Humboldt e il rapporto dell’essere umano con la natura

Che cos’è la natura per gli esseri umani? Uno sfondo di appartenenza co-originaria di tutto ciò che appare, noi inclusi, o un’antagonista da domare? Uno scenario di contemplazione a cui ricorrere appena possibile o un enorme contenitore di beni da prelevare bramosamente? Potremmo dire che l’umanità nella storia ha formulato e messo in atto un po’ tutte le risposte, ma le problematiche ecosistemiche che ci troviamo a fronteggiare rendono evidente che il secondo tipo di risposta sia stato il più gettonato.

All’origine del nostro rapporto con la natura, predatorio o ecologico, sta una scelta filosofica. Domandarsi che posto abbiamo nel mondo naturale, quali diritti di usufruirne e, soprattutto, quali limiti, è indubbiamente un ragionamento di tipo esistenziale-filosofico. Dunque, ricercare i fondamenti dei diversi modi di pensare la natura significa visitare la storia della scienza e della filosofia per scoprire i pensatori che hanno fatto della loro visione della natura un riferimento culturale epocale. Prendiamo, ad esempio, Cartesio: scienziato e filosofo, fu un attento osservatore di fenomeni, ma il suo approccio era di tipo meccanicistico e riduzionista. Ciò significa che ogni elemento naturale andava studiato scomponendolo, come si farebbe come una macchina. La sua propensione alla frammentazione fu tale che con lui la materia (res extensa) e l’immateriale (res cogitans) si separarono drasticamente. La visione meccanicistica della natura ebbe molta fortuna tra vari scienziati che succedettero a Cartesio.

Un importante oppositore di questa visione, invece, fu Goethe: la sua propensione al tutto e alla fusione tra arte e scienza fece di lui un importante sostenitore del primato dell’unità sulle parti. L’organismo è più della sua scomposizione in pezzi. Questo pensiero fu determinante nell’influenzare un importantissimo scienziato dell’800, un altro tedesco, sfortunatamente poco conosciuto in Italia: Alexander von Humboldt (una sua preziosa biografia è L’invenzione della natura. Le avventure di Alexander von Humboldt, l’eroe perduto della scienza, di Andrea Wulf, Luiss, 2017). Assiduo frequentatore della natura, viaggiatore temerario e fine scienziato, Humboldt fece delle sue ricerche un capolavoro di visione filosofica della natura come “tutto armonioso” in cui niente è slegato dal resto. Teoria ed osservazione in prima persona erano per lui inscindibili. Riuscì per primo al mondo a scalare la vetta di 6310 metri del Chimborazo, vulcano dell’Ecuador (allora considerato il monte più alto del mondo). Un record sancito senza alcuna attrezzatura tecnica e rischiando la vita. Ma l’esperienza fu totalizzante per Humboldt, che lì ebbe la sua folgorazione: tutto è connesso e la natura è un organismo vivente.
Humboldt era anche un vero maniaco dei dettagli: annotava tutto e i suoi vari libri pubblicati segnarono per sempre la carriera di altri studiosi. Tanto per fare un esempio, Darwin si imbarcò sul Beagle perché conosceva Humboldt a memoria ed era desideroso di solcare le sue orme. Thoreau fu un grande ammiratore delle opere di Humboldt e ancora oggi, fortunatamente, rimane un autore molto letto.

Lo sguardo di Humboldt fu prezioso anche come antesignano dell’ecologia. Già a inizio ‘800 fu in grado di scorgere i segni del degrado ambientale provocato dall’azione umana. La sua attenzione alle dettagliate relazioni tra le parti lo portò a vedere come la deforestazione avesse effetti enormi sull’ambiente. Aveva capito che tutto il delicato equilibrio della vita si erge sulla diversità, i cui più acerrimi nemici siamo noi. Aveva addirittura colto i problemi globali legati alle monoculture, notando come le coltivazioni imposte dai colonialisti europei impoverivano le popolazioni locali del Sud America. La sua visione influenzò personalità come il rivoluzionario Bolivar o il secondo presidente degli USA, Jefferson, che furono suoi personali amici. Conobbe bene anche Napoleone, che invece lo detestava per la sua caratteristica di rifuggire qualunque possibilità di manipolazione. Per Humboldt la scienza era al servizio della natura e non della politica, come era invece per Napoleone. Humboldt arrivò a influenzare anche il filosofo Schelling nella formulazione della sua visione filosofica di unità tra Io e natura. Suggestionò i poeti Romantici e, ad esempio, Coleridge e Wordsworth furono suoi grandi ammiratori. Un intenso filone filosofico e letterario fece propria la lezione di Humboldt, ma non bastò a salvare il mondo.

L’impennata scientifica esordita a fine ‘800 diede un impulso così forte all’industrializzazione che la natura ancora di più diventò giacimento di risorse da spremere senza senno. Popolazione in aumento, relativi bisogni di sostentamento e possibilità tecnologiche sempre crescenti hanno decretato la vittoria dei fautori della dominazione della natura. Adesso siamo convinti che doveva per forza andare così, come se il progresso sia inevitabilmente legato al consumo sfrenato. La cecità con cui proseguiamo in quest’opera dissennata non ci fa nemmeno intravedere quell’altra visione, quella di una scienza rispettosa che si unisce alla poetica contemplazione del Tutto, così come ce l’hanno lasciata in eredità personalità quali Humboldt. Una visione che, se avesse prevalso, forse ci avrebbe portato a un’idea di progresso maggiormente ecocompatibile.

L’umanità ha oramai scisso se stessa dalla natura e, poco filosoficamente, continua a pensare che il suo destino sia slegato dal Tutto.

 

Pamela Boldrin

 

[Photo credit David Marcu via Unsplash]

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Scienze (Post)umane Ambientali: prospettive su una disciplina emergente

Dal prossimo anno accademico all’Università Ca’ Foscari di Venezia parte, primo in Italia, un nuovo corso di laurea in Environmental Humanities, ovvero Scienze Umane Ambientali. Ma di cosa si tratta?

Diverse discipline convergono in questo innovativo campo di studi, modificandolo ma al contempo trasformando se stesse mentre si fondono. Per fare un esempio, l’emergere dell’ecocritica ha modificato il modo in cui la critica letteraria guarda a se stessa1. È però mia intenzione, in questa sede, concentrarmi sull’aspetto filosofico delle Scienze Umane Ambientali. Infatti, la maggior parte dei principali concetti di questa disciplina può trovare un terreno comune nella Filosofia, la cui caratteristica è sempre stata quella di voler abbracciare i vari aspetti del reale. Tuttavia, deve essere una nuova Filosofia, altrimenti rischiamo di ricadere in quei pregiudizi che hanno caratterizzato il pensiero occidentale per secoli, e che hanno portato ai problemi ambientali che affrontiamo oggi. Voglio perciò concentrarmi su una corrente di pensiero che si è sviluppata negli ultimi anni: il postumanesimo. In particolare, la “svolta postumana” è stata definita come «la convergenza del postumanesimo con il postantropocentrismo» (S. Bignall e R. Braidotti, Posthuman ecologies, 2019).

Al fine di costruire una base per una Filosofia innovativa, è necessario volgere lo sguardo alla Storia della Filosofia occidentale e analizzare ciò che ha portato agli attuali problemi sociali e ambientali. «Mentre le critiche all’antropocentrismo denunciano la gerarchia delle specie che culmina nell’eccezionalità e nel privilegio umani, il postumanesimo impegna più specificamente una critica dell’ideale umanista di “Uomo”» (ivi). In questo modo Rosi Braidotti e Simone Bignall presentano la raccolta Posthuman ecologies, che colleziona opere di diversi autori provenienti dalle più svariate discipline.

Secondo gli autori della “svolta postumana”, tutti i diversi atti di violenza si intrecciano. Perciò, nel momento in cui proviamo a trovare, dal punto di vista delle discipline umanistiche, soluzioni ai problemi ambientali che affrontiamo oggigiorno, non possiamo superare il pregiudizio antropocentrico senza sconfiggere quelli patriarcale, eurocentrico e universalistico. Per questo motivo, le nuove discipline umanistiche non possono non prendere in considerazione i movimenti indigeni e le teorie eco-femministe. Potrebbe sembrare infatti che, una volta superato (anche se ancora in forma solo concettuale) il pregiudizio antropocentrico, gli altri tipi di violenza svanirebbero con esso. Ovviamente, assumere un punto di vista ambientalista può aiutare, ma non penso sia così meccanico. Ad esempio, dobbiamo considerare che la ricchezza su cui stiamo basando le nostre nuove “economie verdi”, la nostra innovazione tecnologica verde, è ancora basata sullo sfruttamento di altre popolazioni, come i movimenti indigeni cercano costantemente di ricordarci. Allo stesso tempo, nei nostri paesi democratici e “sviluppati”, il patriarcato è ancora pervasivo: la violenza epistemica è difficile da combattere, e il primo passo è non dimenticare che la vera uguaglianza è ancora lontana dall’essere raggiunta. Il termine stesso antropocene, a indicare l’epoca geologica in cui viviamo, è stato oggetto di contestazioni: oltre al fatto che non è ancora pienamente accettato dalla comunità scientifica dei geologi, molti pensatori stanno criticando l’estensione di questa operazione concettuale: chi è il soggetto dei problemi che stiamo affrontando oggi? La specie umana nella sua interezza? O solo una parte di essa, la più forte? Braidotti risponderebbe con una sola parola: l’Uomo, dove la lettera maiuscola evidenzia l’idea dominante dell’uomo maschio, occidentale, adulto, bianco, eterosessuale e ricco.

Il pensiero ecologico è caratterizzato dalla volontà di trovare le interdipendenze e le connessioni tra gli elementi di un ecosistema. Quindi, dando ascolto alla premonizione di Felix Guattari, che, ancora nel 1991, pubblicò Le tre ecologie, non dovremmo mai dimenticare gli aspetti sociali e persino psicologici del vasto ecosistema in cui viviamo.

Le Scienze Umane Ambientali hanno l’opportunità di affrontare la crisi ecologica da un nuovo punto di vista. Tuttavia, se tale disciplina emergente vuole sfruttare al massimo le proprie basi di sapere e i propri strumenti, deve rinnovare le discipline umanistiche tradizionali da cui è nata. In questo processo, una radicale trasformazione dall’interno della disciplina più ambigua, la Filosofia, può aiutare molto. Infatti, se le Scienze Umane Ambientali vogliono affrontare in modo davvero rivoluzionario le sfide più urgenti della contemporaneità, devono diventare, almeno in parte, Scienze Postumane Ambientali.

 

Petra Codato

 

NOTE
1. Estremamente interessante su questo tema è la seguente raccolta: C. Salabè (a cura di), Ecocritica: la letteratura e la crisi del pianeta, Donzelli editore, Roma 2013.

[Photo credit Giuillaume de Germain via Unsplash]

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Imparare a vivere dalle piante per arginare l’emergenza ambientale

Sapete cos’è l’EOD? Oppure è la prima volta che vedete e leggete questa sigla?
EOD significa Earth Overshoot Day ed è conosciuto anche come il “giorno del debito ecologico”. Viene calcolato ogni anno dal Global Footprint Network, un’organizzazione internazionale no-profit con sedi in Svizzera e Stati Uniti. L’Italia e l’Europa hanno già superato per il 2019 il “punto di non ritorno”: è stato esattamente lo scorso 10 maggio. Fino al 2020, allora, noi consumeremo risorse del pianeta non rinnovabili.

Cosa significa? Per capirsi: che tagliamo gli alberi prima che diventino adulti; che emettiamo più carbonio nell’atmosfera di quanto le foreste siano in grado di assorbire; che peschiamo più pesce di quanto gli ecosistemi siano in grado di rigenerare.

Negli ultimi tempi l’emergenza climatica ha cominciato a diventare notizia. Sulla stampa, nei tg, sui social media si parla finalmente di cambiamento climatico, di quanto stia mutando il nostro pianeta, del rischio di estinzione che minaccia specie viventi e veri e propri ecosistemi. Tuttavia ancora in molti, per ignoranza, per superficialità o per la smania di una crescita che non è più sostenibile, non comprendono la portata drammatica e micidiale di questo fenomeno, di cui è proprio l’uomo la causa principale e che mette a repentaglio la nostra stessa sopravvivenza.

«Attraverso la sua storia la Terra ha subito cinque estinzioni di massa ed un certo numero di estinzioni minori. […] Adesso siamo nel bel mezzo della sesta estinzione di massa. Un evento di una portata tale che percepirne le conseguenze non è per niente facile. […] Le passate estinzioni di massa di cui si ha conoscenza, sebbene veloci, si sono sempre manifestate lungo un arco di milioni di anni. L’attività umana al contrario sta concentrando la sua letale influenza sulle altre specie viventi in una manciata di anni»1. Essere consapevoli del disastro che i nostri consumi stanno creando, sottolinea Stefano Mancuso nel suo libro, dovrebbe renderci tutti più attenti ai nostri comportamenti individuali, ma anche arrabbiati verso un modello di sviluppo che per premiare pochissimi, distrugge la nostra casa comune.

Mettiamocelo in testa: il nostro pianeta ha risorse limitate. Mi sembra più che normale, essendo un pianeta finito. Non occorre essere dei geni della scienza per capire che il modo di agire e di vivere che l’umanità ha avuto e ha tutt’ora è totalmente insensato, a meno che l’obiettivo finale non sia l’estinzione. E se non invertiamo la rotta è molto probabile che ci arriveremo.

«Risorse limitate non possono sostenere una crescita illimitata. E badate bene: quando parlo di crescita illimitata, non intendo parlare di crescita della popolazione – tutt’altro – ma di crescita dei consumi. Il pianeta potrebbe tranquillamente ospitare una popolazione umana molto più numerosa di quanto non sia oggi, e anche ampiamente superiore ai 10 miliardi di persone che si prevedono per il 2050 o giù di lì. Potrebbe, appunto. Ma soltanto qualora l’umanità cambiasse radicalmente il proprio stile di vita, riducendo drasticamente l’uso di risorse non rinnovabili»2.

Esiste, quindi, una soluzione al problema? Un modello virtuoso da poter seguire? La risposta è sì ed è da sempre sotto i nostri occhi. Secondo Mancuso, infatti, dovremo semplicemente imparare dalle piante. Nel suo libro, lo scienziato ribalta completamente la prospettiva e per una volta, invece di essere l’uomo al centro di tutto, sono le piante ad esserlo: le piante, con il loro sistema di sviluppo, la loro organizzazione, le loro regole, che sono ovviamente completamente diverse dalle nostre, eppure, fa notare Mancuso, molto più funzionali:

«Il mondo vegetale segue la semplice regola di crescere fin che è possibile farlo, in accordo con la quantità di risorse disponibili. In altre parole quando i mezzi cominciano a scarseggiare , la crescita si riduce. L’insana idea che si possa crescere all’infinito con risorse finite è solamente umana. Il resto della vita segue modelli realistici. […] Non potendosene andare in giro, come fanno gli animali, alla ricerca di nuovi territori da sfruttare quando il cibo scarseggia, le piante hanno imparato a convivere con la finitezza delle risorse e a modulare lo sviluppo»3.

Le piante, quando necessario, riducono la loro taglia, si assottigliano, si avvolgono, si curvano, interrompono la loro crescita, «fanno tutto ciò che è necessario, perchè il loro equilibrio con l’ambiente sia il più stabile possibile»4. Non solo, c’è un’altra caratteristica che la “nazione delle piante” possiede, di cui lo scienziato mette in luce l’efficienza: la cooperazione. «Non potendosene andare in giro a cercare ambienti o compagni migliori, una pianta deve per forza imparare ad ottenere il massimo dalla convivenza con i suoi vicini. Quest’arte della convivenza la ritroviamo nella maggior parte delle relazioni vegetali»5.

La nostra idea di come funzionino le relazioni naturali è basata sulla semplicistica e arcaica nozione che in natura valga la legge del più forte. Una visione della natura come di un’arena, che Mancuso considera figlia di una grande ignoranza sui meccanismi che denotano il funzionamento delle comunità naturali. Le piante invece, collaborano tra di loro, vivono in simbiosi, uniscono i propri destini, cooperano per mantenersi in vita, evolversi, crescere e prosperare.
Anche con noi uomini hanno questo comportamento. Le piante che circondano le nostre case, i parchi, gli orti, hanno stabilito con noi un rapporto di cooperazione e domesticazione: una lunga relazione durante la quale due specie imparano a stare bene insieme e a trarre l’una dall’altra dei vantaggi. La cooperazione è la forza attraverso la quale la vita prospera e per la “nazione delle piante” è il primo strumento di progresso delle comunità.

Pensare che il problema ambientale sia qualcosa di lontano dalle nostre vite quotidiane, di cui non vediamo gli effetti sotto i nostri occhi, non ci dà più il diritto di pensare che non sia un nostro problema. Nel nostro piccolo, nella nostra vita, ogni gesto è importante per dare una mano al nostro pianeta e concedere a noi stessi e ai nostri figli di poter ancora godere della sue bellezze: cercare di sprecare meno acqua, farne un uso moderato, scegliere di bandire la plastica monouso dalle nostre tavole, andare a lavoro in bici invece che in auto, o magari utilizzare i mezzi pubblici, sono tutti piccoli gesti che ognuno di noi può introdurre nella sua quotidianità. Pensate alla potenza che potrebbero avere se tutti, tutti noi, tutta l’umanità andasse in questa direzione!

Come diceva Madre Teresa di Calcutta: «Sappiamo bene che ciò che facciamo non è che una goccia nell’oceano. Ma se questa goccia non ci fosse, all’oceano mancherebbe. Importate non è ciò che facciamo, ma quanto amore mettiamo in ciò che facciamo; bisogna fare piccole cose con grande amore».

 

Martina Notari

 

NOTE
1. S. Mancuso, La nazione delle piante, Laterza, Roma-Bari 2019, p. 78.

2. Ivi, pp. 100-101.
3. Ivi, pp. 108-109.
4. Ivi, p. 109.
5. Ivi, p. 138.

[Photo credit Noah Buscher  via Unsplash]

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Il vero motivo per cui l’ecologismo-ambientalismo fallisce

Rimango sempre sorpreso quando parlo con qualcuno dell’ambiente e delle cosiddette crisi che lo riguardano. Penso sia un dato percettivo comune quello di essere colpiti da quanta poca curiosità suscitino nelle altre persone queste tematiche, sempre che si possegga una sensibilità tale da permettere il sorgere di queste riflessioni. Ma non è questo ciò che mi sorprende. O meglio, ciò che mi sorprende è la causa del disinteresse comune nei confronti di quelle questioni.

Se volgiamo il nostro sguardo alle più grandi campagne di sensibilizzazione ambientale o alle semplici dissertazioni di un qualsiasi ecologista ci rendiamo immediatamente conto di come la tecnica argomentativa sia miseramente fallace. “Salviamo il pianeta”, “Difendiamo l’ambiente”, “Aiutiamo il mondo”. Tutti slogan condivisibili ma inutili, perché presuppongono qualcosa che non si può far finta di non accorgersi mancare se non in tutti almeno in molti: la sorgente empatica.

Si fa presto a dire che l’empatia sia assente nelle persone ma ciò che è necessario fare è chiedersi il perché di questo difetto. Io credo che l’empatia sia connaturata all’uomo; questo significa che ognuno la prova, dal medico volontario in Africa al comandante del campo di concentramento di Auschwitz. Ciò che è diverso nelle persone, quindi, non è tanto il fatto di provare o meno empatia ma la situazione in cui scatta questo meccanismo.
Cos’è l’empatia? Cerchiamo su Google: Wikipedia sentenzia che è la «capacità di comprendere appieno lo stato d’animo altrui», definizione deludente. Treccani già si dà più da fare: «Capacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro». Ma è – a sorpresa – il dizionario di Google a cogliere meglio la questione: «In psicologia, la capacità di porsi in maniera immediata nello stato d’animo o nella situazione di un’altra persona, con nessuna o scarsa partecipazione emotiva». Da questa definizione possiamo ricavare due lezioni. Innanzitutto il fatto che colui verso il quale possiamo provare empatia non è un generico “altro” ma «un’altra persona»; in secondo luogo, il fatto che provarla non significa automaticamente mettere in gioco dei sentimenti o delle emozioni.
Colleghiamo ora tutto ciò con la nostra questione.

Per quel che riguarda la prima lezione, pensare di coinvolgere chiunque attraverso l’empatia nei confronti di qualcosa senza trasformare questo qualcosa in un qualcuno, crea una situazione nella quale si richiede uno sforzo al destinatario del messaggio che non tutti sono disposti o in grado di fare.
Per la seconda, anche se quello primo step funzionasse, non si è ancora coinvolto emotivamente l’interlocuture, ma lo si è solamente interessato alla questione. Perché all’empatia segua un movimento emotivo di “avvicinamento” credo sia necessaria l’educazione.

Combiniamo ora le due: credere di riuscire a coinvolgere qualcuno facendo provare “pena” nei confronti di qualcosa ottiene l’esatto opposto: il totale disinteresse.

Ma non è ancora questo ciò che mi sorprende. Se scaviamo ancora più a fondo possiamo raggiungere quello che è il punto nevralgico della questione: l’egoismo. Non siamo abbastanza egoisti.
Potrebbe sembrare una frase paradossale e provocatoria ma non è assolutamente così. A ben guardare, infatti, ogni tentativo di salvare il pianeta, l’ambiente, il mondo altro non è che un tentativo – in ultima istanza – di cercare di mettere in salvo la nostra pellaccia. Ed è proprio su questo perno che bisogna far leva. Perché, in realtà, ciò che tutti – tutti – abbiamo a cuore di salvare non è quella particolare specie di animale, di pianta, quella particolare foresta, quel tratto di mare, l’ambiente, il mondo, ma noi stessi.
Inoltre, alla Terra, presa per se stessa, credo che poco importi dei cosiddetti “danni” operati dall’uomo: il pianeta che abitiamo si stima essersi formato circa 4,5 miliardi di anni fa. Ha sopportato – per quello che sappiamo – eruzioni vulcaniche inimmaginabili, piogge di meteoriti, sconvolgimenti superficiali, e non, devastanti; credere che noi possiamo danneggiarlo mi fa sorridere per quanto ci sovrastimiamo: non dobbiamo salvare il mondo, dobbiamo preservare noi stessi.

Rendersi conto che la propria vita è in pericolo: questo sì che ci smuove, purtroppo. Dico purtroppo per un motivo, egoista anche questo. Siamo talmente poco empatici ed educati alle emozioni che nemmeno l’idea di altre persone fa nascere in noi un sentimento di vicinanza e di aiuto. Questo significa che neanche la razza umana può essere un motivo di cambiamento di comportamento, ma neppure i nostri connazionali o il nostro vicino; nemmeno i nostri figli. No, neanche loro: distruggere l’ambiente significa creare condizioni peggiori per le future generazioni ma non mi pare che questo faccia la benché minima differenza.

Dovremmo essere più egoisti in quanto specie. La specie umana dovrebbe essere più egoista e pensare più a se stessa. Non per il rinoceronte, non per la tigre, non per le foreste, non per gli oceani ma per i nostri stessi figli, per noi stessi. Salvare l’ambiente significa salvare noi stessi, togliamo questo adesivo che abbiamo appiccicato sopra la verità e mostriamola! Magari con vergogna (per qualcuno necessariamente con vergogna) ma questa è la realtà. Meno individualismo e più collettivismo; si potrebbe dire meno nazionalismo e più internazionalismo, forse, intendendo con nazionalismo un singolo Individuo nazionale; ma questa è un’altra storia.

Ultimo appunto: fortunatamente, altre specie possono beneficiare di queste considerazioni, se messe in pratica. Questa è un una cosa fantastica – che ci dice molto su quanto la natura sia collegata tra le sue parti – che io personalmente valorizzo enormemente. Anzi, qualcuno potrebbe addirittura agire per altro oltre che per l’uomo ma non possiamo pretendere che la maggior parte agisca in questo modo. Non con questa società. Non con questi ideali. Non in questo tempo.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

[Photo credit qinghill]

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Ciò che va oltre il vegetarianesimo

La questione del vegetarianismo va ben oltre il campo che tratta.

Ha a che fare con la salute del nostro pianeta, con la conservazione della biodiversità e della pulizia ambientale, riguarda direttamente il futuro sociale e culturale della nostra specie. Di per sé, ritengo che non sia sbagliato mangiare carne: oltre ai numerosi vantaggi nutritivi, vi è anche una solida tradizione a sostenerne il consumo, che si avvale della naturalità dell’atto e della convivialità che genera una tavolata imbandita a tema. Sono argomenti validi, che dimostrano la ragionevolezza dell’opposizione, ma in questa ragionevolezza si nasconde un’omissione. La produzione attuale della nostra carne – quella consumata oggi dall’individuo medio – ha volgarizzato tutta la parte “ritualistica” del consumo della stessa. Non si considerano i legami di rispetto che possono aver coinvolto il cacciatore e la sua preda; non ci si appaga col frutto del proprio peregrinare tra i boschi; non si attua un gesto di condivisione autenticamente profondo; né in realtà si assorbe un nutrimento sano, poiché quella carne è stata imbottita di farmaci e ricavata da un animale probabilmente malato e incredibilmente sofferente. La scelta di mangiare o meno la carne va a sollecitare direttamente la storia umana nella sua quotidianità.

Di solito sono queste le argomentazioni sostenute da un vegetariano di tipo etico, quando vuole giustificare la sua scelta. Sostiene di farlo per buon senso, per integrità, per rispetto, per ambientalismo. In più vi sono numerose considerazioni a favore di queste linee alimentari che trascendono la mera questione etica: l’industria alimentare è tra le più inquinanti al mondo e l’allevamento intensivo è causa di gravi sconquassi idrici e ambientali, di un ingente spreco di risorse e di un notevole disagio psicologico indotto negli operai del settore, i quali lavorano in situazioni tanto barbare e precarie da rischiare spessissimo la loro vita. Tutti questi aspetti sembrano sufficienti a boicottare l’industria alimentare, e infatti è a questo punto che l’argomentazione di un vegetariano si ferma. Ma così ha solo circoscritto il campo in cui la sua parola prende vita, scambiandolo per giustificazione.

Un’argomentazione del genere si fonda soltanto su motivazioni ragionate e ponderate, quindi su opinioni, che, per quanto profonde, non fanno altro che mostrarsi. Quando si discute per opinioni, si arriva a un punto in cui le due opinioni agoniste chiarificano al meglio la loro divergenza e così la cementificano. Lo stesso accade quando si fa leva sui sentimenti legati all’etica e all’emozionalità: se qualcuno non li avverte, o li avverte in altri momenti, la questione (quasi) finisce là. Un fiume divide due persone e nessuno costruisce un ponte. In secondo luogo, il vegetariano etico non si accorge che le sue posizioni sono valide in numerosi altri settori che probabilmente non ha considerato: l’industria tessile, l’industria telefonica, quella informatica, addirittura quella agricola. Se trova sbagliato consumare carne per via del maltrattamento che subiscono gli animali, e per questo non la mangia, dovrebbe anche rinunciare ad acquistare vestiti di marca, cellulari e computer, visto che la maggior parte di questi prodotti sono costruiti da operai sottopagati e sfruttati, e dovrebbe anche vagliare attentamente le verdure che acquista, poiché molte di queste sono insanguinate forse più della carne.

L’alternativa sarebbe ammettere di considerare più la vita animale di quella umana e di chiudere un occhio sulle questioni ambientali che solleva l’agricoltura intensiva: e questo atteggiamento, lungi dall’essere semplicemente stupido, è eminentemente ipocrita.

Il nostro vegetariano non ha particolari colpe. La sua posizione è ammirabile sotto alcuni aspetti, ma non si può negare che sia embrionale. Non è ancora niente, non risolverà nulla, e non è nemmeno la soluzione. È un inizio, volendo, un segnale, un’intuizione, una scelta, ma che poi deve essere coltivata e accresciuta, demolita e ricostruita come la ragione, altrimenti si ridurrà a un’ammonizione poco convincente dispersa nei venti del mondo. La questione vegetariana non è solo una questione vegetariana: solleva problemi che interessano sostanzialmente l’intero pianeta, l’intera idea di globo e globalità che noi moderni abbiamo contribuito a sviluppare. Non è la carne il problema: ma l’eccessivo e smodato consumo dei paesi egemoni, l’assenza di scrupoli delle grandi industrie produttrici, il divario alimentare che interessa le due metà del mondo. Non è neanche la tecnologia il problema: ma la produzione campionata e ripetitiva, l’accumulo di immondizia, l’alienazione del lavoratore. Problemi molto simili a quelli che riguardano l’industria alimentare; problemi che chiarificano le contraddizioni laceranti della nostra civiltà.

La questione allora concerne quel che noi siamo disposti ad accettare per avere questa quotidianità. Dico “questa” perché potremmo averne un’altra, ma per strutturarla occorre un interesse e un impegno indiscriminati, disposto a rivedere tutto quel che è stato piantato nell’ambiente e nel suo habitus, consapevole della posta a un livello più o meno uniforme ma comunque particolareggiato. Difficilmente però una sola idea potrà accomunare l’umanità, così come nessuna legge potrà contrastarne i crimini. La coralità del mondo – purtroppo o per fortuna – esige ascolto. Ogni problema è interdisciplinare, e nessuna soluzione può essere definitiva. Le cose cambiano in base alla prospettiva, al momento, allo sguardo che le considera, e la soluzione deve tener conto della sua arbitrarietà se vuole contenere al meglio quel che considera un problema. Prendere posizione ha un suo valore, ma all’interno dei suoi limiti, gli stessi che si pone. Quel vegetariano avrà dei nobili principi, ma non può credere di essere salvo. Può invece scegliere di agire (il come lo sa solo lui), oppure può continuare con la sua dieta, sapendo che prima o poi, almeno a un animale, risparmierà una vita di soprusi e torture. Non è niente, ma, appunto, è un segnale, e in quanto tale credo debba continuare a lampeggiare.

 

Leonardo Albano

 

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