Tutti dovremmo stare con i ragazzi del Cinema America

Prima della politica e della passione per il cinema c’è un grande insegnamento che pulsa sotto le magliette dei ragazzi del Cinema America. È la voglia di vivere con estrema consapevolezza il nostro presente senza smettere mai di provare a rendere migliore il piccolo angolo di mondo in cui ci troviamo. La loro storia, dunque, non deve riguardare solo chi ama il cinema ma ognuno di noi, senza alcuna distinzione.

Una breve premessa è doverosa: tutto ha avuto inizio nel 2012, grazie all’occupazione di una sala simbolo del centro di Roma. Con grande caparbietà, tenacia e un po’ di follia, i ragazzi sono riusciti a mettere in piedi in pochi anni uno degli eventi culturali più importanti e popolari della Capitale. Dopo aver occupato abusivamente il cinema America nel quartiere di Trastevere, hanno iniziato ad organizzare incontri e proiezioni autonome per tenere viva la sala, salvandola, per un periodo, dal fallimento della gestione Cecchi Gori. L’intento iniziale non era legato necessariamente ai film ma a creare incontri e occasioni di dibattito che potessero unire e far riflettere chi viveva nei dintorni della sala. Sgomberati nel 2014 dalle forze dell’ordine, i ragazzi sono riusciti ad allestire una loro personale rassegna cinematografica nella vicina piazza San Cosimato, coinvolgendo ancora una volta i residenti del quartiere e mettendo di fatto in piedi una rassegna estiva di cinema all’aperto in cui è il pubblico a essere il vero protagonista dell’evento, partecipando attivamente e riappropriandosi di fatto degli spazi pubblici grazie al potere aggregativo del grande schermo. Li hanno chiamati “giovani supereroi della cultura”, hanno portato nelle piazze il buon cinema nonostante l’opposizione delle istituzioni e le mille difficoltà burocratiche che non gli hanno impedito di far dialogare con il pubblico i più grandi registi e protagonisti del cinema internazionale. Partendo dall’idea che si può lasciare un luogo migliore di come lo si è trovato, dal 2018 il loro progetto “Cinema in Piazza” ha visto coinvolti anche il parco del Casale della Cervelletta a Tor Sapienza e il Porto Turistico di Roma, ad Ostia. Circa 150mila gli spettatori coinvolti nella restituzione, a Roma e dintorni, di autentici “polmoni” per la cultura in città.

Pochi giorni fa la loro storia è finita sotto i riflettori della cronaca internazionale per due ignobili aggressioni ai danni di un gruppo di giovani la cui unica “colpa” è stata quella di essere vestiti con la maglietta dell’associazione. Sono stati chiamati “antifascisti” e sono stati picchiati perché si sono rifiutati di togliere la maglia del cinema America. Due episodi di questo genere devono essere condannati senza esitazioni e necessitano di tutta la solidarietà possibile nei confronti di chi porta ancora avanti il progetto del “Cinema in Piazza”. Quello su cui dobbiamo riflettere però è il fatto che oggi, in tutta Italia, i ragazzi del cinema America non sono soli. Persone di ogni età provano ogni giorno, con tutti i mezzi a loro disposizione, a diffondere cultura in modo costruttivo, mettendo in pratica lo stesso insegnamento che muove da sempre i ragazzi del Cinema America: renderci consapevoli che, con la partecipazione di tutti, le cose possono cambiare per davvero. La lotta contro l’immobilismo e l’indifferenza che stanno facendo scomparire sempre più sale cinematografiche nel nostro Paese si può combattere seguendo il modello del Cinema America. Come già detto però, questa non è solo una storia di ragazzi che amano il cinema. È il racconto di chi, traboccante di sogni, lotta ogni giorno per unire le persone attraverso la cultura per dirci che l’unione e la condivisione di determinati valori sono il motore unico che può condurci verso una consapevolezza civica più attiva e ragionata sia nelle piazze delle nostre città che davanti alla magia di uno schermo cinematografico.

 

Alvise Wollner

 

[immagine tratta da Facebook]

 

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La “casa” che Bruno Ganz ha costruito

«Mettiamola così: pochi fanno tutto il viaggio senza proferire verbo. Le persone sono sopraffatte da una voglia strana e imminente di confessarsi in queste situazioni. Tu procedi pure allegramente ma non credere che mi dirai qualcosa che non ho già sentito prima». Inizia con queste parole il nuovo film di Lars von Trier e, non  a caso, a pronunciarle è l’attore svizzero Bruno Ganz in uno dei suoi ultimi ruoli prima della morte, avvenuta a Wädenswil, in Svizzera, lo scorso 16 febbraio.

La casa di Jack (in uscita al cinema giovedì 28 febbraio) non è un film come tutti gli altri. La recente dipartita dell’attore svizzero lo ha trasformato in una sorta di testamento cinematografico che ci permette di capire ancora più a fondo la grande importanza che Bruno Ganz ha avuto per il cinema contemporaneo. In La casa di Jack l’attore svizzero interpreta Verge, enigmatico Virgilio dei nostri tempi, il cui compito è quello di indurre alla catabasi l’anima di Jack, metodico serial killer interpretato da Matt Dillon alla ricerca continua di un ideale di perfezione estetica generata dall’orrore. Bruno Ganz ascolta e commenta con misurato distacco il racconto di una vita segnata dall’efferatezza, sempre giustificata dalla speranza di un fine superiore, mirato a raggiungere il Sublime attraverso la violenza.

La casa di Jack, per essere raccontata, dovrebbe riempire interi trattati di cinema. Nelle immagini di von Trier continuano a coesistere genio e follia in maniera così razionale e perfetta da diventare disturbante. In questa discesa negli inferi della psiche umana, Bruno Ganz si inserisce alla perfezione come un indimenticabile co-protagonista, in un ruolo capace di diventare simbolo di un’intera carriera. Figlio di un operaio svizzero e di madre italiana, Ganz ha debuttato al cinema nel 1960 con il film Der Herr mit der schwarzen Melone dimostrando fin da subito il suo talento. Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders è il capolavoro che lo consacra in tutto il mondo mentre, soprattutto in Italia, deve gran parte della sua fama al film Pane e tulipani di Silvio Soldini e all’interpretazione di Adolf Hitler ne La caduta di Oliver Hirschbiegel. Grande amante del teatro di Bertolt Brecht, Bruno Ganz ha sempre incarnato la figura di un attore che oggi si fatica a trovare in giro. Maschera enigmatica immediatamente riconoscibile, è stato in grado di spaziare dal comico al tragico, dai ruoli di comprimario al talento di sostenere un intero film sulle sue spalle. Mai classificabile come un “tipo”, sempre pronto a lasciare il segno sulla scena anche quando era chiamato a interpretare ruoli di pochi minuti come comparsa. La vita e le opere di Bruno Ganz dovrebbero guidare i nuovi attori del cinema emergente verso la consapevolezza di come si possa essere misurati e incisivi al tempo stesso, divertiti e malinconici in pochi sguardi. Opposti che danno vita a una carriera in cui non è l’attore a diventare immortale grazie a un personaggio, ma sono i ruoli che ha interpretato nel corso di una vita intera a renderlo imperituro. La casa di Jack ce lo ricorda in maniera ineluttabile, regalandoci un’ultima grande prova di cinema attoriale ormai fuori dal tempo.

 

Alvise Wollner

 

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L’amica geniale: una ricerca tra immagini e parole

La prima miniserie tratta dall’omonimo bestseller di Elena Ferrante porta lo spettatore a riflettere sul rapporto, spesso conflittuale, tra testo scritto e messa in scena 

 

«Le parole sono importanti» urlava Nanni Moretti in una celeberrima scena di Palombella rossa. Impossibile dargli torto, soprattutto quando si parla di trasposizioni cinematografiche tratte da romanzi di fama internazionale. Dare vita a un testo scritto attraverso le immagini significa spesso dover sacrificare espressioni, situazioni e dettagli che il cinema fatica a mettere in scena nella breve durata di un film. Non è raro, dunque, che i lettori restino delusi avvicinandosi agli adattamenti cinematografici dei loro libri preferiti. La trasposizione televisiva de L’amica geniale sceglie però di utilizzare le immagini non per rielaborare il senso del testo scritto da cui è tratta ma per riaffermarne il valore, esaltando la centralità della parola scritta.
Diretta da Saverio Costanzo, già autore dell’adattamento cinematografico de La solitudine dei numeri primi, questa miniserie in otto episodi stupisce soprattutto per la sua incredibile aderenza al libro di Elena Ferrante. Non a caso la misteriosa scrittrice è una delle sceneggiatrici principali della fiction targata Hbo in onda su Rai 1 da novembre. In quest’ottica la scena d’apertura del primo episodio della serie è a dir poco emblematica: nel buio di una stanza, in piena notte, un telefono squilla e chi risponde inizia a parlare senza nemmeno accendere la luce. Prima le parole, poi le immagini: il messaggio è chiaro fin da subito. I dialoghi in dialetto napoletano, sottotitolati in italiano, marchiano lo schermo del televisore come se le parole del libro si sdoppiassero per aumentare ancor di più il loro peso nella costruzione della storia. In una narrazione scenica dove il testo ha un valore assoluto, lo spazio artistico del regista rischia di ridursi enormemente. La bravura di Costanzo sta però nell’introdurre un tono onirico e spesso surreale (tipico del suo cinema) a molte sequenze della miniserie, evitando che la storia si limiti a essere una piatta copia-carbone della pagina scritta.

Lila e Lenù, le due amiche protagoniste della miniserie, sono due personaggi agli antipodi ma che, nel corso di una vita, avranno il tempo per conoscersi e scoprire di avere molto più in comune di quanto potessero pensare. Idealizzandole, una delle due potrebbe somigliare a un testo scritto mentre l’altra al suo adattamento cinematografico. Parole e immagini che s’inseguono di continuo, tentano di imitarsi e alla fine giungono a una sintesi, magari imperfetta, ma consapevole che l’unione tra due espressioni artistiche può portare alla creazione di storie destinate a lasciare un segno.

 

Alvise Wollner

 

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“Ready Player One” è un viaggio ai confini della realtà

Chiunque sia entrato in un cinema almeno una volta negli ultimi quarant’anni, non può non essersi imbattuto anche solo in uno dei trentadue lungometraggi diretti da Steven Spielberg. Il regista americano è parte integrante di quella schiera di autori le cui opere sono entrate di diritto nell’immaginario collettivo di milioni di persone. Al di là dei gusti personali che, di volta in volta, possono farci amare o meno i suoi film, Spielberg ha il pregio di voler continuare a sperimentare le nuove vie del cinema nonostante abbia raggiunto la soglia dei 72 anni d’età. Il suo nuovo gioiello si chiama “Ready Player One” ed è un viaggio fantasmagorico che anticipa il futuro guardando al passato.

Tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore statunitense Ernest Cline, “Ready Player One” racconta di un’avventurosa caccia al tesoro per la conquista di Oasis, uno sterminato universo virtuale in cui, nel 2045, gli abitanti della Terra si rifugiano per sfuggire alla desolazione e ai problemi della vita reale. I temi chiave su cui si basa il nuovo film di Spielberg sono essenzialmente due: il primo è quello della rilettura del passato per imparare a comprendere il futuro che ci attende. Il secondo riguarda l’eterna diatriba sui possibili sviluppi della realtà virtuale e sull’importanza di continuare a instaurare rapporti autentici e reali in un mondo sempre più dominato dalla tecnologia. Il primo dei due nodi tematici appena citati, viene sciolto da Spielberg attraverso l’utilizzo smodato del citazionismo che raggiunge l’apice nella seconda delle tre prove per la conquista di Oasis. Il tema della realtà virtuale contrapposta al reale è invece la parte più debole della storia, dal momento che non riesce mai a sfociare in un ragionamento approfondito sull’importanza del carattere umano, contrapposto al progresso della realtà virtuale.

Nel pensiero filosofico contemporaneo, la problematica della realtà esterna ha assunto una valenza prevalentemente gnoseologica. La riflessione neopositivistica, per esempio in Carnap, ha invece etichettato i contenuti e le soluzioni proposte in passato come risposte a uno pseudoproblema, in quanto non suscettibile di verifica sperimentale. Nella riflessione successiva al neopositivismo il problema della realtà è stato variamente discusso all’interno del rinnovato dibattito sul realismo, illustrando come la contrapposizione con una dimensione virtuale stia assumendo sempre più rilevanza nella nostra quotidianità. Il fatto che questi temi restino solamente accennati in “Ready Player One” costituisce il vero punto debole di un film che merita comunque di essere visto per lo spettacolo che offre agli occhi dello spettatore. Una colossale visione futurista che non può non lasciare a bocca aperta anche chi di cinema non se ne intende. “Ready Player One” è l’immagine di una realtà alla deriva che ci ricorda quanto sia necessario tenere a mente le parole del drammaturgo George Bernard Shaw, il quale sosteneva che «senza l’arte, la crudezza della realtà renderebbe il nostro mondo del tutto intollerabile».

A questo link potete trovare il trailer del film, al cinema da mercoledì 28 marzo.

 

Alvise Wollner

 

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“Chiamami col tuo nome” è un inno alla bellezza

C’è una sorta di classicismo contemporaneo nella vibrante estetica che pervade le immagini del nuovo lungometraggio di Luca Guadagnino, Chiamami col tuo nome. Miglior film ai Gotham Awards di quest’anno, l’opera del regista siculo racconta l’appassionata relazione estiva tra un giovane diciassettenne e uno studente universitario di origini americane in un idilliaco borgo del Nord Italia, a pochi chilometri di distanza da Crema.

Il viaggio di Chiamami col tuo nome inizia nel gennaio del 2017 con la presentazione, in anteprima mondiale, al prestigioso Sundance Film Festival e da lì, visto il successo riscosso oltreoceano, intraprende un trionfale cammino attraverso alcuni dei festival più importanti a livello internazionale, arrivando a essere uno dei grandi nomi nella corsa ai prossimi premi Oscar. Il merito di un simile risultato è dovuto in gran parte al talento di Guadagnino nell’offrire allo spettatore l’immagine di un’Italia che oggi non esiste più, immersa nella bellezza dell’arte antica e nella memoria storica di un passato a dir poco ingombrante (una delle scene chiave del film è girata davanti a un monumento dedicato alle vittime della Grande Guerra). Come ne La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino, l’immagine dell’Italia rimane sempre sospesa in bilico tra il cliché del Paese da cartolina e una location pervasa da insanabili contraddizioni che diventano lo specchio del carattere dei personaggi sul grande schermo.

La perfetta ambientazione anni Ottanta, le pedalate estive dei due protagonisti nella campagna cremasca e una colonna sonora impreziosita da ben tre indimenticabili canzoni del cantautore Sufjan Stevens sono i veri punti di forza del film che debutta nelle sale italiane giovedì 25 gennaio. Per chi non conoscesse ancora la filmografia di Guadagnino, Chiamami col tuo nome diventerà facilmente un film indimenticabile per la sensibilità con cui viene raccontata la trama e la cura dei dettagli con cui è stata preparata ogni inquadratura. Per chi invece ha già imparato a conoscere e amare il lavoro del regista siciliano dai precedenti Io sono l’amore e A bigger splash, questa trasposizione del libro dello scrittore statunitense André Aciman risulterà un piccolo passo indietro rispetto ai lavori precedenti di Guadagnino. Chiamami col tuo nome è infatti un inno alla bellezza a cui manca spesso quella componente di sublime cinematografico in grado di assurgerlo dal semplice status di ‘bel film’ a capolavoro. La pura estetica senza pulsione rischia molte volte di trasformarsi in un semplice esercizio di stile ed è un pericolo a cui i personaggi del film vanno più volte incontro, a differenza delle splendide statue elleniche nascoste nelle acque del Lago di Garda, perfette e misteriose nella loro immutabile ieraticità. Raccontando la bellezza, Guadagnino regala momenti di grande cinema nel momento in cui mette in scena il dolore e la paura del non essere accettati e corrisposti, un sentimento che i suoi personaggi incarnano alla perfezione mentre ardono nella passione di una calda estate lombarda. In quei momenti Chiamami col tuo nome non si limita a essere una semplice storia d’amore ma diventa un film capace di parlare al cuore di ognuno di noi.

 

Alvise Wollner

 

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“It” è un film che banalizza la cognizione dell’orrore

Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, il filosofo americano Noël Carroll provò a teorizzare nel libro The Philosophy of Horror (1990) il paradosso dell’orrore. Si tratta di una variazione del più tradizionale paradosso della tragedia, dovuto al filosofo David Hume e riducibile alla domanda: “perché siamo attratti da cose che (se fossero reali) riterremmo orribili?” La notizia che un film come It abbia incassato al box office statunitense oltre duecento milioni di dollari nelle prime due settimane di programmazione, è la dimostrazione che il pubblico è ancora molto attratto dal fascino dell’orrido. Ma che cos’è l’horror? Per Carroll si tratta di un genere eminentemente moderno, che ha avuto origine nel XVIII secolo in Europa con la cosiddetta letteratura gotica. Nell’analizzare l’horror Carroll evidenzia come questo genere sia un dispositivo che funziona nella sua totalità. Tuttavia, il filosofo mette in rilievo alcuni elementi tipici che appaiono essere più importanti di altri nella costruzione della finzione scenica. In particolare: la presenza nel cast di un gruppo di protagonisti generalmente umani (nel caso di It si tratta dei ragazzini che fanno parte del Club dei perdenti) contrapposti a un’entità mostruosa che li minaccia e che, a seconda dei casi, può assumere molteplici forme (tra cui quella umana).

Il successo del romanzo pubblicato nel 1986 da Stephen King è in gran parte dovuto alla sua capacità di riuscire a raccontare con incredibile efficacia un male archetipico, confinandolo in una mostruosa personificazione mutaforma delle paure di ognuno di noi. It è un mostro senza genere (anche se nel libro si ipotizza la sua propensione verso il lato femminile), è la personificazione di ogni nostra paura e si nutre del terrore che riesce a suscitare nelle sue vittime. L’unica soluzione possibile per eliminare un antagonista simile è compiere una crescita personale, superando le paure primordiali dell’infanzia e arrivando alla maturità dell’età adulta, dove i turbamenti non scompaiono ma si evolvono a una fase più consapevole rispetto al terrore di cui si nutre It. Nel nuovo adattamento cinematografico diretto da Andy Muschietti, gran parte di queste tematiche vengono banalizzate e ridotte a una lotta, nemmeno troppo spaventosa, tra un gruppo di ragazzini e un clown assassino (personificazione preferita del mostro creato da King).

Chiariamo una cosa: il nuovo lungometraggio di Muschietti non è del tutto esente da meriti. È girato con grande maestria registica, cura con grande attenzione gli elementi della messa in scena e, con un cast di tutto rispetto, ha il coraggio di prendere una serie di soluzioni narrative che in qualche modo lo rendono libero e indipendente dal peso incombente del romanzo a cui si ispira. It è un film che reclama una sua indipendenza ma che al tempo stesso si dimentica di mettere in scena l’elemento chiave nel conflitto tra il mostro e i ragazzini, vale a dire: l’immaginazione. La parte del viaggio onirico di Bill raccontata da Stephen King, poco prima dello scontro con il clown Pennywise, sarebbe stata una componente fondamentale da mettere in scena per mostrare allo spettatore come rabbia e coraggio non siano sufficienti, in questo caso, a eliminare un antagonista così spaventoso. Serve immaginazione per vincere le proprie paure ma Muschietti sembra dimenticarlo, portando in scena un film che punta molto sullo spavento più immediato e concreto, causato da esplosioni sonore a tratti esagerate e sulla diabolica fisicità del giovane Bill Skarsgård che interpreta It scegliendo saggiamente una prova di sottrazione attoriale, ispirata ai grandi antagonisti del cinema muto. Fatta eccezione per la splendida sequenza iniziale infatti, il clown di Skarsgård è un personaggio quasi muto e presente in scena pochissime volte, divenendo così una presenza metaforica più che un personaggio vero e proprio. In attesa di vedere la continuazione della storia cinematografica nel secondo capitolo dell’opera, questo primo vero adattamento cinematografico di It rimane un ottimo prodotto commerciale per la grande fruizione di massa, anche se la paura dei produttori di fallire al botteghino ha impedito all’opera di galleggiare verso l’Olimpo dei grandi film, rischiando di far naufragare una delle più belle storie mai scritte nella banalità ordinaria dell’intrattenimento orrorifico, già visto decine di volte sul grande schermo.

 

Alvise Wollner

 

[immagine tratta da google immagini]

 

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“Mother!” è un incubo freudiano perturbante

Das Unheimliche è un vocabolo della lingua tedesca, utilizzato da Sigmund Freud nel 1919 come termine concettuale per esprimere, in ambito estetico, una particolare attitudine della paura che si sviluppa quando una cosa (o una persona, una impressione, un fatto o una situazione) viene avvertita da noi come familiare ed estranea al tempo stesso, scaturendo una generica angoscia unita a una spiacevole sensazione di confusione ed estraneità. In italiano il termine è stato spesso tradotto con l’aggettivo sostantivato perturbante. Al cinema, il corrispettivo dell’Unheimliche freudiano potrebbe essere individuato in Mother!, nuovo film dello statunitense Darren Aronofsky, il regista che nel 2011 aveva diretto Il cigno nero.

Presentato in concorso alla settantaquattresima Mostra d’arte cinematografica di Venezia, Mother! (o Madre! se preferite la traduzione italiana del titolo) ha diviso fin da subito critici e spettatori, generando una serie di riflessioni e giudizi contrastanti sul valore etico ed estetico della pellicola. Il perché di tante polemiche e discussioni è presto spiegato: Mother! è un film pensato per disturbare lo spettatore, per farlo uscire dalla comfort zone della sala cinematografica in cui si trova e per scaraventarlo in un incubo a occhi aperti della durata di oltre due ore. Piccola precisazione: il termine incubo qui non vuole far intendere che il film di Aronofsky sia per forza un horror, perché sarebbe sbagliato etichettarlo in questo modo. Piuttosto potrebbe assere catalogato come un complesso thriller psicologico. La verità è che Mother! oltrepassa ogni possibile definizione di genere perché è una sorta di unicum rispetto a tutto quello che abbiamo visto finora al cinema.

La trama segue le vicissitudini di uno scrittore in crisi d’ispirazione e della sua musa intenta a sistemare la casa in cui hanno deciso di vivere. All’esterno dell’edificio sembra esserci solo la natura incontaminata, all’interno dell’abitazione regnano invece i sentimenti più disparati di una relazione: dall’amore alla rabbia, passando per le piccole gioie fino ai sogni infranti. Il microcosmo della casa dovrebbe essere idilliaco per i due coniugi, ma c’è sempre qualcosa in agguato pronto a minare la serenità di un rapporto che insegue di continuo il sogno della perfetta felicità. Poi, all’improvviso, il mondo esterno inizia a fare irruzione nella casa della coppia. Prima con piccole avvisaglie, poi in maniera sempre più invasiva. Jennifer Lawrence interpreta la personificazione della pars costruens, la donna che cerca di costruire e sistemare la propria esistenza insieme a quella del compagno, ricoprendolo di cure e attenzioni. Javier Bardem è invece l’artista demiurgo e imprevedibile che, dando vita alla pars destruens, rimane sempre in bilico tra caos e ragionevolezza.

Impossibile raccontare di più, onde evitare di rovinare un film che andrebbe vissuto con la piena volontà di lasciarsi trasportare dalle immagini, senza pretendere che queste possano avere un significato ed un senso nell’immediato. Mother! è uno di quei film che potrà disgustarvi o deludervi a una prima visione ma che saprà smuovere le vostre coscienze spettatoriali, lasciandovi con un’infinità di spunti su cui riflettere nei giorni successivi a quando lo vedrete. È un film che ha bisogno di tempo per essere assimilato e che non lascia indifferente chi lo guarda. Per questo è un’opera coraggiosa e stimolante che merita di essere vista al cinema superando i pregiudizi che potrebbero influenzarne la visione. Mother! parla al cuore e soprattutto alla mente dello spettatore. È un film che denuncia lo stato di degrado e violenza in cui si trova oggi il nostro Pianeta. È un’opera che non si vergogna di essere autobiografica nel momento in cui mette in scena il rapporto tra un artista e la sua musa (Aronofsky e Jennifer Lawrence sono una coppia nella vita reale). Soprattutto è un film che ha il coraggio di prendersi dei rischi immani e di osare tantissimo pur di raccontare una vicenda capace di provocare una reazione forte in chi la guarda. Un lavoro in cui i difetti non mancano, ma che sarà capace di accompagnare per molto tempo i suoi spettatori, lasciando un messaggio che per ognuno di loro sarà diverso. In questo risiede la forza del Pertubante: nel portare alla luce ciò che credevamo nascosto e inesistente, facendoci diventare consapevoli di come l’arte, capace di indagare realmente le dinamiche umane, riesca ancora a turbarci nel profondo, avvicinandoci nel contempo al sublime.

Alvise Wollner

 

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SELEZIONATI PER VOI: LUGLIO 2015

LIBRI

Luglio che ci rende in equilibrio con l’estate. Già immersi nelle serate estive. Già pronti a cantare a squarciagola ai nostri concerti preferiti. Già vivi e doloranti di caldo. Già saturi di granite ghiacciate.

Senza pensare a cosa verrà dopo, senza pensare a quando l’estate sarà finita.
Luglio è il mese di ciò che è già iniziato ed è solo da godersi. Luglio è il mese di chi non è nostalgico.

Luglio è..

Giallo: “L’esatto contrario” di Giulio Perrone

Riccardo, giovane squattrinato e disilluso, si districa in quella monotonia quotidiana che tutti conosciamo fin troppo bene. Ogni giorno sembra uguale, il suo lavoro non lo soddisfa, la sua vita scorre su un filo che sembra tracciato con il righello. Almeno fino a quando non verrà tracciata una linea gialla, una linea che disegnerà il cambiamento. Una linea che, nel far emergere un passato colmo di mistero, finirà per non essere completamente dritta, nè completamente gialla. A lui spetterà scoprirne ogni sfumatura e volti che nasconde, a lui spetterà scoprire tutto ciò che fino a quel momento non era stato nemmeno sospettabile…

Blu cobalto: “La ragazza del treno” di Paula Hawkins

Una pendolare che ogni mattina dal suo posto nel treno osserva lo stesso paesaggio è lo scopritore maggiore dei dettagli di cui siamo circondati. Questa è la storia di Rachel, che attraverso la sola capacità di guardare piuttosto che vedere stimola la sua immaginazione. La stimola ogni giorno, ogni volta che sale su quel treno. Anima personaggi, luoghi, forme. Anima per fantasia, almeno finché non diventa testimone di qualcosa di più reale.

Rosa: “102 chili sull’anima” di Francesca Sanzo

Francesca e i suoi 102 chili. Le pesano sul corpo, le pesano nelle parole della gente che sente dietro di sè. Le pesano sul cuore. Le pesano sull’anima. Quell’anima nera colma di conflitti che non riesce a perdonarsi. Quell’anima tossica che ha intossicato anche il corpo.

Un diario autobiografico che racconta una metamorfosi e una rinascita. Non come si indossa una dieta, ma come si effettua una mutazione. Come una muta che ci si infila addosso per non togliercela più, questo l’obiettivo di chi vuole reagire a se stesso. A quella parte di sé che nuoce, a quella parte di sè che probabilmente si stupirà di scoprire. A quella parte che, grazie ad un lungo percorso, scopre essere non più tanto sé. Una storia di coraggio, una storia di forza, capace di farci capire quanto possa contare la nostra interiorità su ogni aspetto esterno di noi.

Cecilia Coletta

FILM

Luglio è forse il mese più difficile di tutta l’annata cinematografica. Con l’arrivo del caldo e dell’estate il pubblico è sempre più invogliato a passare le giornate al mare o a godersi una piacevole serata estiva. Naturale quindi che venga meno anche la voglia di andare al cinema. I titoli che usciranno nelle sale italiane nei prossimi giorni non sono moltissimi ma come ogni mese abbiamo selezionato per voi i migliori tre (o, se preferite, i meno peggio).

– Predestination – di Michael Spierig e Peter Spierig

Fantascienza e thriller sono tra i generi più amati dal pubblico estivo. Film dai ritmi serrati e con storie accattivanti sono uno dei pochi spunti motivazionali per convincere il pubblico ad andare al cinema. Il nuovo film dei fratelli Spierg unisce questi due generi per raccontare la storia di un agente che viaggia nel tempo per catturare l’unico criminale sfuggitogli nel corso di tutta la sua carriera. Una missione dagli esiti tutt’altro che scontati in cui a farla da padrone è la prova di Ethan Hawke. USCITA PREVISTA: 1 LUGLIO

– Giovani si diventa – di Noah Baumbach

Se fantascienza e thriller sono due generi forti dell’estate, la commedia è un classico sempreverde che funziona in tutte le stagioni. Lo sa bene il regista Noah Baumbach che dirige una pellicola frizzante, interpretata da quattro attori superstar (Ben Stiller, Naomi Watts, Amanda Seyfried e Adam Driver). La storia è molto semplice: una coppia di quarantenni decide di mollare tutto per seguire una coppia di giovani hipster e provare a vivere una nuova giovinezza. Gag e battute sono garantite. Per una serata da passare in compagnia e senza troppi impegni. USCITA PREVISTA: 9 LUGLIO

– Pixels – di Chris Columbus

Probabilmente il film del mese sarà proprio il ritorno in grande stile di C. Columbus (il regista dei primi “Harry Potter” e di “Mamma ho perso l’aereo”). Una razza aliena scambia le immagini dei vecchi videogames per una dichiarazione di guerra e attacca la terra usando i giochi stessi come modelli per i loro assalti. Il Presidente degli Stati Uniti chiama allora il suo amico d’infanzia Sam Brenner (Adam Sandler), un campione di videogames negli anni ’80, per difendere la terra. L’umanità dovrà così essere salvata da un gruppo di simpatici nerd. Azione, risate ed effetto nostalgia assicurati per tutti coloro che sono cresciuti a pane e videogames. Da non perdere. USCITA PREVISTA 29 LUGLIO

Alvise Wollner
[Immagine tratta da Google immagini]

Le ragioni del cuore

Dopo essere stata osannata dal pubblico e dalla critica europea, l’ultima pellicola di Lucas Belvaux arriva anche in Italia. “Sarà il mio tipo?” è una commedia romantica che riesce a non rimanere intrappolata nei classici stereotipi di genere, superandoli con leggerezza.
 
Potrebbe mai un professore di filosofia parigino innamorarsi di una sciampista sempliciotta e provinciale? L’interrogativo da cui parte una delle commedie francesi più apprezzate degli ultimi mesi è proprio questo. Mettere in scena una storia simile potrebbe sembrare piuttosto facile, ma in realtà non è esattamente così. Il rischio di cadere in situazioni e schemi banali o già visti è infatti molto alto. Tutto parte dallo stereotipo della coppia composta da due persone esattamente agli antipodi tra loro. Lui è un professore affascinante, acculturato e sagace che ha fatto della sua incapacità di amare una teoria generale delle relazioni umane. Lei, al contrario, è una bionda e vivace parrucchiera che adora i film con Jennifer Aniston e cresce un figlio da sola. Senza grandi velleità intellettuali, ma alla costante ricerca del principe azzurro che la porti via dalla sua realtà in sella a un bianco destriero. Un po’ per caso, un po’ perché l’amore è tutto fuorché razionale, i due finiscono per apprezzarsi, conoscersi ed infine innamorarsi. Una passione che tra le mura domestiche funziona alla grande, ma che in pubblico rischia di essere minata dai pregiudizi e dal bigottismo della gente, facendo nascere anche nella coppia dubbi e perplessità su quella relazione tanto magica quanto improbabile.
Mettiamo subito le cose in chiaro: “Sarà il mio tipo?” non è un gran film. Piuttosto è una commedia leggera e godibile che più di altre sa trasformare le sue caratteristiche di partenza in una serie di punti di forza. Il primo di questi è senza dubbio la prova attoriale di Émilie Dequenne che quindici anni dopo il suo esordio nello splendido “Rosetta” dei fratelli Dardenne, torna protagonista con un ruolo che sembra cucito su misura per lei. Ma la vera forza di questo film, che si lascia guardare con semplicità e piacere, è quella di trattare con grande intelligenza e un bel pizzico di filosofia, argomenti che altrimenti sarebbero risultati totalmente banali. Stravolgendo i classici cliché, Belvaux mette in mostra la rivincita della persone semplici in un gioco delle parti in cui i professori-filosofi conoscono tutto della teoria, ma scoprono i loro limiti nel momento in cui devono calarsi in prima persona nella vita di tutti i giorni. C’è molta più intelligenza in una tranquilla parrucchiera di provincia che non in tutta la sala docenti della Sorbona, sembra dirci il regista del film. Anche questo forse può sembrare a sua volta un luogo comune, ma contiene dentro di sé una grande verità. A volte sono le persone più semplici quelle in grado di capire fino in fondo la profondità della vita e dei sentimenti umani. E così la parrucchiera di provincia sopravviverà alle burrasche amorose sulle note di Gloria Gaynor, mentre il giovane docente scoprirà che la filosofia si impara vivendo ogni giorno e non solo su una serie di polverosi libri accademici. Insomma se non fosse una semplice commedia francese, potrebbe quasi essere un grande film.
Alvise Wollner
[Immagini tratte da Google Immagini]

Selezionati per voi – MAGGIO 2015

LIBRI

Maggio. Odore di estate. Odore di serate davanti ai tramonti. Odore di libri letti e riletti. Odore di emozione. Odore di eventi. Odore di attese.

C’è sempre un mese per scoprire una novità, e prima di raccontarvi quelle letterarie di maggio 2015, vi segnalo un evento da non perdere: L’edizione 2015 del Salone Internazionale del Libro di Torino, che si svolgerà da giovedì 14 maggio a lunedì 18 maggio. Pensata per giovani ed adulti, pensata per qualsiasi passione e qualsiasi genere, non potete assolutamente mancare!

Proposte del mese, da sfogliare pagina per pagina:

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La piuma – Giorgio Faletti

Il 4 luglio 2014 moriva Giorgio Faletti, scrittore best-seller. Faletti non era soltanto un grande scrittore, era un grande uomo, di quelli che al mondo si contano su una mano, e ti avanzano anche dita in più. Ad un anno dalla sua scomparsa, torna con uno scritto dolente, colorato di malinconia e rassegnazione: La Piuma. Definita una “favola morale” che ci dirige tra le bassezze degli uomini, fino a poter cogliere il senso più profondo e meno lineare delle cose. Perché il mondo è fatto di personaggi e punti deboli, volti di vergogna e colori poco innocenti. Uscita prevista: 15 maggio.

Perché tu non ti perda nel quartiere – Patrick Modiano

L’ultimo capolavoro del premio Nobel 2014 Patrick Modiano, romanzo in cui racchiude i temi a lui più cari, tra cui l’importanza della memoria e l’amore che sembra scordarsi solo apparentemente per tornarci ad aggredire non appena le nostre debolezze si lasciano andare. Il protagonista è Jean Daragane, uno scrittore parigino ormai anziano che vive in totale solitudine, lontano da tutto. Lontano dal mondo finché non gli squilla il telefono di casa, come per richiamarlo. Come per dirgli che non tutto se ne va per sempre, come quell’uomo che dalla parte opposta del telefono gli dice di aver ritrovato una sua vecchia agenda, persa sul treno, come sembravano persi i suoi ricordi. Uscita prevista: 26 maggio.

La stagione degli innocenti – Samuel Bjork

Già caso letterario in Norvegia, il nuovo thriller tinge le foreste del nord. Esordio di Samuel Bjork, uscirà in ventidue paesi. Si apre nello scenario di una foresta immersa nel silenzio, dove giace una giovane vittima impiccata ad un albero con appeso al collo un cartello dove c’è scritto “Io viaggio da sola”. La crudeltà e l’efferatezza del caso convincono a richiamare in servizio il veterano Holger Munch, uomo solitario e con una sfrenata passione per gli enigmi. Troppe cose si nascondono dentro di lui. Come dentro ad un caso ancora da risolvere.

Cecilia Coletta

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FILM

Maggio è uno dei mesi più amati dagli appassionati di cinema. Non tanto per la ricchezza di film in uscita, quanto piuttosto per l’inizio dell’attesissimo Festival di Cannes. Tappa imperdibile per scoprire quali saranno i migliori titoli della stagione. Aspettando la manifestazione francese potete scoprire nel frattempo i nostri tre consigli cinematografici per questo mese. Buona visione!

Leviathan di Andrei Zvyagintsev

Esce anche sugli schermi italiani l’ultimo film dell’acclamato regista russo, vincitore del Leone d’oro a Venezia per “Il ritorno” nel 2003. Viene dritta dal libro di Giobbe questa parabola umana di disperazione ma è asciugata completamente da qualsiasi forma di speranza o fiducia in Dio. I disastri nella vita del protagonista infatti si susseguono uno dopo l’altro ma non è tanto la volontà di Satana a metterlo alla prova, quanto più prosaicamente l’accanimento del sindaco di un piccolo villaggio russo, cioè della forma minore di potere statale che si possa incontrare. Zvyaginstev sfiora l’Oscar con un film perfetto sul piano formale, elegante e diviso con grande rigore in due parti. Forse non è la sua opera più riuscita ma resta comunque un film che merita di essere visto almeno una volta. USCITA PREVISTA: 7 MAGGIO

Mad Max: Fury Road di George Miller

Sarà presentato in anteprima mondiale proprio al Festival di Cannes il remake di un film che ha fatto storia. Ai confini più remoti del nostro pianeta, in un paesaggio desertico e desolato dove l’umanità è distrutta, e tutti lottano furiosamente per sopravvivere, Max è un uomo d’azione e di poche parole, che cerca pace dopo la perdita della moglie. Tra personaggi inquietanti e sequenze memorabili, si preannuncia un ritorno cult da non perdere. USCITA PREVISTA: 14 MAGGIO

Youth – La giovinezza di Paolo Sorrentino

Il regista premio Oscar per “La grande bellezza” torna a dirigere un film per il grande schermo. Si tratta di una storia ambientata in un elegante albergo ai piedi delle Alpi dove Fred e Mick, due vecchi amici alla soglia degli ottant’anni, trascorrono insieme una vacanza primaverile. Lo stile è quello caro all’ultimo Sorrentino, sempre attento a ricercare l’inquadratura ideale e la perfezione stilistica. Nel cast spiccano i nomi internazionali di Michael Caine, Harvey Keitel e Rachel Weisz. Staremo a vedere se anche questa volta uno dei registi nostrani più apprezzati all’estero sarà riuscito a fare centro. USCITA PREVISTA: 21 MAGGIO

Alvise Wollner

[immagini tratte da Google immagini]