Addio all’America

George Floyd è morto in mondovisione per mano di due agenti della polizia di Minneapolis, Minnesota, USA.
Difficile affermare il contrario davanti all’evidenza delle immagini, difficile, o meglio, inutile strumentalizzare l’accaduto: i vari ma, i vari però, i vari bisognerebbe vedere com’è andata nel complesso, si infrangono nel baratro di una società che ha palesemente fallito.

L’America, da quando è stata scoperta, ha sempre cavalcato l’onda dell’aura magica che le abbiamo attribuito, continuamente edulcorata grazie – o a causa – della situazione precaria, belligerante, confusa degli Stati al di qua dell’Atlantico. Il mito di una Terra Promessa, in cui i sogni avrebbero potuto prendere forme decisamente materiali, ha spinto milioni di uomini a una migrazione che non ha mai conosciuto una vera e propria interruzione.
Per molti di questi uomini ha davvero rappresentato un punto di svolta non indifferente, soprattutto dal lato economico; “far fortuna in America” è stato il motto che ha animato intere generazioni, ha ispirato musiche, canzoni, ballate, poesie, testi teatrali e letterari.
Dietro il ridente panorama di progresso e civiltà che segnava il non plus ultra della società occidentale, si annidava tuttavia il germe silenzioso che avrebbe poi generato le grandi contraddizioni dalle quali dobbiamo prendere definitivamente distanza.

Gli Stati Uniti sono stati fondati da inglesi, olandesi, svedesi, tedeschi, italiani, irlandesi, spagnoli e, con la tratta degli schiavi, africani. Per cercare di costruire un’identità comune a questo mosaico di popoli, la classe dirigente americana ha sempre fatto leva sul simbolismo: la bandiera, l’inno nazionale, la celebrazione delle ricorrenze patriottiche, la mitizzazione di alcune figure chiave come George Washington, Thomas Jefferson, Abraham Lincoln, senza dimenticare icone più popolari come l’hot-dog, il baseball e migliaia di altri stereotipi che hanno contribuito ad alimentare la great America.
Un percorso che se in origine partiva dall’Europa e dagli europei, all’inizio della Guerra Fredda, anche grazie al bipolarismo mondiale, prendeva la direzione opposta; una sorta di reflusso magico.

Eppure solo nel 1964, con la Civil Rights Act, veniva formalmente abolita la segregazione razziale e l’anno successivo aumentavano gli aventi diritto al voto. Sempre nel Paese dalle origini multietniche si è sviluppato il Ku Klux Klan, gruppo terroristico dedito all’esaltazione della razza bianca, tuttora presente e in attività.
Negli Stati Uniti è presente il Partito Nazista Americano – i “Nazisti dell’Illinois” citati nel film The Blues Brothers – un po’ in contrasto con l’esaltazione commemorativa dei veterani e dei caduti di tutte le guerre, compresa ovviamente quella vinta proprio contro i veri nazisti.
Negli USA persiste la ghettizzazione, autonoma o figlia dell’abitudine, del “perché è sempre (?) stato così”, e pur essendo una fonte di contrasto sociale che spesso sfocia in atti vandalici fino a veri e propri atti criminali, non è mai stato preso un provvedimento efficace per migliorare la coesistenza tra i popoli; probabilmente la frattura generatasi in un periodo remoto della storia americana, risulta ad oggi apparentemente insanabile.

Negli Stati Uniti sono presenti scienziati che hanno portato l’Uomo sulla Luna, e persone che sparano agli uragani convinte di poterli fermare; presidenti riconosciuti dai più come figure di riferimento, e altri presidenti che consigliano di combattere le malattie grazie all’iniezione di disinfettante; altri presidenti premiati con il Nobel per la Pace e altri ancora che sganciano l’atomica e parenti dell’atomica sulle popolazioni inermi.
Persone che protestano per l’ennesimo omicidio insensato e altre che “per protesta” assaltano negozi, abbattono statue di Cristoforo Colombo, inseguono un politicamente corretto che ne distorce ridicolmente i presupposti quando si mette sotto accusa un film di fine anni ’30 considerato improvvisamente razzista. Manca bel un rogo di libri alla Savonarola all’appello ma attendiamo fiduciosi.
Quello americano è un fallimento bello e buono, che si ripercuote nelle società volutamente subalterne con l’emulazione degli atti sopra elencati. Ciclicamente avviene una sorta di caccia alle streghe, al razzista, al sessista, al maschilista, al misogino, all’abortista, al divorzista, all’ultra-cattolico ecc. senza tuttavia provare a risolvere il problema a monte, cambiando cioè mentalità, è da essa infatti che derivano le azioni.

Una delle prime fondamentali azioni che noi, appartenenti alla società europea, potremmo fare è proprio quella di dire addio alla società americana che, all’alba del secondo ventennio del XXI secolo e alla luce delle evidenti contraddizioni inspiegabilmente irrisolte, non ha più ragione di presentarsi come modello da perseguire.
Prendere atto del crollo del mito americano significherebbe voltare coraggiosamente pagina.

 

Alessandro Basso

 

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Una parola per voi: conquista. Luglio 2019

«Questo è un piccolo passo per un uomo ma un grande balzo per l’umanità».

Neil Armstrong, 21 luglio 1969
 
Cinquant’anni fa l’umanità intera, incollata davanti agli schermi televisivi o ipnotizzata dalla radiocronaca, balzò sulla Luna insieme a Neil Armstrong e a Buzz Aldrin. «If you believed they put a man on the moon…» cantavano i R.E.M. nel 1992, ossia «Se hai creduto che hanno portato un uomo sulla Luna…», alludendo, naturalmente, all’eccezionalità dell’evento, avvenuto in un’epoca ancora scarsamente tecnologica.
 
Eppure, checché ne dicano i complottisti o gli scettici, lo sbarco sulla Luna fu a tutti gli effetti un momento storico e lo fu perché sancì la conquista, da parte dell’essere umano, d’un territorio extra-terrestre. Quel giorno di luglio del 1969 l’uomo travalicò i suoi stessi limiti, approdando a un luogo estraneo, non concepito per lui. Un’avventura fantascientifica, una missione indimenticabile. Indelebile nelle nostre menti resterà per sempre la celebre frase pronunciata da Armstrong: con essa l’astronauta volle sottolineare che le grandi conquiste si fanno poco alla volta, tramite piccoli passi che fanno guadagnare terreno e conducono alla meta finale. Quel giorno lui fece una “semplice” passeggiata, che tuttavia simboleggiò il raggiungimento di un risultato epocale e grandioso per la razza umana.
 
In questo luglio bollente, noi de La Chiave di Sophia volgiamo uno sguardo alla Luna, riflettendo sulle grandi e sulle piccole conquiste. La parola per voi di questo mese è appunto conquista. Essa a volte è assoggettamento, prevaricazione, violenza – basti pensare alle prime scoperte geografiche e al colonialismo – ma può rappresentare anche un balzo in avanti, un miglioramento, un’evoluzione – si pensi ad esempio alla conquista di diritti civili, sociali e politici.
A quali film, libri, canzoni o opere d’arte vi fa pensare la parola conquista? Ecco ciò a cui abbiamo pensato noi!
 
 

UN LIBRO

chiave-di-sophia-una-stanza-tutta-per-seUna stanza tutta per sé Virginia Woolf

Opera dal contenuto rivoluzionario. La Woolf parte da un’esperienza biografica, il rigetto della società patriarcale sentita come una prigione, per analizzare il rapporto storico tra il mondo femminile e la letteratura. Testo cardine della lotta femminista, in esso l’autrice riflette su come fino al Settecento, una donna, per quanto dotata di talento, non avrebbe mai potuto avere uno spazio in una società maschilista. Perché una donna conquisti il proprio posto nel mondo, diviene necessario non equiparare i due sessi, i quali presentano essenziali differenze, ma identica dignità. Da qui un appassionato appello alle donne affinché siano curiose, intraprendenti e non smettano di combattere per sé.

 

UN LIBRO JUNIOR

chiave-di-sophia-che-noia-il-ciuccioChe noia il ciuccio che noia! – Alessandra Goria, Serena Riffaldi

Il vostro bambino non ne vuole sapere di abbandonare il suo fedele ciuccio? Questa allegra storiella fa al caso vostro! Immagini colorate, rime e filastrocche forse lo convinceranno a realizzare questa piccola-grande conquista e a diventare grande per davvero! I più affezionati saranno contenti di trovare, nella seconda di copertina, un riquadro su cui incollare una propria foto con il ciuccio, per poi conservare il libro come un dolce ricordo d’infanzia.

 

UN FILM

chiave-di-sophia-diritto-di-contareIl diritto di contare – Theodore Melfi

Tre donne afro-americane, calcolatrici nel campus aereospaziale della NASA a Langley, Virginia, con il loro talento, le loro capacità e l’ardente desiderio di riscatto hanno posto le basi per la vittoria americana della competizione per lo spazio contro l’allora Unione Sovietica. Si tratta della matematica Katherine Johnson, l’ingegnera Mary Jackson e la responsabile del settore IBM Dorothy Vaughn, magistralmente interpretate da Taraji P. Henson, Janelle Monáe e Octavia Spencer nel film “Il diritto di contare”, pellicola del 2016 del regista Theodore Melfi. Le tre calcolatrici lavorarono ad una delle più grandi operazioni della storia: la spedizione in orbita dell’astronauta John Glenn, un obiettivo importante che non solo riportò fiducia nella nazione, ma che ribaltò completamente la “corsa allo Spazio”. Due grandi conquiste: non solo quella spaziale, ma quella del diritto al riconoscimento delle proprie capacità e del proprio talento per tre donne di colore in uno dei momenti più difficili della segregazione razziale in America.

 

UNA CANZONE

parola-del-mese-conquista-queenWe Are the Champions – Queen

Il suo ritornello è un must di ogni vittoria, così noto da apparire scontato, ma quanti oltre a “Weeeee are the chaaampions my frieeeeeeeeends” hanno provato ad ascoltare (o leggere con calma) il testo? Perché il testo non parla di una vittoria qualunque ma di una vittoria conquistata con fatica e dolore. “And bad mistakes / I’ve made a few / I’ve had my share of sand kicked in my face / But I’ve come through” (“Di brutti errori / ne ho fatti un bel po’ / ho avuto la mia parte di sabbia buttata in faccia / ma ne sono venuto fuori”) canta Farrokh Bulsara in arte Freddie Mercury, e probabilmente lo fa con cognizione di causa. I Queen hanno raggiunto un successo stratosferico e infatti, a quasi trent’anni dalla morte del loro leader, troviamo i loro pezzi insinuarsi ancora negli spot commerciali, nei programmi televisivi, nei video. Sicuramente ognuno di noi ha raggiunto un successo, una piccola grande conquista, che lo può far sentire in assoluta sintonia alla canzone quando Freddie canta “But it’s been no bed of roses / no pleasure cruise / I consider it a challenge before the whole human race / and I ain’t gonna lose” (“Non è stato un letto di rose / né una crociera di lusso / La considero una sfida di fronte all’intera razza umana / e io non la perderò”): del resto è proprio grazie alla fatica che si può trarre un grande godimento dalla propria conquista.

 

UN’OPERA D’ARTE

juditta-klimt-conquistaGiuditta – Gustav Klimt

Quest’opera del 1901 è tra le più famose in assoluto non solo di Klimt ma di tutta la Secessione Viennese. Il riferimento biblico è un pretesto per dipingere una donna forte, come quelle che stavano cominciando ad emergere all’inizio del Novecento e che in ogni Paese iniziavano a conquistare uno dei riconoscimenti civili più importanti: il diritto al voto. Klimt spinge questa donna all’estremo, ad una fredda crudeltà che però le consente di vincere l’oppressore (l’uomo, Oloferne) e di conquistare la propria libertà. Insieme al soggetto, anche lo stile si rende partecipe di questa volontà di conquista del proprio diritto ad essere ciò che si è e di conseguenza ad esprimersi in tal modo. Come espresso infatti dal motto scritto a chiare lettere dorate sulla facciata del Palazzo della Secessione a Vienna (“Ad ogni epoca la sua arte, ad ogni arte la sua libertà“) anche l’arte stessa in quel periodo cerca di liberarsi dal peso dell’accademia e degli stili del passato per potersi esprimere al proprio meglio e con le proprie modalità. Una delle più grandi conquiste dell’arte del Novecento.

 

Francesca Plesnizer, Sonia Cominassi, Federica Bonisiol, Martina Notari, Giorgia Favero

 

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Economia in ostaggio

L’economia è una scienza. Si avvale del metodo scientifico, del rigore accademico, e dello studio matto e disperatissimo su numeri, algoritmi, e piani cartesiani. Con un pizzico d’immaginazione li potremmo definire opere d’arte, espressione dello spazialismo. Tipo Lucio Fontana.
Basta leggere una pagina di giornale, accendere trenta secondi un tg, e la nostra testa viene subito bombardata da termini come: rapporto deficit/pil, debito pubblico, spread, tassi d’interesse, tan, taeg, tog, tug, tig e via dicendo.

Eppure, a fianco dei massimi esperiti e professoroni, troviamo il circo: la politica.
Un enorme parco giochi, dove lo spread è l’altalena, il debito pubblico la “rete ragno”, il rapporto deficit/pil uno scivolo difettoso, che invece di far scendere, fa andare giù a tentoni, a colpi di spintarelle e mosse “vade retro”, o almeno così ci giocano i neonati delle correnti, i piccoli bambini di partito e i ragazzetti di governo.

Si ramifica in questo modo, la connessione tra due mondi squilibrati, fatta di tensioni e conflitti, da un odi et amo infinito. Si fa fatica a seguire i numeri nel loro rigorismo, quando ci si occupa di lavoratori e pensionati e per tale ragione la politica fa presto a ridurre le scienze economiche a mero strumento o mezzo per le proprie ideologie.

Ed è in questo contesto che potremmo collocare da una parte il Nazional Automobilismo, definizione del giornalista Vittorio Zucconi in un articolo di Repubblica1, per definire la politica protezionistica di Trump fatta di dazi e minacce a mezzo mondo. A tutto il resto del mondo, tolti gli Stati Uniti, per ora.
Dall’altra invece i recenti azzardi del governo di Roma nei confronti di Bruxelles.

Nel caso del Tycoon, la linea politica ha preso una direzione ben chiara: cambio del paradigma economico. Dall’espansionismo globalizzato del nuovo millennio al protezionismo di inizio ‘900. Prospettiva economica le cui basi politiche risiedono nel bacino elettorale composto da quegli elettori, che si sentono traditi dal proprio vicinato, dove l’erba del vicino è sempre la più verde solo perché, forse, usa un migliore pesticida.
Una parte di società che stenta a cambiare, forse per necessità o per paura. Non è importante la causa, ma propriamente l’origine. Un punto primo che si scinde dalla contingenza, e assume caratteri filosofici.

Infatti la cornice delle nuove direttive nella politica centrale americana si concentra su la difesa dei propri confini culturali. Un bacino ricco di storia, tradizione, identità. Sembra essere tornati alla lotta fratricida nella Roma repubblicana, dove ognuno era obbligato a prendere posizione per la protezione o per l’innovazione del Mos Maiorum – l’insieme di costumi e usanze degli antenati – dopo l’arrivo degli schiavi greci, lasciando eventualmente posto all’ellenismo.
A quel tempo vinsero entrambi dando vita all’humanitas, collante futuro del Rinascimento italiano. Questo perché cultura significa fruibilità, assimilazione, eterogeneità.

Ma la terra va difesa, e con essa il lavoro che sia acciaio o carbone – il global warming può aspettare; le macchine americane ancora di più, basta Audi o Mercedes, bisogna risollevare la Ford e con essa il fordismo proprio ora che ci avviciniamo all’industria 4.0. Poi avanti con il whisky, le motociclette made in USA, e perché no, ritentare la pianificazione della rete ferroviaria di inizio ‘800. 
Tutto giustificato, o mascherato – la dissimulazione è fondamentale nella politica – grazie all’uso delle discipline economiche. 

Levi-Strauss, antropologo, psicologo e filosofo francese, una volta disse «la mente scientifica non fornisce tanto le risposte giuste quanto le giuste domande».
Un pensatore che cercò per tutta la vita di creare inaspettate convergenze interdisciplinari. Come si auspica possa verificarsi tra l’economia e la politica, senza che una delle due possa prevaricare sull’altra. 

Intanto, da una parte in America non si sa ancora chi sarà il vincitore o come andranno a finire i giochi. I governi vanno e vengono, ma se non fosse così?
Ora, Trump è il nuovo Catone in pectore – spero di non aver urtato la sensibilità dei latinisti – e ci si domanda chi sia Cicerone.
Dall’altra invece un governo europeo contro l’Europa, una guerra fratricida con un unico obiettivo: vincere; forte del consenso datogli, ma meno dai numeri. E vinceremo risponderebbe qualcuno, anche se quando fu pronunciata per l’Italia fu la rovina. Speriamo non accada anche questa volta.     

 

 Simone Pederzolli

 

NOTE
1.V.  Zucconi, La sfida a quattro ruote, ecco dove nasce l’odio di Trump per il Maggiolino, 23 giugno 2018.

[Photo credit: Steve Johnson on Unsplash.com]

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Un anno di Trump tra Twitter e fake news: verità e post-verità

Il 20 gennaio scorso si è celebrato il primo anniversario dell’insediamento di Donald J. Trump come quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America. I bilanci di questo primo e assurdo anno di amministrazione di The Donald si sprecano e si sprecheranno. Tra analisi sulla politica interna ed estera, Russiagate e immigrazione, sono molti i punti che meritano attenzione. I successi sono stati pochi: la nomina di un giudice della Corte Suprema e la riforma fiscale, mentre le sconfitte vanno dalla fallita abolizione dell’Obamacare alla perdita di un seggio sicuro al senato fino allo shutdown del governo. Quello che più ha stupito di Trump presidente, in questi dodici mesi, è stato però l’atteggiamento che ha quasi sempre tenuto nel dibattito politico e nei suoi rapporti con la stampa. Laddove si pensava che la comunicazione di Trump istrionica, esagerata e infarcita di bugie in campagna elettorale, potesse avere una svolta istituzionale una volta diventato presidente, si è stati ben presto smentiti dall’interessato.

Se torniamo con la memoria al giorno dell’insediamento ci potremmo ricordare che tutto cominciò con una colossale bugia. Trump e la sua amministrazione dissero che la cerimonia era stata un successo, una delle più seguite di tutti i tempi. Le foto del prato semideserto a confronto con quelle dell’insediamento di Obama smentirono quella affermazione, sebbene Trump e i suoi continuassero a proporre un altro tipo di verità.

La realtà alternativa o post verità è stata una costante prima nella campagna elettorale e poi nella presidenza Trump. Bugie dette non solo per promettere cose irrealizzabili o infuocare gli animi della base, ma per creare una narrazione del “noi” contro “voi” che ha polarizzato l’opinione pubblica e ha garantito a The Donald il sostegno di quelli che l’hanno votato. Dire la verità non è più un asset così vantaggioso, meglio costruirsene una.

Trump da quando si è candidato ha rotto costantemente le regole della dialettica tra uomini politici. Lo ha fatto un po’ consciamente e un po’ di puro istinto, quello per la battuta pesante, per la risposta arrogante e per il contrattacco come forma di difesa. Nessun presidente ha mai preso così sul personale le critiche al proprio operato o all’operato della propria amministrazione. E l’opinione pubblica americana non è stata tenera con nessun presidente, escluso forse il primo Obama.

Il presidente ha bollato ogni critica a sé e ai suoi collaboratori come fake, falsa, e ha iniziato a chiamare tutti i media critici fake news media, dalla Cnn a New York Times e Washington Post, meno il conservatore Fox News ritenuto invece affidabile. Trump ha accusato questi giornali e canali televisivi non solo di essere faziosi e schierati con i democratici, ma di inventarsi notizie con il proposito di screditarlo. Il tutto l’ha riassunto con la frase, più volte pronunciata: “You are fake news!”, riferita ai media sgraditi.

Un altro punto della presidenza Trump da sottolineare è il massiccio e sregolato uso di Twitter. Trump nel suo primo anno ha scritto 2595 tweet dal suo account personale e solo 2 da quello ufficiale @POTUS. Su Twitter Trump ha dettato l’agenda politica, ha criticato e insultato i democratici come i repubblicani non allineati e ha cercato di gettare discredito sulla stampa americana come sull’inchiesta che lo coinvolge. Il presidente è parso più volte preso da un raptus incontrollato che lo ha portato ha twittare più volte in pochi minuti, magari dopo essere venuto a conoscenza di qualcosa a lui sgradito dalla televisione.

Ha scritto ciclicamente che Hillary Clinton è corrotta e meriterebbe la galera, ha retwittato video falsi e islamofobi e un altro in cui, fuori da un ring di wrestling, mette al tappeto un uomo, che ha però il logo della Cnn sulla testa. Solo per citare alcune delle sue uscite social più famose.

L’impulsività e la litigiosità di Trump sui social, quando cioè è lasciato solo e libero di esprimersi, contrasta con i discorsi che fa invece leggendo dal gobbo. I secondi, come l’ultimo sullo stato dell’Unione, risultano molto più normali. Alla luce anche di questo, oltre che della sua e della dieta, hanno fatto dubitare a molti della salute e della stabilità mentale del presidente. Per fugare questi dubbi Trump si è fatto visitare recentemente e il suo medico ha fatto sapere che il presidente è in forma.

Esclusa per il momento l’ipotesi che il presidente degli Stati uniti d’America non sia totalmente sano di mente, resta il fatto che agendo come ha fatto nell’ultimo anno Trump ha cambiato il dibattito pubblico americano. Attaccando per non essere attaccato, insultando per primo o in risposta ad altrui offesa di certo non è riuscito a essere il presidente di tutti anzi. Forse Trump è sia la causa che l’effetto dell’odio e dell’intolleranza che vediamo riversata quotidianamente nella rete.

Di certo un presidente così, con questo modo di comunicare non si era mai visto. E anche i sondaggi che mostrano la politica Usa sempre più polarizzata tra destra e sinistra fotografano probabilmente sia la causa che l’effetto di un dibattito non sano. Sarà Trump un prodotto di questi tempi, chi lo sa. Forse non starà cambiando l’America, ma di sicuro il modo in cui si vive la politica.

Tommaso Meo

 

Letture consigliate per approfondire:
NY Daily News, Trump is a madman
Il Post, Il primo anno di Donald Trump da presidente, in cifre

 

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Dalla fama, per la fama: Andy Warhol in mostra ad Asolo

Genio, sregolatezza, anticonformismo, tre parole per esprimere uno degli artisti più noti e amati della Pop Art: Andy Warhol. Fondatore della Factory, autore di famose serigrafie, Warhol ha scosso il panorama artistico americano degli anni ’60, esprimendo con innovazione la realtà del tempo, facendosi interprete di un mondo e delle sue contraddizioni. Marylin Monroe, Aretha Franklin, Mick Jagger sono solo alcuni dei volti riprodotti con ripetitività incalzante nelle sue opere, oggi visibili presso la mostra ospitata al Museo Civico di Asolo, aperta al pubblico dal 28 gennaio al 17 aprile 2017 e che segna i 30 anni dalla morte. Un evento da non perdere, che permette al visitatore di viaggiare nel tempo e nello spazio, per immergersi nell’America di cinquant’anni fa, negli anni del boom economico e del successo dei mass media.

Il percorso ha inizio nelle sale antistanti a Sala della Ragione, dove è situata la mostra vera e propria. Il turista viene dapprima avvicinato alla realtà di Warhol con una serie di immagini e didascalie che offrono alcuni scorci sul suo mondo e su quello dei suoi collaboratori, rivelando momenti di vita, aneddoti interessanti di un passato in fondo non così lontano da noi.

«Nel futuro ognuno sarà famoso per quindici minuti».

«Non è forse la vita una serie di immagini, che cambiano solo nel modo di ripetersi?»

«La pop art è un modo di amare le cose».

Queste sono solo alcune delle citazioni che lo ricordano, che rendono indelebile l’immagine dell’uomo eccentrico, dai capelli color paglierino, che era solito indossare scarpe da tennis anche in situazioni ufficiali. Un uomo e un artista che ha fatto storia e che è riuscito a cogliere intimamente ciò che lo circondava, rappresentandolo in opere innovative. Da questi primi spunti, che si possono intuire già nella rassegna di fotografie all’ingresso, il visitatore è spinto poi ad addentrarsi nel cuore della mostra, dove sono ospitate più di cinquanta opere originali, quasi tutte serigrafie accompagnate da poche litografie, che ripropongono gli aspetti salienti della sua arte: dalla ripetitività alla riproduzione degli oggetti di consumo, dalla ritrattistica ad omaggi che ricordano i più famosi artisti dell’epoca. Si tratta di opere che provengono da tre collezioni private, due venete e una lombarda, non visibili in altri musei. Un evento che permette dunque di toccare la sua produzione da molte angolature, di conoscere a tutto tondo la sua arte, anche quella inedita, se non fosse soltanto per la presenza dei libri che occupano un intero angolo della grande sala.

Ma addentriamoci ora più a fondo nella sua opera: che cosa rende Warhol davvero Warhol? La serigrafia, innanzitutto: la tecnica di stampa da lui utilizzata per simulare la produzione in serie, la corsa verso la massima redditività e il massimo consumo, calzante rappresentazione dell’America del tempo; la scelta di soggetti noti, in secondo luogo, sia nell’ambito del cinema che in quello alimentare: da Marylin Monroe alle lattine Campbell, da Mao Tze Tung alla famosa Coca-Cola, la bevanda più nota agli americani. Tuttavia si può dire che Warhol non sia solo questo, ma molto di più: egli è ricerca profonda e sofferta della fama, unico antidoto contrapposto al fantasma della morte, è rottura con il pensiero artistico precedente, è infine interesse per gli affari: «essere bravi negli affari è la forma d’arte più affascinante. Fare soldi è un’arte» diceva lui stesso. Un autore versatile dunque, dalle mille passioni, che è riuscito ad interpretare un’epoca e una realtà di cui noi siamo figli e da cui dipendiamo profondamente.

Tutto questo ad Asolo, con apertura al pubblico il giovedì e il venerdì dalle 15.00 alle 19.00, il sabato e  la domenica dalle 9.30 alle 12.30 e  dalle 15.00 alle 19.00. Qui per maggiori informazioni.

 

Anna Tieppo

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

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Selezionati per voi: marzo 2017!

Marzo, note floreali che inaspettate si fanno spazio in una giornata di pioggia, cieli azzurri che invitano a fermarsi, a sollevare gli occhi, a scuotersi dal torpore invernale, la luce che in un mattino qualunque ci sorprende più limpida e pulita. Aria che profuma di nuovo, di occasioni ancora in boccio, di quella meravigliosa ostinazione alla vita chiamata primavera.

La selezione di libri di questo mese porta con sé una ventata di rinascita. Il libro Junior è all’insegna del divertimento, vero motore di queste prime giornate soleggiate, durante le quali i nostri bambini riscoprono il piacere di trascorrere dei momenti in compagnia all’aria aperta. I film, invece, ci aiutano ad aprire gli occhi sul mondo che ci circonda, aiutandoci a riflettere sulla dimensione dei rapporti interpersonali e sulla percezione dell’Altro.

 

LIBRI

chiave-di-sophia-isola_di_aliceL’isola di Alice – Daniel Sanchez Arevalo

Alice ha poco più di trent’anni, una bimba di sei anni ed un’altra in arrivo, quando riceve una telefonata nel cuore della notte: Chris, suo marito, ha avuto un brutto incidente e morirà poco dopo in ospedale. Ma questo non è tutto, il luogo in cui Chris si trovava non era quello in cui sarebbe dovuto essere. Il tarlo del dubbio si insinuerà nella mente di Alice, che si aggrapperà morbosamente alla ricerca della verità, percorrendo il suo personale sentiero verso il superamento del dolore. Un romanzo psicologico carico di fascino, in cui l’accettazione del dolore passa attraverso un sentiero dissestato fatto di segreti e bugie. Un finale assolutamente inedito, che sa stupire  ed emozionare.

 

chiave-di-sophia-magari-domani-restoMagari domani resto – Lorenzo Marone

Luce ha trent’anni e vive a Napoli, in un monolocale umido nei Quartieri Spagnoli. Ha un lavoro come avvocato che non la soddisfa pienamente e un carattere duro, caustico, forgiato dall’assenza di un padre andato via troppo presto. Una causa d’affido farà in modo che la sua strada incroci quella di Kevin, un bambino saggio con un padre camorrista. Andare o restare? Questo l’interrogativo che percorre pagine intrise di sentimento, umanità, ironia, sullo sfondo di una Napoli che ci sorprende con il suo volto migliore. 

 

casa-di-tutte-le-guerre-la-chiave-di-sophiaLa casa di tutte le guerre – Simonetta Tassinari

Siamo nel 1967. Silvia ha dieci anni e mezzo, vive a Bologna e, come ogni estate, si appresta a trascorrere i mesi di vacanza a Rocca, a casa dell’adorata nonna Mary Frances. Quei mesi per Silvia significano tante cose: chiacchierate in giardino con la nonna, manicaretti preparati dalla Bea, recite in parrocchia, pomeriggi al parco a pattinare con gli amici del paese, ore trascorse a fantasticare in una soffitta ingombra di ricordi. Proprio in quella soffitta, Silvia scoprirà qualcosa che smuoverà l’aria ferma e stantia che aleggia sulla casa dei nonni. Una storia che si dipana sullo sfondo degli anni settanta, con sentimenti teneri, sofferenze nascoste, amori familiari, vecchi strappi che non è possibile ricucire ma che, forse, possono ancora essere rattoppati.

Stefania Mangiardi

 

LIBRO JUNIOR

Ella_cop_ese.inddElla e i suoi amici – Timo Parvela

Dalla lontana Finlandia arriva questo libro carico di divertimento. Protagonisti un gruppetto di amici scatenati che con la loro simpatia riusciranno a travolgere sia i primi lettori, visto il fatto che il libro è composto da tre racconti brevi, sia i più grandicelli, vista l’ironia con la quale il testo è scritto. Ella e i suoi amici hanno un’immaginazione e una fantasia incredibili, grazie alle quali sanno rendere la loro quotidianità una vera avventura!

Federica Bonisiol

 

FILM

toni-erdmann-la-chiave-di-sophiaVi presento Toni Erdmann – Maren Ade
Con l’inizio del mese di marzo le sale italiane continuano a riempirsi di film che hanno fatto incetta di nomination durante l’ultima notte degli Oscar. Tra questi, uno dei migliori è senza dubbio il nuovo lungometraggio della regista tedesca Maren Ade che, grazie a un mix perfetto di intelligenza ed eccentricità, ha saputo raccontare la storia di un rapporto genitoriale in maniera toccante e, allo stesso tempo, completamente fuori dagli schemi. Strepitosa la recitazione dei due attori protagonisti (Peter Simonischek e Sandra Hüller), indimenticabile la sequenza sulle note della hit di Whitney Houston The greatest love of all. USCITA PREVISTA: 2 MARZO 2017

 

artwork-loving-chiave-di-sophiaLoving – Jeff Nichols
Mildred e Richard Loving si amano e decidono di sposarsi. Niente di più normale se non fosse che lui è bianco e lei e nera e che ci troviamo nell’America segregazionista degli anni ’50. Una storia d’amore travagliata e complessa, raccontata con grande enfasi dal veterano del cinema americano Jeff Nichols. Il film non è nulla di sensazionale, diversamente dalla performance della straordinaria Ruth Negga, candidata all’Oscar grazie a un’interpretazione davvero degna di nota. Da vedere in compagnia della propria dolce metà. USCITA PREVISTA: 16 MARZO 2017

 

notnegro_chiave-di-sophiaI am not your negro – Raoul Peck
Un documentario incredibilmente riuscito ed efficace, raccontato interamente con le parole di James Baldwin, attraverso il testo del suo ultimo progetto letterario rimasto incompiuto. Un affresco schietto e veritiero sull’essere persone di colore in America. Il cinema si trasforma allora in impegno civile e sociale, partendo da fatti storici realmente accaduti e arrivando a farci prendere coscienza di come l’immagine dei Neri in America venga oggi costruita e rafforzata nell’immaginario collettivo statunitense. La voce narrante del film è quella del leggendario Samuel L. Jackson. USCITA PREVISTA: 22 MARZO 2017

Alvise Wollner

[Immagini tratte da Google Immagini]

È la democrazia bellezza (?)

Ovvero ha senso considerare accorgimenti al suffragio universale per un migliore funzionamento della democrazia? O forse bisognerebbe ragionare d’altro?

Se ne sta discutendo in questi giorni successivi all’incredulità di buona parte dell’opinione pubblica e dei media di fronte all’elezione di Donald J. Trump a presidente degli Stati Uniti d’America.

In un sistema democratico tutti gli aventi diritto, esprimendo il loro voto, scelgono dei rappresentanti affinché facciano quello che li ha eletti: il bene comune, l’interesse della comunità, regione o nazione che sia. Se però i votanti non decidono per l’alternativa che appare la migliore e la più utile a tutti, il problema è del sistema, degli elettori o sta a monte?
Questa discussione parte da un presupposto abbastanza unilaterale che chi voti partiti estremisti e/o reazionari, xenofobi o solo populisti sia un ignorante. In realtà non è così, ma molto più complicato, come si è visto dalla vittoria di Donald Trump. Comunque sia alcuni ricominciano a chiedersi se il voto di questa persone debba valere come quello di una persona mediamente istruita e consapevole o meno.

La democrazia funziona solo se informata, come disse Franklin Delano Roosvelt,  ma allora che valore ha un voto se un terzo dei cittadini americani non sa nominare uno dei tre rami nei quali è suddiviso il potere in America? Il voto di una persona intelligente può valere come quello di un ignorante? Queste e altre domande si susseguono, nella corsa a capire le responsabilità e le reali volontà di una vittoria non pronosticata. E per capire che strada dovrà prendere la democrazia di qui in avanti.

Dopo questa scioccante tornata elettorale (si pensi anche a Brexit), si è ancora una volta ripreso a discutere se sia il caso di mettere dei paletti al suffragio universale così com’è inteso oggi. Prima di giungere ai saggi e alle proposte concrete di questi anni dobbiamo guardare a come funzionava la democrazia nei secoli. Il suffragio universale di per sé è una conquista relativamente recente  infatti, risalente al ‘900, mentre prima le restrizioni al suffragio erano molte: in base al sesso, alla razza e anche al censo (come in Italia), intese soprattutto a far rispettare uno status quo escludendo le minoranze dalle decisioni.

Già lì dove nacque la democrazia, nelle polis greche, fu Platone a teorizzare un governo di filosofi, intravedendo alcuni limiti del potere di tutti. Nel 1700 poi il filosofo americano John Stuart Mills pensò si potesse equilibrare il potere di voto permettendo di votare più volte alle persone più colte.

Cosa si propone adesso? Il più noto esempio, citato in questi giorni, è un saggio di Jason Brennan, Against Democracy, nel quale il giovane filosofo della Columbia University riprende queste idee e le soppesa per capire se potrebbero funzionare oggi. L’assunto da cui parte è il fatto che noi oggi vediamo il suffragio universale come un diritto inalienabile. Impossibile da mettere in discussione. Brennan dice invece che sì la democrazia è il governo migliore sperimentato finora, ma ciò non vuol dire che non sia possibile di miglioramento. Sulla scia di Platone propone quindi una forma ibrida: un governo di ben informati, grazie alla limitazione ad hoc del suffragio universale. Fino a qui si potrebbe essere d’accordo, ma quando si tratta di come realizzare questo sbarramento le cose si fanno più confuse. Scontrandosi con questa difficoltà la cosa per il professor Brennan più semplice da fare è selezionare i votanti guardando al livello di istruzione. Dato che può essere indicativo ma non assoluto (poiché uno stupido che frequenta una buona università molto probabilmente diventerà uno stupido istruito), oltre che potenzialmente di discriminatorio.
Come si è visto dalle ultime elezioni americane la Clinton è andata forte tra le persone con un PhD (dottorato di ricerca), mentre tra i laureati i votanti erano quasi equamente spartiti.

Qualcosa che non torna comunque c’è. Tutto il risentimento di molta gente per il famoso establishment, per il sistema politico che si incanala verso scelte drastiche, di rottura, molte volte dettate dalla paura di un mondo che sta mutando, non può e non deve rimanere inascoltato. Queste istanze ci dicono qualcosa, ci parlano della scarsa fiducia nella politica e nel suo sistema rappresentativo e non si può certo rispondere estromettendo direttamente parte dell’elettorato

Un bel articolo del New Yorker (A case against democracy) trattante questi temi a un certo punto si chiede: «But is democracy really failing, or is it just trying to say something?» La democrazia sta davvero fallendo o sta solo tentando di dirci qualcosa?

E se sì cosa ci sta dicendo?

Possiamo provare a capirlo solo se crediamo davvero che l’unica possibilità, perché una democrazia funzioni, sia che questa si basi su informazione e consapevolezza. E l’informazione è proprio ciò che è più in crisi oggi. Da una parte le difficoltà, economiche e di credibilità dei giornali, visti come parte dell’élite, dei quali non ci si può né ci si deve fidare, ma da osteggiare. Dall’altra contribuisce alla creazione di un’opinione pubblica poco e male informata il proliferare di bufale, notizie false o imprecise sui social network. Notizie che saranno certamente, come dice Mark Zuckerberg, una minima parte del traffico di Facebook, ma corrono molto più veloce della verità e arrivano a molte più persone, quasi autoalimentandosi. Se mettiamo in conto anche il fatto che si social siano la fonte unica o quasi di approvvigionamento di notizie di sempre più persone siamo di fronte a un cortocircuito.

Quindi sarebbe una buona e auspicabile proposta quella di un test di cultura e di educazione civica (in italia sostenuta da intellettuali come Massimo Gramellini) dietro il cui superamento ottenere il voto, ma l’educazione civica non si fa da sola. Bisogna istruire i cittadini se si vogliono cittadini consapevoli e bisogna informarli correttamente se li si vuole obiettivi. Luca Sofri, direttore del Post, che da anni si occupa di notizie fasulle e disinformazione ricorda che già Parise diceva che non si ha democrazia senza pedagogia. Ce lo si augura. E, in Italia almeno, vedere insegnata veramente l’educazione civica a scuola sarebbe un primo passo tangibile.

Tommaso Meo

[immagine tratta da Google Immagini]

La domanda di Yali: superiorità o fortuna

A volte mi capita di pensare di essere nata nella parte fortunata del mondo e in un momento storico che tutto sommato può dirsi buono. Certo, la situazione politica sembra non promettere molto bene, laddove dal punto di vista civile e sociale ci sarebbe invece bisogno di interventi notevoli e tempestivi. L’accesso al mondo del lavoro, la tutela e il sostegno della maternità, il miglioramento del sistema scolastico: questi sono solo alcuni esempi di quanta strada ci sia ancora da fare prima di poterci adagiare sugli allori, ammesso che questo sia davvero possibile un giorno.
D’altro canto, però, non possiamo mica dire che ci va così male! Il diritto all’istruzione ci è garantito, abbiamo la facoltà di decidere autonomamente riguardo le cose importanti della nostra vita, godiamo di un’ampia libertà di movimento, abbiamo a nostra disposizione un tempo libero non solo per il nostro benessere ma anche per il nostro divertimento. Tuttavia sappiamo bene che tutto questo in altre parti del mondo è ancora un miraggio. Ci sono zone devastate dalla guerra, ci sono fiumi umani in attesa alle frontiere, ci sono intere popolazioni sfruttate, c’è chi muore ancora di fame, c’è chi è costretto a sposare e condividere la propria vita con persone che non ama, c’è chi vive allo stato “selvaggio” ignorando ogni forma di civilizzazione e di modernità.
Ciò sembrerebbe rafforzare il mio iniziale punto di vista: viviamo davvero nella “buona” porzione di questo variegato e complicato mondo. Nelle pagine iniziali del testo “Armi, acciaio e malattie” Jared Diamond, biologo americano e professore di fisiologia, descrive l’incontro che ebbe nel 1972 con Yali, un politico della Nuova Guinea. Yali indirizzerà allo studioso una domanda che indubbiamente sembra mossa dalle mie stesse constatazioni: “Come mai voi bianchi avete tutto questo cargo e lo portate qui, mentre noi neri ne abbiamo così poco?”. Perché le redini del mondo furono a lungo nelle mani prima degli europei e poi degli americani? Come si è arrivati a parlare di eurocentrismo? Da cosa dipende il divario che in termini contemporanei caratterizza il Nord e il Sud del mondo?
Avete già iniziato ad elaborare qualche risposta “da filosofo”? Avete forse riversato un’eventuale risposta nella filosofia stessa? Fermi tutti! Confesso che anch’io sono caduta in tentazione: anch’io ho pensato che il fattore decisivo fosse stato l’invenzione della filosofia, l’esercizio del pensiero, lo sviluppo di una riflessione in materia politica, e via dicendo. Ma niente di tutto questo: bisogna invece andare molto più indietro nel tempo. Il professor Diamond in quanto a lettura del passato è più abile e più convincente addirittura di un filosofo!
Egli mostra che nel corso della storia l’umanità ha conosciuto tassi di sviluppo diversi nei vari continenti; potere e ricchezza sono stati a lungo prerogativa di una porzione ristretta di mondo. La spiegazione ottocentesca di sfondo etnico e/o razzista, come già è stato dimostrato, non è affatto in grado di delineare le motivazioni alla base della supremazia esercitata principalmente dagli europei in questi 2000 anni. Nessuna superiorità biologica, nessuna miracolosa caratteristica genetica. I fattori determinanti per Diamond sarebbero stati geografici in primis, e in secondo luogo ecologici e territoriali. L’elemento iniziale di vantaggio delle prime civiltà mediorientali fu infatti il poter sviluppare una forma progredita di agricoltura. Questa possibilità dipese infatti da un privilegio geografico, ovvero dall’orientamento del continente euroasiatico secondo un asse est-ovest, il quale fu in grado di garantire una maggiore estensione di territori con le stesse caratteristiche climatiche, con lo stesso numero di ore di luce e con il medesimo ecosistema. Fu dunque la risorsa ambientale ciò che permise lo sviluppo di pratiche di vita sedentarie, la specializzazione dei compiti e dunque le prime forme di suddivisione sociale e le prime organizzazioni protostatali.
La storia successiva la conosciamo bene e in parte coincide con la stessa storia della filosofia e della tecnica: con l’avvento della civiltà classica il fulcro dello sviluppo si spostò verso ovest, tant’è vero che quando si venne a creare quella particolare situazione nella quale gli europei disponevano delle risorse necessarie alla scoperta e alla conquista di territori a loro geograficamente lontani, essi, di fronte a tale possibilità, non si tirarono affatto indietro. In effetti, perché tirarsi indietro? Perché sottrarsi alla volontà di potenza? C’erano in ballo il merito e la gloria della realizzazione di imprese prima impensabili, siano queste la scoperta dell’America, l’avvento dell’imperialismo o lo sfruttamento economico dei territori sottomessi. Saremmo pronti oggi a smentire senza dubbi altre forme moderne di sottomissione? La nostra “superiorità civile” è davvero frutto di avanzate politiche sociali o deriva piuttosto dagli strascichi della storia passata?

Federica Bonisiol

Il buio oltre la siepe: un grido limpido contro il razzismo

I temi più importanti e delicati spesso non hanno bisogno di essere raccontati in modo retorico e pomposo, con frasi altisonanti ma possono essere trasmessi a chi legge, o a chi guarda, con grande semplicità, in modo spontaneo e quasi naturale ma non per questo meno forte.
È ciò che accade guardando “Il buio oltre la siepe”, trasposizione cinematografica del 1962 dell’omonimo, famosissimo romanzo di Harper Lee (nella versione originale il titolo è To Kill a Mockingbird).

La storia si svolge in Alabama, nel profondo sud degli Stati Uniti qualche anno dopo la Grande Depressione. In una piccola cittadina immaginaria vivono Jem e Scout, fratello e sorella orfani di madre rimasti soli con il padre, Atticus Finch, un avvocato; interpretato meravigliosamente da Gregory Peck, è un uomo dai limpidi e saldi principi morali, un padre affettuoso.
Nella calda estate in cui la vicenda prende forma, i due bambini amano giocare in giardino, fantasticando sul loro misterioso vicino di casa, un ragazzo di nome Boo Radley, che vive recluso e che suscita nei due piccoli protagonisti un misto di paura e irrefrenabile curiosità.
La tranquilla vita del paese viene sconvolta da una grave vicenda; Tom Robinson, giovane uomo di colore, viene accusato di violenza nei confronti di una ragazza bianca. Sarà proprio Atticus Finch a prenderne le difese, tra i timori e la disapprovazione di molti e il sostegno di pochi. Memorabile la scena dell’arringa finale in tribunale, in cui Gregory Peck non si limita ad interpretare un ruolo; la sua recitazione è una lezione di cinema totale e che lascia senza parole, semplicemente un’opera d’arte.

La naturalezza disarmante con cui questo film parla di razzismo e diversità è senza tempo, è tanto valida oggi quanto lo era allora, in un’America in cui la segregazione era ancora forte, radicata, quando essere nero significava essere diverso nel modo peggiore, cioè criminale, sovversivo, pericoloso. Era questo il pensiero di tanti bianchi, di tante persone che sulla base di una presunta e insignificante superiorità, costringevano chi era all’apparenza diverso, a vivere in modo indegno.
Non c’è retorica in questo film, chi lo guarda viene naturalmente portato a viverlo con gli occhi della piccola Scout, che con la sua spontanea schiettezza spiazza di continuo lo spettatore; la sua è una voce pura, un modo di guardare le cose che non si può non amare, innocente e spensierato.

Il buio e l’ignoto che ricorrono in tutto il film e che idealmente separano la siepe e la casa dei Radley dal resto del mondo, rappresentano la paura che genera il pregiudizio; attraverso l’avventura di Scout e Jem si scopre e si capisce insieme a loro che ciò che non si conosce, ciò che c’è al di là della siepe, non è scuro o terribile, ma umano, rassicurante; è solo un pezzo di vita non ancora esplorato, che aspetta di essere conosciuto e capito. È un messaggio che viene trasmesso con grande forza, uno spirito che aleggia su tutta la storia, che combatte per far valere il suo ideale giusto, che alla fine arriva a trionfare, senza squilli di trombe, ma con un tocco delicato, come la mano di Atticus che si posa dolcemente sulla testa di Scout.
Dopo tanti anni fà sicuramente riflettere il fatto che questo film sia ancora così attuale. Continua ad essere una voce forte contro le discriminazioni e una lezione sulla diversità, intesa come un’occasione per scoprire, per arricchirsi di tutto ciò che per paura ignoriamo.

Con una visione semplice e innocente ci viene data la possibilità di gettare lo sguardo oltre la siepe, di illuminare il buio che ancora ci circonda perché non vogliamo affrontarlo, preferendo invece restare fermi, con la mente chiusa. Il buio oltre la siepe è un elogio della tolleranza, dell’umiltà, di una vita semplice fatta di piccole cose, è un film che commuove e che lascia negli occhi di chi guarda il ricordo di ogni personaggio, di ogni singola inquadratura. Un grido limpido contro l’ottusità e l’ignoranza che sarebbe un peccato lasciare inascoltato.

Lorenzo Gardellin