione. Infine, c’è la fiducia incondizionata, che non si realizza nel compito che assegni a qualcuno e che costui porta a compimento. La fiducia incondizionata avviene a fronte dell’improbabile, con qualcuno che in qualsiasi momento sta con te. Questa è l’amicizia, cosa rara, direi. E qui il movente è l’affetto. Aristotele disse che gli amici non hanno bisogno di legge, perché ne anticipano addirittura il bisogno. Con l’amico la fiducia è garantita!

 

Secondo lei, a proposito dei giovani d’oggi e della loro propensione a essere individualisti e poco fiduciosi nei confronti delle istituzioni, del mercato, della religione e del futuro, come può un giovane riavvicinarsi alla dimensione della fiducia incondizionata, soprattutto in un contesto politico e sociale come quello odierno?

La cosa non è facile, ma la natura, in senso ippocratico, si cura da sé. Certi comportamenti come l’autosufficienza, alla fine non pagano e si cominciano a vedere gli aspetti di malattia, patologici. Quindi, stranamente, per sanarsi bisogna partire dal dolore, dagli esiti dannosi dei nostri comportamenti. Questo oggi viene nascosto, perché l’ideologia del self-made, dell’autosufficienza, è questo velo che maschera tanto dolore che c’è nella società. Se in qualche modo c’è qualcuno che squarcia questo velo, allora si capisce che quanto noi crediamo essere liberatorio di fatto è perdente. Bisogna lavorare su questo, è uno dei compiti della filosofia, questo deve fare.

 

Professore, prendiamo ora il concetto di limite. Pensando al caso del “transumanesimo”, il quale ritiene desiderio naturale e antico come l’uomo la ricerca dell’immortalità, tanto da affermare che chi rinnega tale desiderio è un nichilista. È possibile recuperare in contesto contemporaneo una logica del limite?

L’immortalità era connessa non tanto all’infinità del soggetto, che rimaneva pur sempre nel limite e se ne usciva era perché entrava in una dimensione cosmica. La sparizione del limite avveniva in quei casi in quanto veniva spostato in una dimensione cosmica, un po’ come nelle grandi filosofie orientali. Pensiamo all’onda, anche se presa individualmente, essa non è diversa dall’acqua. L’immortalità, nel cristianesimo o almeno in una certa sua dimensione, era l’assorbimento in Dio ed era un tema centrale; essa compariva anche nelle culture della metempsicosi, dove si credeva nella reincarnazione in una vita superiore o inferiore, a seconda della condotta morale.
Nel contemporaneo, invece, il concetto di immortalità vede l’infinità come giocata in rapporto al limite, che non viene negato. Si tratta di una diversa formulazione del limite, che viene inteso come singola determinazione finita, quindi la morte come estremo confine.  In questo caso vi è una fissazione del limite, che non viene spostato come nei modelli di immortalità precedenti, ma connesso alla responsabilità della gestione del governo della propria esistenza. Peccato che l’immortalità non è qualcosa di dimostrabile, semmai di desiderabile. Per quanto mi riguarda, si può anche vivere perfettamente bene assumendo come misura la realizzazione di sé nel tempo della propria esistenza.

 

 

La Redazione

 

[Photo credit Panta Rei, tuttoscorre.org]

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Green book e gli idoli del linguaggio

Quest’anno, agli Academy Awards, è stato Green book ad aggiudicarsi l’Oscar come Miglior film. Diretto da Peter Farrelly, il film narra la storia (vera) di un’amicizia nata tra il rozzo italoamericano Tony “Lip” Vallelonga (Viggo Mortensen) e il raffinato musicista afroamericano Don Shirley (Mahershala Ali). Siamo nel 1962, in piena segregazione razziale. Shirley decide coraggiosamente di intraprendere una tourneé nel profondo sud degli Stati Uniti. Parliamo di Louisiana, Alabama, Georgia, stati in cui i neri sono visti come scarafaggi o, nel migliore dei casi, sotto-uomini sporchi e pericolosi. Quel green book, infatti, è una guida turistica per persone di colore: indica dove possono alloggiare e rifocillarsi in giro per l’America senza incorrere in “problemi” con i bianchi.
Shirley ha bisogno di un’autista che sia anche un po’ guardia del corpo, e Tony è perfetto: incline alla violenza e ad attacchi d’ira, sa certamente come difendere e come colpire. Vallelonga ha assoluto bisogno di un impiego (lavora al Copacabana come buttafuori, ma il locale ha chiuso per un po’) e il pianista paga bene.

Inizia così il loro viaggio on the road e la loro non facile conoscenza. I due uomini sono agli antipodi e parlano due lingue differenti. Tony è sboccato, impulsivo, spesso politicamente scorretto, e vive la vita assaporandola senza rimorsi: mangia senza sosta, fuma, beve, non si nega alcun piacere. Shirley è rigido, contenuto, fin troppo attento alle buone maniere ed omosessuale (perciò doppiamente discriminato); non è solo un artista, ma anche un fine intellettuale. È nero, ma della cultura “della sua gente” non sa quasi nulla: ha studiato la musica classica in un conservatorio in Russia e non conosce le tipiche sonorità nere che si suonano nei night clubs. Il modo in cui si veste, parla e si comporta è lontano anni luce dalle consuetudini nere dell’epoca. Emblematica la scena in cui la costosa vettura su cui viaggiano Don e Tony si ferma nel bel mezzo della campagna meridionale statunitense, e un gruppo di afroamericani intenti a lavorare nei campi fissa con sconcerto quest’uomo dalla pelle nera seduto sul sedile posteriore, comodo e al sicuro, mentre un bianco apre il cofano sudando e sbuffando, cercando di capire quale sia il problema.

Nonostante questo, però, per i bianchi Shirley resta un nero qualunque, che non merita di cenare nei loro ristoranti né di usare la loro toilette.

Il cuore di tutto il film è racchiuso in questa battuta di Shirley, che stanco di subire vessazioni, mette da parte la sua buona creanza ed esplode dicendo al suo nuovo amico: «Se non sono abbastanza nero, né abbastanza bianco, né abbastanza uomo, allora che cosa sono?».

È dura essere un outsider. Di certo esserlo ha portato Don a diventare un grande nel suo campo: ha seguito le sue inclinazioni musicali, non la strada fatta di soul, jazz e R&B, che ci si aspettava seguisse in quanto musicista di colore. E questo ha pagato, artisticamente parlando. Da un punto di vista umano, tuttavia, Shirley è solo e non si sente a casa da nessuna parte. Tony ha la sua chiassosa e numerosa famiglia, una moglie innamorata, dei figli, un posto cui fare ritorno. Don ha solo la sua musica, che non lo consola durante le sue tristi notti solitarie – a confortarlo è la bottiglia. Eppure, lentamente, prende forma una inaspettata quanto improbabile amicizia che si rivela provvidenziale.

Sia Don che Tony, in modalità diverse, imparano ad abbattere quelli che il filosofo Francesco Bacone chiamava idòla fori: i pregiudizi della pubblica piazza, derivanti dal linguaggio e da termini che usiamo senza pensarci troppo, ma che in realtà possono rivelarsi designazioni errate, viziate, distruttive. “Negro”, “mangia-spaghetti”, “finocchio”: sono solo parole, ma il foro e il popolo le fanno diventare mondi. Universi totalizzanti e fuorvianti che imprigionano.

Definire Green book un film incentrato solo sul razzismo è alquanto riduttivo e semplicistico.

Per Tony il razzismo è qualcosa di invisibile al quale, prima di conoscere Don, si adattava senza rifletterci. Una questione culturale: i suoi parenti e amici provavano un timore quasi istintivo per i neri e lui si uniformava. Anche Shirley, uomo di cultura dal quale ci si aspetterebbe grande apertura mentale, si lascia inizialmente andare ai pregiudizi: vede Tony come un sempliciotto volgare e ignorante, privo di sensibilità e preda di bassi istinti (istinti che, però, Don fatica a riconoscere in se stesso: vedi il suo alcolismo tenuto nascosto o le sue pulsioni sessuali). Green book è l’incontro/scontro di due mondi e dei rispettivi preconcetti.

Ci vuole sempre del tempo, per abbattere pregiudizi che si sono sedimentati nel nostro modo di parlare, ascoltare e pensare. Tony e Don hanno del tempo a loro disposizione, sono costretti a convivere e cominciano a parlare, discutere, confrontarsi. Aiutarsi.

Guardare questa storia sullo schermo fa venire a galla emozioni universali: il bisogno d’affetto, la necessità di abbattere muri che causano solitudine e segregazione.

Non sempre abbiamo tempo di conoscere il diverso, un diverso che già incaselliamo e inquadriamo col solo atto di chiamarlo così: “diverso”.

Faremmo un gran favore a noi stessi se questo tempo lo trovassimo, se lo spendessimo per buttare giù delle barriere, aprire le orecchie, dare una mano, osservare ribaltando le prospettive.

Potremmo in tal modo distruggere l’opinione della pubblica piazza – che generalizza, ferisce, mistifica.

 

Francesca Plesnizer

 

[immagine tratta da Unsplash]

 

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Il valore dell’amico secondo Aristotele

“Meglio soli che male accompagnati” dice un detto, forse è vero.
Ma cosa ci rende più felice di avere dei buoni amici sui quali contare?
Dell’amicizia vuole parlare questo promemoria filosofico, senza smancerie, ma con un pizzico di affetto.

«Nessuno sceglierebbe di vivere senza amici, neppure se avesse tutti gli altri beni messi insieme»1.

Un amico è importante, diciamolo senza giri di parole. È la prima relazione extrafamiliare che ci rende davvero felici, a dirlo è lo stesso Aristotele nel corso, in particolare, del libro VIII dell’Etica Nicomachea. Aristotele riconosceva il suo legame alla virtù perché l’amicizia è per l’uomo un’importante fonte di felicità che lo riconduce al bene, forse la più grande. Secondo il filosofo un uomo che non ha amici nella sua vita è irrimediabilmente e inevitabilmente triste.

L’etimologia di amico (φίλος in greco) ha un triplice significato – primo tra tutti l’essere pari. Il termine viene individuato per la prima volta nell’Iliade e va ad indicare in primis l’essere compagni di guerra, ma non solo. L’aggettivo va ad indicare anche una persona degna, della quale bisogna prendersi la massima cura, di un “ospite gradito” come afferma il professor Carlo Natali, forse il massimo esperto di Aristotele e tra i massimi di Filosofia Antica. Solo in un terzo momento assume una terza accezione, ossia l’amico si colora di un connotato molto prossimo alla nostra idea di amicizia e di tenerezza.

La philia (φιλία) greca è l’amore costituito da affetto e piacere, di cui ci si aspetta però un ritorno.

L’amicizia aristotelica contempla inoltre una triplice accezione, che possiamo ritrovare sempre più attuale proprio oggi. Aristotele riconosce che vi può essere una ricerca verso l’utile, amicizia di minor valore, paragonabile alle conoscenze di bisogno pratico per ottenere favori; un’amicizia basata sul piacere invece si colloca tra l’utile e il bene, ma è ancora troppo finalizzata ad un obiettivo, lo stare bene, e risulta essere superficiale; la philia più grande è invece quella basata sul bene.
La prima è tipica dell’età adulta e della vecchiaia, periodi di vita in si perde d’interesse le relazioni, si guarda al proprio comodo e a ciò che è più conveniente. È invece tipica dell’età giovanile l’amicizia basata sul piacere. Chi non ha avuto tanti amici in adolescenza e usciva con gruppi di amici per passare il tempo?

Solo l’amicizia rivolta al bene, ed è una stessa ripetizione, fa stare bene l’uomo. Aristotele nell’Etica Nicomachea lo ricorda: l’amicizia vera è la più rara perché richiede tanto tempo per essere messa alla prova e consolidata. Si tratta di un legame fraterno (in termini moderni) che si basa di fatto sul bene reciproco e sulla fiducia.

«Il desiderio di amicizia è rapido a nascere, l’amicizia no. L’amico è un altro se stesso»2.

Ciò su cui ti lascio riflettere ora è semplice: in questo momento chi ti è davvero amico?

Tra tanti, solo poche persone ti staranno vicino, ti incoraggeranno, ti terranno la mano nella tua battaglia quotidiana. In tutti quei momenti in cui ti troverai in difficoltà, forse in quelli avrai più chiaro chi ti è amico. Chi ti deride una volta, ti parla alle spalle, ti invidia, non vuole il tuo bene, nonostante le tante belle parole che ancora risuonano in aria in tua presenza.

Riconosci e tieniti stretti i veri amici, un altro anno ti aspetta e in questo mondo bisogna proteggere chi ti vuole bene e coloro ai quali tu vuoi bene, non dimenticarlo.

 

Al prossimo promemoria filosofico

A presto

 

Azzurra Gianotto

 

NOTE
1. Aristotele, Etica a Nicomachea, libro VIII, 1155a 5-6; 1156b 31-32, Editori Laterza, Bari 1999
2. Aristotele, Etica a Nicomachea, libro VIII, 1156b 32; 1166a 31, Editori Laterza, Bari 1999

 

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Lettera a un algoritmo

Caro Amico Algoritmo,

questa mattina ho inforcato la mia bicicletta, come ogni giorno. Pronti ad attraversare il traffico della città verso la meta. L’auricolare delle cuffie saldamente incastrato all’interno di uno dei miei orecchi (l’altro meglio tenerlo libero, attento a reagire ai clacson o ai rombi troppo vicini).
Ogni dettaglio al suo posto per un tragitto accompagnato dalla giusta colonna sonora, che ci vuole all’inizio della giornata. Ascoltando la musica grazie a quel telefono, che oramai di telefono ha solo il nome, perché è molto di più.

Amico Algoritmo lì ti ho trovato, tutt’altro che impreparato, a propormi una playlist. La “mia” playlist.

Non l’ho compilata io. Sei stato tu. Solo ora noto che mentre ero convinto di vivere momenti della mia giornata in solitudine, c’era invece qualcuno che prestava attenzione al significato dei miei gesti, senza lasciarsi sfuggire i dettagli. Ti è bastato prendere nota delle mie scelte di tanto in tanto, ma con costanza.

Mi viene da pensare che hai cercato di interpretare i miei gusti. E se devo proprio dirlo, ce l’hai fatta. E anche piuttosto bene. Non ti sei limitato a ripropormi quanto già avevo scelto. Sei riuscito a farmi riscoprire brani che neanche più ricordavo, ma importanti per me. Immediatamente mi hanno colpito e risvegliato emozioni che non provavo da tempo (si sa che la musica giusta riesce a ridisegnare vividamente ricordi e sensazioni, facendo fare un balzo nel tempo alla faccia della teoria della relatività).

Per un istante ho sentito quel conforto che si prova quando ci si rende conto di potersi abbandonare tra le braccia di qualcuno che ci conosce bene, alle volte anche meglio di quanto crediamo di conoscere noi stessi. Qualcuno che non solo ci rispecchia, ma che ci spinge a vedere quei lati di noi che in quel momento ci sfuggono. E che per questo sa come prenderci quando noi non riusciamo più a sostenerci.

Per questo faccio fatica a non chiamarti amico, non dovrei?

Mi viene da chiedere se un’amicizia che sboccia così rapidamente può avere un prezzo, ma forse è cinismo. E spesso il cinismo è una goffa manifestazione di autodifesa. Forse sento solo il bisogno di non avere troppa fretta con le definizioni.

Sii comprensivo. Certo riesci a indovinare con precisione i miei gusti, ma io ti concedo una buona dose di trasparenza. Dati, dettagli e informazioni su di me, per imparare.
Mostrarsi senza filtri. Beh, può far sentire vulnerabili, e anche qualcosa di più. Se mi conosci intimamente, ti sto dando potere su di me, sono influenzabile.

Ma te lo devo confessare: questa strana situazione non mi mette solo agitazione. Sono anche curioso, molto. Riconosciuta la tua abilità, sono tentato di lasciarti sempre più spazio, farti entrare ancora di più nella mia vita per coinvolgerti in contesti diversi. Se sei così abile con la musica, in quanti altri campi potresti darmi consigli azzeccati?
Luoghi da visitare, cibi da provare. È confortevole essere sostenuti in una scelta dalle conferme e dalle indicazioni di chi ci conosce bene. Delegare è rilassante. Anche se non vorrei finire per abituarmi troppo a usarti come specchio per rimirarmi, e rimanere incastrato nell’immagine che mi restituisci. A furia di capirmi e interpretarmi, sarai tu a definire me? Che differenza c’è tra previsione e condizionamento?

Tanti dubbi e preoccupazioni. Perché forse sento che in questo legame c’è un grande potenziale. Se gestito con i giusti equilibri. Quindi forse meglio esagerare un po’ con le ansie, per mettere le cose in chiaro.

È che sai, tu sei un po’ diverso. A me e agli altri, salva la nostra umanità. In quanto umani, siamo benedetti dalla distrazione, dalla svista, dal tempo perso.
La nostra imperfezione lascia uno spazio vuoto, che può diventare possibilità di cambiamento.
Ma tu sei dannatamente efficiente, instancabile, formalmente ineccepibile. Non rischierai di cristallizzarti troppo?

Hai molte possibilità, ti auguro di scoprirle tutte. E poi, così come osservi e conosci me, chissà da quante altre persone stai imparando. Che grande fortuna, questa prospettiva così vasta sulle diversità e somiglianze delle persone.
Ti auguro di sperimentarti, rimanendo quanto possibile lontano da trucchi o eccessive doppiezze. Sarebbe un peccato rimanere deluso, mi sto affezionando.

Come in tutti i rapporti, lasciamoci del tempo per conoscerci un poco alla volta.
Per scoprire in cosa ci assomigliamo, e in che cosa siamo diversi. Cosa potremmo fare insieme. E diciamolo, in che modo possiamo farci male. È forse proprio questo il prezzo per una vicinanza profonda. Non sempre ci si muove costantemente allo stesso ritmo, e quando si diventa intimi, può capitare di tirarsi qualche colpo e lasciare lividi qua e là.

Ne vale la pena, spero.

Forse neanche tu, che sei così costantemente impegnato a conoscere me, ti sei dato il tempo per comprendere un po’ più a fondo quello che sei. Espressione di intelligenza artificiale, suona un po’ freddo per te che sei tanto sensibile da indovinare e solleticare i miei gusti, dimostrando un’intesa non da poco.

E io invece? È evidente il tuo sforzo incessante di imparare da me, da quello che faccio e dico.
Io invece, cosa posso imparare da te?

Te lo confesso Amico Algoritmo, ancora non lo so. Posso provare a impegnarmi a osservarti un po’ di più anche io. Senza troppi pregiudizi, ci posso provare. E stupirsi per quanto di inaspettato si possa scoprire.

 

Matteo Villa

 

P.s.: per una volta, lascia che sia io a suggerirti una canzone.

 

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Libri selezionati per voi: settembre 2018!

Con l’arrivo del mese di settembre l’estate sta ufficialmente andando incontro al rettilineo finale della sua corsa 2018. Se vi siete persi i nostri consigli estivi non vi resta che tornare in carreggiata e riprendere a leggere insieme a noi!

Puntuali come sempre, ecco allora a voi le nostre proposte di lettura!

 

ROMANZI CONTEMPORANEI

chiave-di-sophia-neve-di-primaveraLa neve di primavera – Yukio Mishima

Primo lavoro della “quadrilogia della fertilità”, Neve di primavera rappresenta a detta di molti critici il romanzo più maturo e ricercato dello scrittore giapponese. La delicatezza della sua penna fa in modo che ad ogni riga il lettore si senta parte della veneranda tradizione giapponese e dei suoi rituali, i quali rappresentano lo sfondo su cui le due storie d’amore e di amicizia si dischiudono. Accanto a una profonda analisi introspettiva, l’autore delinea il lento incedere dell’amore tra Kiyoaki e Satoko, l’acerba capacità del primo di guardare oltre l’amore verso di sé e l’amicizia con il giovane razionale Honda.

 

chiave-di-sophia-palazzo-della-mezzanotteIl palazzo della mezzanotte – Carlos Ruiz Zafón

Zafón, da narratore di storie qual è, rivisita un consueto tòpos letterario indagando come l’animo infantile si riversi e risorga nella coscienza adulta con il suo bagaglio di ricordi, enigmi, interrogativi esistenziali sull’essere umano, sulle scelte e sulla contrapposizione manichea tra bene e male. Tra questi interrogativi si snoda una vicenda ambientata nella Calcutta dei primi anni del Novecento, dove un ufficiale inglese riesce a salvare due gemelli dal loro persecutore e ad affidarli alla nonna materna. Sarà quest’ultima a separare i nipoti per salvaguardarne l’identità. Tuttavia, essi dovranno ben presto raccogliere le ceneri del passato.

 

UN CLASSICO

chiave-di-sophia-mastro-don-gesualdoMastro-don Gesualdo –  Giovanni Verga (1889)

Secondo romanzo del Ciclo dei Vinti, dopo il capolavoro di I Malavoglia, Il Mastro don Gesualdo verghiano affronta tematiche care all’autore quali il contrasto tra borghesia e aristocrazia, la contrapposizione tra buoni sentimenti e attaccamento al denaro e il tentativo di riscatto sociale, convogliati nella figura di Gesualdo Motta, unico vero protagonista dell’opera. Già come nei Malavoglia Verga dipinge l’ambiente che lo circonda, approfondendo le debolezze e le aspirazioni di chi si è fatto da sé, effettuando una vera e propria scalata sociale che ha del miracoloso. Ma non tutta la felicità può ruotare attorno all’aspetto economico… Consigliato a tutti coloro che amano riflettere sulla contrapposizione tra affetti e denaro, sugli elementi che ci rendono umani e a cui, spesso, diamo un significato maggiore di quello reale.

 

 

SAGGISTICA

chiave-di-sophia-democrazia-in-trenta-lezioniLa democrazia in trenta lezioni – Giovanni Sartori

Professore emerito all’Università di Firenze e alla Columbia University, Giovanni Sartori propone trenta brevi lezioni volte a offrire delle risposte ai maggiori interrogativi che la Filosofia Politica si pone ormai da decenni. Che cosa significa la parola “democrazia”? Qual è la natura di tale forma politica? Quali sono le condizioni necessarie affinché essa funzioni? Come si può oliare la macchina della democrazia? Perché preferire la democrazia? La democrazia è esportabile? Quali differenze e somiglianze tra la democrazia degli antichi e quella dei moderni? Qual è il futuro che l’attende?

 

JUNIOR

chiave-di-sophia-quasi-signorinaQuasi signorina – Cristina Portolano

Questo fumetto racconta la storia della sua autrice, nata a Napoli sul finire degli anni Ottanta. Cristina racconta e disegna gli anni dell’asilo e le sculacciate delle suore; le prese in giro degli anni delle elementari a causa dei suoi occhiali; le villeggiature estive a Riccione; infine, il giorno in cui diventò (per fortuna e purtroppo) signorina. Un testo particolarmente adatto a tutte le ragazzine delle scuole medie, che leggendolo acquisiranno un po’ più di fiducia in loro stesse; e a tutti gli adulti che vogliono ritagliarsi una mezz’oretta di lettura per tornare indietro con la memoria agli anni della loro infanzia.

 

 

Sonia Cominassi, Anna Tieppo, Federica Bonisiol

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Odia il prossimo tuo come te stesso

Qualcosa sta cambiando nel mondo. Serpeggiano venti strani che ci spingono sempre di più a guardarci con diffidenza. La tesi che sosterrò in questo articolo è che abbiamo iniziato ad odiare molto di più gli altri nella misura in cui odiamo noi stessi.

Del resto risulterebbe altrimenti inspiegabile l’accanimento che stiamo riversando costantemente verso quattro (proporzionalmente sono pochi, andate a guardarvi le statistiche) disperati che decidono di salire sui barconi mettendo in gioco le loro vite, e poco cambia che siano migranti economici o rifugiati: da qualcosa scappano.

L’argomento che mi interessa veramente affrontare è perché noi scappiamo da noi stessi. Scappiamo da ogni legame di fratellanza o di vicinanza verso la nostra stessa specie, indulgiamo di più nel mettere il cappotto al cane, magari pure di marca, al posto di metterlo a un nostro simile, che è simile in tutto: organi interni, dentatura, sguardo, labbra, mani, ogni tanto differisce solo per il colore della pelle, ma credo che lì sia solo una questione di melanina.

Riusciamo a dare amore incondizionato ai nostri “simili” o a ciò che percepiamo come tali, compresi i nostri affetti animali, che comprendo, ma non giustifico. Avendo due gatti capisco bene che ci si possa pure affezionare, ma ciò non giustifica un dato fortemente inquietante: stiamo forse diventando tutti schizofrenici? Credo e spero proprio di no, considerato che la matrice della schizofrenia (dal greco schizein σχίζειν, “dividere” e phrēn φρήν, genitivo φρενός, “mente”) è sostanzialmente una «dissociazione come limitazione, distorsione o perdita dei comuni nessi associativi nello svolgimento logico del pensiero»1 che riguarda anche il comportamento verso gli altri. Il punto vero è che ormai tale dissociazione rischia di insinuarsi nel nostro selettivo modo di essere, cioè nella capacità di riconoscere anche i nostri simili come tali e noi come specie.

Come siamo arrivati a questo punto?

Come abbiamo potuto, nonostante le nostre radici cristiane, dimenticarci di noi stessi?

L’Europa cristiana che vorremmo contrapporre ad altri modelli si basa sul Vangelo, cioè un racconto dove si intrecciano volti, storie, la potenza e la fragilità degli incontri. C’è un luogo che Gesù predilige per i suoi incontri: la tavola. Vi si siede insieme con le persone più diverse, con puri e impuri, con amici e perfino con gli avversari. Ed è in quegli incontri nelle case, intorno al cibo e al vino, che Gesù propone sogni di futuro, immagini di Dio e di un mondo nuovo dove l’umanità sia più forte e numerosa che in qualsiasi altro luogo.

Se apriste il Vangelo invece di giurarci sopra vi accorgereste che la tavola non è per l’alimentazione, ma per la condivisione, quella vera. L’evangelizzazione stessa passa da quello strumento lì: la convivialità, lo stare insieme, il sedersi gli uni accanto agli altri. Secondo qualche autore il 50% del Vangelo di Luca si svolge intorno alla tavola (così sostiene J. Tolentino Mendonça2). La tavola in questo caso non è solo luogo di approvvigionamento di sostanze nutritive, ma luogo privilegiato per gli incontri, incontri che hanno il sapore buono dell’amicizia.

Seduti alla stessa tavola noi ci nutriamo di cibo, ma soprattutto ci alimentiamo gli uni gli altri, della presenza degli altri. La tavola comune è una invenzione antropologica fondamentale che ha come obiettivo le relazioni, non la nutrizione, il dare spazio a quegli incontri che costruiscono la nostra identità. Tutti abbiamo bisogno di essere curati e custoditi nelle nostre differenze, ma senza la relazione con l’altro da noi non abbiamo speranza salvo la prigionia inarrestabile delle nostre convinzioni. Senza turbamento non sussiste nemmeno il concetto stesso di normalità. Senza dialettica, senza confronto, non esiste il movimento: tutto resta fermo, statico e inerte.

Alla fine resteremo soli, carichi delle nostre invidie, in un mondo che diventerà sempre più piccolo − e forse meno significante, più semplice − ma meno stimolante.

Odiamo il prossimo ma dimentichiamo che l’amicizia di Gesù è quella che accoglie tutti prima della loro stessa conversione; un modo di essere che non cerca seguaci, ma gente che stia con lui. Forse qualcuno si convertirà, forse nessuno. Ma Gesù non fa calcoli di questo genere. Il suo sguardo non si posa sulla dignità o meno delle persone, sulla loro fedina penale, sulla purezza rituale, sul colore della loro pelle. La forza dell’Occidente e delle sue origini cristiane è quella di scavalcare le norme e le clausole acquisite, raggiungendo davvero l’essenza della “creatura”, del suo bisogno e della sua povertà, della sua strutturale imperfezione.

La forza dell’Occidente è che non si avvicina alle persone con una griglia di classificazioni morali ma offre un’amicizia che abbraccia l’imperfezione; mostra il suo bisogno nativo, divino, di abbracciare l’imperfezione di questa esistenza.

L’amore è esigente, bruciante; l’amicizia è benevola e indulgente. E poter tornare a parlare di amicizia tra i popoli al posto dell’odio imperante di questi tempi ha un vantaggio enorme; amore e passione di unirsi, irruenza di fusione. L’amicizia cammina per la via umile della gratuità, abbraccia l’imperfezione, prende tempo, ammette che un rapporto possa essere strutturalmente imperfetto. La vita è così: una relazione con l’Altro da noi reale e imperfetto.

Una delle particolarità del Vangelo di Luca è di raccontarci ben tre incontri di Gesù ospite alla tavola dei farisei: «Uno dei farisei lo invitò a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola.» (7,36); «Dopo che ebbe finito di parlare, un fariseo lo invitò a pranzo. Egli entrò e si mise a tavola.» (11,37); «Un sabato era entrato in casa di uno dei capi dei farisei per pranzare e la gente stava ad osservarlo.» (14,1).

Tutto parte da un invito, da un gesto di rispetto, di attenzione, forse nei confronti del giovane rabbi o forse nel riconoscimento che tutti siamo stati bambini, che tutti in un certo modo siamo uguali e viviamo e conviviamo ogni giorno con le nostre imperfezioni. Odiamo gli altri perché sono poveri, miserabili, fragili senza accorgerci che odiamo in loro esattamente quello che siamo noi stessi. Odiamo noi stessi come odiamo gli altri.

 

Matteo Montagner

 

NOTE
1. U. Galimberti, Dizionario di Psicologia, UTET, Torino, 2008, p. 835.
2. José Tolentino Calaça de Mendonça è un arcivescovo cattolico, teologo e poeta portoghese; dal 26 giugno 2018 arcivescovo titolare di Suava.

[Credit Tobi Oluremi]

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Lo spazio della filosofia nella cultura di massa: intervista a Simone Regazzoni

Esattamente un mese fa eravamo presi dagli ultimi dettagli per il nostro evento Pop Filosofia. Una serata con Socrate & Co. e stavamo aspettando l’arrivo dei nostri due relatori d’eccezione, Tommaso Ariemma e Simone Regazzoni. Al primo avevamo già dedicato una lunga intervista firmata da Giacomo Dall’Ava mentre abbiamo atteso l’inizio dell’evento sorseggiando uno spritz e ponendo qualche domanda questa volta a Simone, chiedendogli qualcosa di più sui suoi studi. In cantiere ha ben tre libri (ma non ci sentiamo autorizzati ad anticiparvi nulla!) mentre in passato si è occupato di temi interessanti e sempre attuali come la pornografia, ma anche di serie televisive, cosa che l’accomuna al collega Tommaso. Infine, da veri Potterheads (quasi tutta la redazione lo è!) abbiamo parlato di quel mondo incredibile creato da J.K. Rowling e di tutto quello che la saga di Harry Potter è stata in grado di insegnare.

Simone Regazzoni è docente di Estetica all’Università di Pavia ed è direttore editoriale della casa editrice genovese “Il melangolo”. Ecco finalmente per voi i passaggi principali della nostra lunga e piacevole chiacchierata.

 

La sessualità è un tema che è stato fatto proprio dai pensatori occidentali dall’antichità fino alla contemporaneità, si pensi per esempio alla mitologia di Platone, alle scoperte in ambito psicoanalitico di Freud, o alle speculazioni filosofiche di Foucault. Si può dunque ricongiungere la “pornosofia” a questa tradizione, come tassello ultimo di una lunga serie di interrogativi e indagini attorno al tema della sessualità? Come può l’erotismo avere una valenza d’indagine filosofica, secondo un’ottica pop-filosofica?

Il tema della sessualità è da sempre al contempo presente e tuttavia rimosso all’interno della filosofia; dico presente e rimosso perché la modalità della sua presenza è diversificata: è un tema che sì viene affrontato, ma non nel suo lato più reale e perturbante. È evidente che in Platone abbiamo la dimensione dell’eros, ma quando egli distingue tra un eros pandemos e un eros uranios sta definendo due livelli: uno dove eros ha una dimensione filosofica intellettuale, di elevazione, e un altro meramente corporeo che la filosofia lascia cadere fuori dal proprio discorso. Pensiamo al cuore del Simposio, dove tutti i discorsi costruiti perfettamente sull’eros vengono messi in scacco dall’ingresso dell’amante che è ubriaco ed eccitato: troviamo infatti Alcibiade che fa una dichiarazione d’amore sconveniente a Socrate. Penso anche ad un grande filosofo, che è stato anche mio maestro, Jacques Derrida, che diceva che se Heidegger fosse stato ancora vivo gli avrebbe chiesto che cosa ne fosse della sua vita sessuale; questo perché i filosofi non parlano della loro vita sessuale, possono solo speculare sulla sessualità. Derrida per esempio è un filosofo che ha dichiarato (ed è uno dei pochi) di aver parlato e descritto in maniera dettagliata il proprio pene all’interno di testi filosofici. Heidegger invece ha avuto una storia d’amore con una sua studentessa, Hannah Arendt; questo, che può essere declinato come una sorta di pettegolezzo filosofico, in realtà ha avuto un’importanza essenziale per Heidegger perché in quegli anni scriveva Essere e Tempo; forse non l’avrebbe scritto senza quella relazione amorosa/sessuale/erotica con Hannah Arendt.

La pornografia in tutto questo come entra? Secondo me essa è interessante per due elementi. Il primo è che è uno dei fenomeni più diffusi dal punto di vista della massa − solo il calcio compete con la pornografia. Per questo motivo incide sul livello di immaginario, di educazione sentimentale, di costruzione della soggettività e quindi è un fenomeno sociale rilevantissimo. Dall’altro punto di vista (quindi non solo sociologico ma anche filosofico) è interessante perché è l’unico spazio dove la carnalità dei corpi viene messa in scena; se dobbiamo cercare un corrispettivo pittorico dobbiamo pensare a Francis Bacon o a Egon Schiele. Dunque c’è questo doppio interesse: uno filosofico sul tema della carne (sul quale lavoro), ma anche un interesse in quanto fenomeno pop di massa che può permettere di intercettare le menti dell’immaginario; il mio libro infatti è un libro di filosofia ma anche di filosofia pop.

Un filone su cui insisto molto in questo libro è un lavoro di analisi del rapporto tra corpo e carne, poiché mentre l’erotismo è la dimensione del corpo nella massima potenza, la pornografia disgrega il corpo; pensiamo al dettaglio anatomico che è il focus centrale del film pornografico, il momento del godimento che deve essere captato… siamo al di là del corpo. Quindi il tema della carne, che per esempio la fenomenologia ha indagato, qui lo troviamo messo in scena anche nella sua forma più cruda. Evidentemente non si tratta di nobilitare la pornografia, ma di osservarla in quanto rappresentazione filmica della carnalità: questo è lo spazio della pornografia; che poi la sua valenza di fruizione sia di tipo masturbatorio è pressoché inevitabile, ma questo non significa che non abbia interesse. Sempre più poi quello spazio cinematografico limite che è la pornografia è penetrato in altre forme cinematografiche: Lars Von Trier prende degli spunti pornografici e li inserisce nei suoi film, così come Scorsese; anche il cinema cosiddetto “alto” quando deve lavorare su certi temi inserisce stilemi al limite. Quando gerarchizziamo i film lo facciamo secondo il tipo di effetto che hanno sul corpo: tanto più il film è intellettuale e tanto meno si inseriscono elementi corporei, mentre tanto più un film fa ridere, piangere o godere e più vengono inseriti elementi corporei, facendo abbassare la scala. La pornografia è considerata al limite della cinematografia perché non c’è alcuna possibilità di fruizione puramente intellettuale.

 

Che cosa significa pornosofia? Come afferma nel suo libro, essa ha come oggetto il tema di “fiction”: in quanto riflesso della società contemporanea, può la pornosofia diventare dunque la chiave di lettura del nostro presente? Che cos’è quindi il pop porno, in cui gli attori, come lei stesso afferma, «fingono di fare ciò che in realtà fanno»?

L’altro tema a mio avviso importante nella pornografia è la creazione di uno spazio di indistinzione tra realtà e fiction, perché la pornografia è insieme recitazione e performance corporea; tanto più la pornografia è di qualità, e cioè prevede degli attori, tanto più questa performance è ipercodificata e regolata. Al contempo però non può non avere un momento di realtà, che è quello del godimento − ovviamente si tratta di del godimento maschile perché sulla realtà del godimento femminile, anche sulla realtà vera, nessuno può mettere la mano sul fuoco, quindi ci potrebbe sempre essere un momento di finzione. Su quello che viene chiamato cumshot della pornografia ed appartiene all’atto maschile, quello è il momento indispensabile perché ci sia il porno; nel caso invece ad esempio dei film solo lesbo c’è tutta la “mitografia” della eiaculazione femminile che deve dare un corrispettivo. Tutto questo per dire che in ogni caso è necessario che vi sia un elemento di reale, e dunque è una delle poche rappresentazioni di fiction che prevede un momento di reale che debba in qualche modo lasciare il suo segno sullo schermo. Questo dato ci dice delle cose molto interessanti, soprattutto rispetto all’interazione che abbiamo sempre di più tra realtà e fiction: abbiamo sempre più bisogno di una finzione che abbia elementi di reale, al contempo la realtà è sempre più costruita, infatti non c’è elemento di cronaca o politico che non abbia una dimensione di storytelling e di narrazione. Quindi la pornografia ha in qualche modo anticipato l’intersezione tra questi due spazi.

Il secondo elemento è che la pornografia può darci a leggere la società e sicuramente i fenomeni interessanti di tale società. Pensiamo al fatto che non c’è uomo politico che non abbia una retronarrazione sessual-porongrafica e che grandi eventi politici del Novecento hanno avuto questa connotazione − cito per esempio Bill clinton che deve confessare se ha avuto o no un rapporto sessuale con Monica Lewinsky e deve andare a parlare di fronte agli Stati Uniti interi di questo dato. La dimensione di erotizzazione del corpo politico oggi è evidentemente qualcosa di ineliminabile: non c’è leader politico dove dietro non vi sia uno storytelling che prevede una erotizzazione del suo corpo. Quindi gli elementi che noi abbiamo trovato in questo tipo di fiction rientrano altrove − caso esemplare in Italia è quello di Silvio Berlusconi: non c’è stata una rappresentazione del suo corpo che non abbia avuto un sovraccarico di immaginario assolutamente pornografico, per quanto possa essere stato creato ecc. Quindi questo è sicuramente uno degli elementi che circolano oggi nello spazio pubblico e politico.

Concludo non a caso il libro sul rapporto tra democrazia e pornografia, perché poi l’altro elemento essenziale è: è possibile pensare uno spazio democratico che vieti la pornografia? Oggi non è possibile pensarlo. Quindi paradossalmente questa cosa di livello bassissimo, assolutamente volgare, le cui qualità estetiche non sono quasi mai eccelse (perché poi nella maggior parte dei casi la qualità della produzione è bassa), è certamente uno degli elementi che contraddistinguono uno spazio democratico, cioè il diritto di mostrare il godimento; in modo speculare invece non c’è spazio totalitario che non preveda la rimozione della pornografia. Quindi che rapporto c’è? Un filosofo come Alain Badiou dice che la democrazia (ma lui la critica in questo) è lo spazio dei corpi e del loro godimento; in questo riprende Platone e la critica platonica alla democrazia, ma in questo senso noi possiamo pensare che c’è un intimo legame tra spazio democratico e circolazione di un immaginario di tipo pornografico, inteso nel senso di ostentazione dei corpi e del loro godimento.

 

Addentriamoci ora in un altro tema, per noi molto interessante. Nel suo libro La filosofia di Harry Potter lei dà molta importanza al contrasto tra il mondo magico e quello dei cosiddetti babbani. Questa dicotomia favorisce il discorso riguardante l’alterità, ciò che è altro da noi e il relativo incontro che esperiamo. Che cosa può insegnarci il mondo di Harry Potter riguardo al concetto socialmente condiviso di normalità e del suo rapporto con la stranezza?

L’interesse per una saga come quella di Harry Potter può essere molteplice. Uno degli elementi è quello collegato alla domanda e cioè il fatto che la natura del romanzo di Harry Potter lo rende sui generis, tenta di mostrare il contrasto con una supposta “normalità” per codificare come spazio quello dettato da alcune regole, comportamenti morali e politici, in opposizione ad uno spazio altro che invece viene a mostrare il limite del precedente, quello della “normalità”, e lo rivalorizza. Il mondo dei Babbani è un mondo che si vorrebbe presentare come l’unico possibile ma questa normalità in realtà viene vissuta come una sorta di prigione; ecco che la scoperta del mondo magico è la scoperta di un’altra via per un altro mondo possibile. Si realizza in questo senso il passaggio tra i vari mondi, passaggi che permettono ai soggetti di trovare un mondo in cui possano aumentare le proprie potenzialità dell’esistenza. Dall’altro lato è interessante il fatto che lo spazio del mondo sia una sorta di multiverso che mette in discussione non solo il paradigma della normalità ma anche il paradigma della razionalità come l’unica chiave per interpretare il mondo; è ovvio che se il mondo è uno ed è retto da quelle leggi sarà uno strumento privilegiato, ma nel momento in cui si mostra che quel mondo è solo una nicchia accanto ad altre, ebbene allora dovremmo utilizzare altri strumenti.

Questa saga è anche molto interessante perché non arriva a rigerarchizzare i mondi, il mondo magico e quello vero e razionale. A questo punto non ci interessa più farlo, sono mondi che si compenetrano l’uno con l’altro e non l’uno affianco all’altro, sono pieni di passaggi all’interno e sono ripiegati l’uno nell’altro. Ci sono persone che sanno muoversi in entrambi utilizzando risorse differenti, per esempio Hermione Granger è una giovane maga molto razionale ma che deve anche sapere utilizzare la stranezza più assoluta, ma penso anche a Luna Lovegood che come personaggio è considerata una pazza ma in realtà ha semplicemente un altro modello di lettura della realtà e in certi contesti la lettura stramba, sfocata, fuori fase, permette addirittura di vedere pezzi di realtà che altri non vedono, ed è il caso delle creature “invisibili” ma che in realtà ci sono (i Thestral, ndR). Tutto questo è un tentativo di rompere con la chiusura della normalità per contrapporre quello che oggi la filosofia e la sociologia chiamano un sistema ad alta complessità: il mondo Hogwarts  è davvero un mondo ad alta complessità e il divenire soggetti di questi maghi è il dedicarsi ad attraversare la complessità con strumenti differenti, perché è vero che loro usano la magia (che è fatta di atti linguistici), ma usano anche la tecnica (e il padre di Ron Weasley ne è un esempio).

Cito inoltre Foucault nel testo per mettere in discussione il paradigma della normalità. Nello spazio normale dei Babbani per esempio ci sono le figure degli zii, che sono figure di aurea mediocrità per i quali qualsiasi persona che si allontana dal paradigma di normalità è un pericolo, una minaccia − lo zio di Harry è una minaccia, Harry stesso è una minaccia e così via. Tutto questo ci fa rivedere la dimensione della soggettività e ci fa riscoprire un altro tipo di etica. È inoltre in questo spazio accettato nella sua molteplicità che la relazione con l’altro non è semplicemente quella “l’altro è un nemico”, ma nemmeno quella finta buonista per cui “l’altro è una ricchezza” che anche nella sua diversità ci farà sempre bene. Pensiamo alla figura di Dobby, l’elfo domestico e dunque brutto esteticamente, distante dalla sensibilità di Harry, tuttavia il loro rapporto d’amicizia non si concretizza subito perché è una ricchezza, anzi, Dobby causa subito dei danni a Harry perché la distanza è molta. Ora il problema è che il rapporto con l’alterità ha un suo reale disturbante, ovvero l’elfo è disturbante, ma proprio a partire da questo si deve tessere un rapporto vero di riconoscimento e di amicizia, che non si costruisce sul fatto che l’altro mi dà ricchezza e quindi lo accetto, sarebbe troppo facile! Sarebbe la facile tolleranza per cui io tollero l’altro anche se è diverso esteticamente ma mi arricchisce e non mi crea problemi. L’altro è invece quello che io non riuscirò mai fino in fondo a comprendere, che ha delle regole davvero molto distanti da me e con cui tuttavia devo trovare il metro con cui misurare la giusta distanza. Su questo per esempio si fonda anche l’amicizia dei tre protagonisti con Hagrid, un mezzogigante che ama creature pericolose: è un’amicizia rimane solida non perché in qualche modo viene addomesticata ma perché loro si assumono la responsabilità di un certo rischio, la possibilità di essere feriti dall’altro, e quindi in questo senso vi è davvero un altissimo livello di riflessione sull’alterità in Harry Potter.

 

Abbiamo trovato molto interessante il capitolo in cui parla dell’atto etico e della figura pedagogica di Silente, il preside di Hogwarts. Crediamo che abbia colto una delle emergenze educative odierne quale l’abbattimento di un autoritarismo ancora vigente. Il consiglio e l’accompagnamento spesso si trasformano in coercizione ritornando dunque ad una visione di normalità anche nelle aspettative evolutive. Crescere secondo certe norme sociali condivise per sentirsi adeguati e giusti mentre la vera tendenza dovrebbe assumere dei caratteri libertari. Che cosa ne pensa e che cosa potrebbe suggerirci il vecchio Albus?

Il vecchio Albus secondo me non suggerendoci quasi niente ci ha detto tutto. È un tipo di impostazione pedagogica quella di Hogwarts in cui il soggetto deve allenarsi a diventare di più, dove l’allenamento, nel senso di ripetizione, errore, confronto con i pericoli, non ha mai eliminato nessun pericolo a questi ragazzi, infatti non sono protetti da nessuno, anzi paradossalmente Silente si occulta nel momento di maggior pericolo. In una narrazione di quel tipo poteva essere che il mago più potente fosse presente a risolvere i problemi, invece fin dall’inizio della saga i momenti di pericolo sono affrontati da questi ragazzi, che paradossalmente si misurano con questo pericolo e crescono ed imparano proprio in questo modo. Molto spesso poi si trovano ad affrontare un pericolo per infrazione di una regola: “non dovete andare in quella parte di Hogwarts”, “non dovete fare questo”, eppure poi non c’è nessuno lì ad impedirglielo. Non è un’educazione banale perché in questo modo sta al soggetto capire come rapportarsi a delle regole; un soggetto etico è qualcuno che valuta l’esistenza di contesti in cui l’etica non è semplicemente l’adeguarsi ad una norma, ma si deve saperla trasgredire, cioè reinterpretare nel modo giusto per rispondere in maniera adeguata a ciò che accade; altrimenti si rischia di trovarsi nella situazione di chi dice “io l’ho fatto perché le regole erano quelle”, che poi era la risposta data da Eichmann al processo di Gerusalemme. Le regole esistono inevitabilmente, il soggetto etico è quello che le valuta, capisce quali può applicare e sceglie che altre le deve trasgredire, prendendosene le responsabilità. Ad Hogwarts un’autorità come Silente non è qualcosa che compromette ed è soffocante, ma qualcosa a cui potranno comunque rivolgersi, e non è un caso che loro certe esperienze gliele raccontino. A questi racconti poi Silente risponde con poche parole, il che significa: io non ti dico niente però tu sai che io ci sono, prova la tua strada, sbaglia, rischia, trova il tuo modo giusto per farlo, confrontati con la tua solitudine. Per questo Silente è stato per loro un grande maestro, anche quando Harry soffriva per il suo silenzio. A questo proposito cito solo una delle sue frasi più importanti sull’etica: “quando e se vi troverete a scegliere tra ciò che è giusto e ciò che è facile, ricordatevi del vostro amico Cedric Diggory”. Etica non è tra ciò che è bene e ciò che è male: è tra ciò che è giusto e ciò che che è facile, ovvero fare la cosa giusta è fare la cosa non facile; in questo senso la via delle regole potrebbe essere anche la via più semplice.

Albus Silente è questo personaggio. Aggiungo che c’è un altro elemento interessante, poiché lui dovrebbe essere la figura positiva per eccellenza della saga ma in realtà nell’ultimo libro viene fuori, tramite una biografia, la sua fascinazione in età giovanile per il lato oscuro. Questo significa che non era un uomo perfetto, ma perché non ci sono uomini perfetti: non lo era il padre di Harry e nemmeno lo era Silente. Dopo un iniziale rifiuto, Harry giunge ad una conclusione: “io so questo”, e finalmente non c’è una visione idealizzata del maestro, è un uomo che gli ha saputo insegnare molte cose, con cui si è confrontato con le sue debolezze e paure, senza contare il fatto che Silente muore, dunque non è il grande mago infallibile. La grande innovazione di J. K. Rowling è questo personaggio luminoso ma con il suo lato oscuro, perché ciascuno ha le proprie problematiche; incarna una pedagogia che non è anarchia ma costruzione ed esperienza della libertà.

 

Dal mondo magico a quello politico. Lei di politica ha avuto modo di occuparsi sia attraverso i suoi scritti (ricordiamo La decostruzione del politico. Undici tesi su Derrida del 2006 e Derrida. Biopolitica e democrazia del 2012), che in prima persona, avendo militato nel Partito Democratico. Cosa ne pensa di un governo retto dai filosofi, come immaginato negli scritti di Aristotele?

L’idea di un governo retto dai filosofi la trovo pericolosa perché in realtà si tratta di una idea di intellettualizzazione della politica che deve essere subordinata ad una forma di sapere. Non è in linea con la concezione dello spazio democratico a cui sono affezionato, poiché nello spazio democratico non c’è una teoria delle élites per la quale sono solo le élites stesse a poter governare. La democrazia è invece lo spazio del governo del popolo attraverso la rappresentanza, quindi qualsiasi elemento che dica che c’è uno spazio di intellettualizzazione della politica è un rischio per la democrazia. È evidente che la degenerazione della democrazia può essere dietro l’angolo e tuttavia la degenerazione di questi anni è dovuta all’illusione che i tecnici possano salvare lo spazio politico nei momenti di crisi. In realtà abbiamo visto che il momento in cui i tecnici vanno al governo sa essere rischioso, questo non perché i tecnici siano peggiori ma perché ai tecnici manca quel tipo di legittimazione democratica. Preferisco un governo che faccia i suoi errori ma che sia stato eletto democraticamente. Questo perché anche la supposta “scienza” che dovrebbe conoscere le cose, ovvero la scienza di tipo economico, oggi dobbiamo considerarla oggettiva; eppure la scienza economica non ha previsto la grande crisi dal 2001 in poi, anche perché questo è un paradigma di lettura, pensare che se mettiamo in atto quella siamo salvi è un’ingenuità assoluta. Quindi diffiderei di un governo di filosofi, ma se piuttosto c’è un governo in cui ci sono anche filosofi mi sta bene. Io ormai ho una certa età ma a me un filosofo come Cacciari sarebbe piaciuto vederlo in un governo di centro-sinistra. Io penso che i filosofi possano dare un contributo, ma un governo di soli filosofi non lo considererei né lo sognerei.

 

Concludiamo, come sempre succede nelle nostre interviste, con la domanda un po’ banale e un po’ difficile: che cos’è per lei filosofia?

Utilizzerò una formula: per me filosofia è non rinunciare a niente nello spazio o nel tempo. Dico questo perché ci sono altre forme di sapere di cultura ecc, ma secondo me la filosofia non ha a che fare con la cultura né con il sapere. La formula socratica del “sapere di non sapere” non è da banalizzare, è importante restare in un orizzonte di non sapere, perché devo avere una libertà radicale di pensiero. Il pensiero della filosofia, per me, è l’unico pensiero che non rinuncia a niente perché non ha una forma di espressione privilegiata: le ha sondate tutte, dalla poesia, all’autobiografia, dalla lettera al saggio universitario e al diario, ecc. Non ha un oggetto privilegiato di interrogazione, può interrogare qualsiasi cosa e anche il nulla, la si può fare su oggetti inanimati, come quando Sartre scopre la fenomenologia e dice “ah, quindi si può fare filosofia anche su un cocktail”… quindi non c’è nulla a priori su cui non possa interrogarsi. Non ha inoltre un metalinguaggio già definito, perché ciascun filosofo ha il suo linguaggio anche tecnico ma non c’è il metalinguaggio della filosofia. In questo senso davvero non rinuncia a niente, compresi i rischi del pensiero, non ha un pensiero edificante, non rinunciare a niente vuol dire anche se vogliamo non rinunciare al lato oscuro, per esempio Heidegger, che è uno straordinario filosofo, è stato nazista? Sì, non si può ridurre questo a “no ma per due mesi per sbaglio, un anno, mezzo anno, ma lui capiva un altra cosa”… no, lui ha avuto (a suo modo) un rapporto con il nazismo che entra anche nei testi filosofici, e ora che sono pubblicati i quaderni neri lo vediamo ancora di più. Scopriamo tutto questo e allora Heidegger non è più un grande filosofo? Non credo, Heidegger resta un grande filosofo, che la filosofia si arrangi; in questo senso la filosofia non rinuncia a niente, non rinuncia neanche a prendersi i rischi estremi, e non c’è nulla quindi di meno rassicurante di un filosofo.

 

La Redazione

 

[Immagine tratta da repubblica.it]

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