Alterità e perdono: i rapporti duraturi seguendo Recalcati

Quotidianamente constatiamo di vivere in una società frenetica, che corre incessantemente senza permettere alcun momento di pausa. In una società così caratterizzata, chiediamoci come risulta essere il rapporto con l’alterità, con l’Altro, che si inserisce nel tempo che abbiamo a disposizione per correre e, tendenzialmente, ci porta a rallentare il nostro incedere. In questa realtà, le relazioni sono sempre più instabili ed effimere, nel senso etimologico della parola poiché durano poco, quasi un giorno solo (epì eméra = per un giorno). Sono relazioni liquide, come direbbe Zygmunt Bauman, i cui legami e vincoli sono fragili, deboli e incerti non solo nel domani, ma anche nel presente. E ciò a cosa può essere dovuto se non alla nostra voglia di correre per soddisfare immediatamente tutti i nostri desideri, senza alcuna attesa? Al per sempre, quindi, non viene dato modo di esistere e Massimo Recalcati (Milano, 1959) se ne rende conto, come racconta in una sua intervista:

«L’amore non è destinato a durare ma a spegnersi in breve tempo. Il suo doping ha il fiato corto. Le coppie non credono più al matrimonio, al vincolo del legame, si disfano più facilmente. Il nostro tempo è il tempo, come direbbe Bauman, degli amori liquidi.»

Soffermiamoci sulla relazione più totalizzante, sulla cui durata, però, noi non abbiamo più tempo di interrogarci, poiché ci risulta naturale pensare all’amore come qualcosa di passeggero. Eppure esiste la possibilità di un amore duraturo, che in certi casi è anche il risultato di un lavoro sul perdonare l’altro, sforzo che si nasconde dietro a questo sentimento malleabile. Se la società frenetica tende a plasmare l’amore con le categorie che identificano la realtà, cioè incertezza, mutamento continuo e fugacità, noi, con la riflessione, possiamo esprimerci su un lavoro lento e faticoso, un lavoro che richiede tempo e impegno.

«L’amore eterno non esiste. Eppure esiste la promessa, l’aspirazione degli amanti a rendere il loro amore eterno.»

Il per sempre, dunque, non ci è garantito: sta a noi renderlo realtà e volerlo fare non è mostrarci immaturi bensì trasformare l’eventualità dell’incontro con l’altra persona nella continuità di una relazione. Per far ciò potremmo dover perdonare, ma perchè farlo?
Nel momento in cui l’Altro ci volta le spalle, la sua presenza subisce un’eclissi traumatica: ci dobbiamo confrontare con un vuoto che l’Altro ha creato nella nostra vita e in noi, come persona. La sua assenza è una perdita, senza dubbio, ma non una perdita irreversibile: per questo sarà il soggetto a doversi chiedere, nel caso in cui l’oggetto del perdono voglia riprendere il discorso amoroso che lui stesso ha frantumato, se decretare una fine definitiva dell’amore o richiamare l’altro alla presenza.

«Sono io a decidere se la sua immagine deve morire o no.»

Dovrà chiedersi se perdonare, se intraprendere un lavoro sulla sua imperfezione, non sull’imperfezione dell’Altro, un lavoro che permette di giungere faccia a faccia con le contraddizioni e i contrasti quotidiani della nostra vita. Il perdono non potrà cancellare la ferita, e nemmeno ricomporre il vaso, per ridargli la forma precedente la caduta, ma potrebbe permettere di amare l’altro nella sua più radicale libertà, che aveva offeso la promessa e frantumato l’immagine inedita della realtà. Il rapporto con l’Altro non sarà lo stesso di prima, perché la nostra percezione dell’Altro sarà cambiata, dato che lui ha subito una metamorfosi: da anima totalizzante si è eclissato con il tradimento e ora tenta di riaffermarsi nella nostra vita.

In una società così dedita all’hic et nunc, al qui ed ora, permettiamoci di rischiare per una promessa, di concederci di perdonare, se sentiamo che la felicità si trovi al di là del correre incessante. Concediamoci di tornare sui nostri passi, concediamoci un gesto gratuito di perdono per essere liberi di ricercare rapporti duraturi, in un’epoca che ci inonda di sensazioni effimere. Permettiamoci di vivere la fiducia in un mondo nuovo, creato dall’unione dell’Io e dell’Altro.

Andreea Gabara

[Photo credit Alex Schute via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

La Tana di Kafka: l’essere prigionieri di sé stessi

La Tana è un racconto scritto nel 1923 da Kafka durante la sua permanenza a Berlino; il protagonista del racconto è avvolto dal mistero e si intuisce che sia un roditore intento a cercare di costruire un nascondiglio sotterraneo per difendersi da eventuali invasori che potrebbero cibarsi di lui. Il covo è labirintico, lontano sempre di più dalla superficie e il roditore passa le giornate a perfezionare la sua struttura scavando ulteriori cunicoli e a consumare convulsivamente le sue provviste. 

Una volta concluse le provviste è costretto ad andare a caccia per procurarsene delle nuove; terrorizzato dal poter essere scoperto si ritrova incapace di uscire dalla sua stessa tana: «Ho assestato la tana e pare riuscita bene. Dal di fuori, in verità, si vede soltanto un gran buco che però in realtà non porta in nessun luogo» (F. Kafka, La tana, 2017)Sembra che il rifugio che aveva costruito a sua difesa si sia trasformato in una gabbia che lo imprigiona; mentre le sue riflessioni si accavallano, sente degli strani rumori dall’esterno e si convince che di lì a poco sarà attaccato. Il roditore si prepara a difendersi, chiedendosi perché non abbia udito prima il nemico e il racconto si conclude bruscamente con la frase: «Tutto invece è rimasto immutato…» (ivi).

Le vicende di questo peculiare personaggio portano a riflettere su come la nostra casa possa diventare la nostra prigione, ma soprattutto su come si possa diventare prigionieri di sé stessi; il suo flusso di pensieri è concitato, inquieto e quasi si è incapaci di distinguere se le sue preoccupazioni siano reali o frutto di un’allucinazione provocata dalle sue paure. Il piccolo roditore di Kafka ha scelto di vivere lontano dai suoi simili, si è volontariamente isolato a scopo di difesa; la paura del diverso e dell’incontro con l’altro lo hanno portato ad una reclusione forzata che lo ha spinto ad allontanarsi dalla vita vera. Si legge infatti: «Quando esco devo quindi vincere anche fisicamente la pena che mi dà questo labirinto e provo dispetto e commozione a un tempo ogni qualvolta mi smarrisco per un istante nella mia propria fabbrica e l’opera sembra ancora compresa nello sforzo di provare a me, che già da un pezzo mi sono fatto un giudizio, la sua giustificazione di esistere…» (ivi).

Il racconto di Kafka è un’allegoria di ciò che accade oggi, ma che in realtà è sempre accaduto: l’incontro con l’alterità spaventa, è difficile accettare di vivere con gli altri ed è altrettanto complesso accettare di conoscerci attraverso l’altro. Si deve vivere in relazione agli altri perché chiudersi ci allontana dal conoscere l’altro e il mondo, portandoci ad alimentare paure, sospetti e pregiudizi. Paradossalmente proteggersi implica aprirsi all’ignoto e al pericolo, scegliere di blindare il nostro io vuol dire esporci inesorabilmente a pericoli che non siamo in grado di affrontare. Nell’atto finale, infatti, il piccolo animale per proteggersi è costretto a risalire attraverso i cunicoli del labirinto che ha costruito ed arrivare quasi alla sua superficie per poter avvertire meglio le mosse del nemico. 

Lo sviluppo dell’individuo è nel rapporto con gli altri e lo si vede dalle sue attività che hanno tutte in sé natura sociale, le barriere che scegliamo di costruire a livello individuale e quelle che si sono volute costruire a livello sociale hanno lasciato impronte indelebili nella storia.

È emblematico che il racconto si concluda bruscamente affermando che nonostante gli sforzi, nonostante i tentativi di difesa tutto è rimasto immutato: è rimasto immutato perché il protagonista è senza storia. Una storia che non si costruisce isolandosi: la storia è ciò che muta l’essere umano e va costruita attraverso scelte e azioni che permettono un rapporto dialettico con l’altro, vi deve essere integrazione e azione. Il singolo fa la storia attraverso i suoi atti performativi, ma anche la storia lo trasforma, non si può accettare di vivere non avendone una. È di primaria importanza per l’individuo conoscere sé stesso identificandosi nell’altro, la paura dell’altro del roditore oggetto del racconto nasce dal suo non conoscerlo; la non conoscenza porta alla costruzione irrealistica di una idea di realtà che si finisce per accettare cecamente. 

Tutti gli sforzi del soggetto di allontanarsi dall’altro non hanno fatto altro che avvicinarlo ad esso nella parte finale, nel momento in cui risale in superficie non può fare altro che aspettare che si compia il suo destino e attendere l’arrivo imminente di uno straniero di cui non conosce neanche le reali intenzioni. Il nemico che spesso vediamo nell’altro è in noi stessi, si può diventare estranei nel momento in cui non ci si riconosce come specchio di un’alterità che non è nemica, ma nostra complementare.

Accettare di voler conoscere il singolo vuol dire accettare di conoscere l’altro senza dissolversi in esso, ma cercando un confronto critico. Ciò che Kafka ci mostra nel suo racconto vuole essere un monito e ci ricorda che possiamo essere sia la nostra prigione, sia le fondamenta della costruzione del nostro io, che deve formarsi attraverso le azioni e la volontà di accettare i rischi che vi saranno, ma che porteranno ad essere parte attiva della storia.

 

Francesca Peluso

 

[immagine tratta da Pixabay]

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Il respiro dell’immateriale: il cittadino-paziente e l’isolamento

Nel mondo globalizzato dal virus la biopolitica prende il sopravvento. Il cittadino-paziente è impossibilitato ad uscire di casa, se non per comprovate esigenze lavorative o di salute.
La politica sbadatamente si dimentica che il distanziamento sociale tra anima e corpo è oramai superato. Il diritto alla salute, di cui tanto si è parlato, non può prescindere dal precedente assunto. L’Uomo, connubio di anima e corpo, è un essere-nel-mondo e in quanto tale include tra i suoi determinanti di salute anche l’ambiente esterno in senso lato.

Rinchiuso nelle quattro mura domestiche il cittadino-paziente sente l’esigenza dell’immateriale: il contatto con la natura, le relazioni interpersonali, la cultura.
La biopolitica, preoccupata molto del corpo e dei possibili effetti su di esso, ha prestato ben poca attenzione agli effetti sulla psyché e alle possibili ripercussioni nella sfera delle relazioni con l’Altro.

Cresce – in isolamento – il bisogno di alterità: di altro e di altri. La solitudine infatti se imposta si trasforma in isolamento. E l’isolamento pandemico rivela la spietatezza del capitalismo. Al cittadino-paziente è permesso di uscire per andare a lavorare, ma non gli è concesso oziare su un prato o su una spiaggia. Non gli è permesso trarre godimento dalle bellezze naturali e dall’incontro con l’Altro.

Cresce – in isolamento – il bisogno di complessità. L’esistenza dell’individuo si alimenta attraverso l’interconnessione di esperienze, situazioni, contesti, idee, parole, emozioni e sensazioni. Nell’apatia e nell’omogeneità dell’isolamento pandemico il cittadino-paziente esaurisce la sua alterità. Soffoca.

Ma il cittadino pazienta e attende il viaggio al di là dei propri confini domestici, con o senza passaporto immunitario. L’apprendere un nuovo valore di spazio-tempo conduce il cittadino post emergenza pandemica a viaggiare a rallentatore. Godersi ogni attimo e riappropriarsi dell’interazione con la natura, in cui – come dimostrato da studi scientifici – l’attività cerebrale è più efficiente e lo stato psicologico ne trae vantaggio. L’irregolarità del paesaggio naturale ridonano la complessità e l’alterità. Il solo osservare l’eterogeneità delle forme della natura origina uno stato di rilassamento e benessere generale.

Il cittadino pazienta e attende l’amico, la cui amicizia rappresenta il dialogo delle diversità. Non statica, bensì in movimento, l’amicizia unisce il molteplice e consente di scoprire ed esaltare la propria unicità.

Il cittadino pazienta e attende la cultura, di cui la psyché si nutre e attraverso cui la comunità prospera. Ora più consapevole dell’utilità dell’inutile abbandona il culto dell’utilità, che inaridisce lo spirito. L’arte non più confinata entro le mura dell’isolamento pandemico, torna ad essere espressione libera e condivisione.

Il virus soffoca il respiro, ma il cittadino pazienta e ritorna a respirare l’immateriale.

 

Jessica Genova

 

[Photo credit Marc-Olivier Jodoin via Unsplash]

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La fragilità umana: una bellezza da custodire

Imperfezione deriva dal latino perficere – letteralmente compiere – che va ad indicare il non compiuto, non finito, ciò che deve ancora venire a completarsi. L’essere umano è la personificazione materica stessa di questo termine. Credo che l’imperfezione sia la fonte stessa della narrazione: dove vi è perfezione, là scema il raccontare. La parola perde la propria capacità diventando completamente superflua. L’uomo, invece, è parola.
Nessuna narrazione dell’umano sull’umano può prescindere da quella che è una delle caratteristiche peculiari e connotanti di questi: la vulnerabilità. Richiamare solo la capacità di agire e volere, ignorando la vulnerabilità, fornisce una rappresentazione utopica e priva di fondamenta realistiche dell’essere umano. Basti riprendere qui le parole della filosofa Martha Nussbaum: «una parte della particolare bellezza posseduta dall’eccellenza umana consiste proprio nella sua vulnerabilità» (M. Nussbaum, La fragilità del bene, 2011).

Antigone può essere qui un esempio di grande valore. La sua è una tragedia che porta ad interrogarsi su importanti temi, quali la giustizia, i rapporti familiari, il sacrificio personale, la trasgressione delle norme. Antigone è un personaggio rivoluzionario, il cui nome porta con sé la riflessione sulla liceità degli atti umani. Chi si fa onere di tale riflessione non può trascendere la propria condizione di essere umano fallibile.
Antigone cammina verso la grotta della condanna accompagnata dall’amore per il fratello Polinice e per il diritto del singolo contro il nomos despotes. Né uno né l’altro la rendono immune dal timore, dal dubbio, da quel che già Nietzsche definì come l’assalto della realtà.
L’eroina tragica è consapevole che la sepoltura data al fratello contro la legge di Creonte non può che condurla verso la sua fine. Una consapevolezza che non può portare con sé alcuna gioia, ma solo la risolutezza a non cedere alla paura e al desiderio di volgersi indietro per imboccare una via meno dolorosa. Antigone anela la morte, ma non certo con gioia. La sua è una scelta quasi del tutto obbligata, data dalle circostanze che le rendono preferibile gli inferi al mondo dominato dall’arbitrio umano.

È chiaro, quindi, che le molteplici capacità e la consapevolezza che l’essere umano può acquisire nel corso della sua esistenza non possono debellare la fragilità che lo caratterizza. Antigone ci insegna a sopportare i dolori dell’esistenza: la sua superiorità sta nella consapevolezza della caducità della vita, manifestata attraverso l’esasperazione dell’esperienza della sofferenza, elevata ad arte.
Appare qui una struttura triangolare in cui la fragilità umana viene continuamente a confrontarsi e, quindi, scontrarsi. L’essere umano accede alla propria condizione di vulnerabilità attraverso la mediazione del corpo, del tu e del noi.

Innanzitutto, come il filosofo francese Vladimir Jankélévitch ha lucidamente puntualizzato, «l’uomo è fondamentalmente vulnerabile […] la morte può entrare in lui attraverso tutte le giunture del suo edificio corporeo» (V. Jankélévitch, Pensare la morte?, 1995). La fragilità o vulnerabilità è coestensiva alla vita: ogni creatura vivente è esposta al rischio di essere ferita e spezzata nella sua integrità a causa dei più svariati fattori esterni o interni quali violenze e malattie. In termini antropologici, la vulnerabilità del vivere indica come la promessa inscritta nella vita sia sempre esposta al rischio di essere ferita, spezzata, interrotta (P. Sequeri, E. Garlaschelli, L’umano patire, 2009). È solo grazie al corpo, infatti, che ciascuno si intuisce come un essere che nasce, cresce, invecchia e muore, che agisce e patisce, che sente dolore e piacere.

In secondo luogo: l’altro, il “tu”. La presa di coscienza del corpo come “proprio” procede di pari passo alla relazione instaurata con l’altro da sé. L’identità di sé si costituisce solamente nella relazione ad altri. L’io è sempre in relazione con alcune strette persone: la famiglia, gli amici. Si legge attraverso loro. Ci si apre a loro e in quest’apertura si scorge la possibilità di essere feriti.

Una ferita che può provenire, infine, anche dal consorzio degli esseri umani. Il suo simile può sempre agire contro di lui, lo può ferire, lo può trattare con violenza fino al punto da esporlo al rischio della morte. Basti citare brevemente Thomas Hobbes, per il quale il bisogno di sicurezza sociale è a fondamento della convivenza tra gli uomini. Questi, al fine di evitare la guerra di tutti contro tutti, accettano reciprocamente di rinunciare a porzioni della propria libertà (T. Hobbes, Leviatano).

Nonostante i risvolti che si possono presentare, credo che la fragilità umana sia il volto più umano dell’umano e che, come tale, vada preservato come quanto di più bello e prezioso che vi sia.

 

Sonia Cominassi

 

[Photo credit Mohan Murugesan via Unsplash]

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Specchio come oggetto, specchio come funzione, specchio come filtro

«Credule, quid frustra simulacra fugacia captas?/ Quod petis, est numquam; quod amas, avertere, perdes./ Ista repercussae, quam cernis, imaginis umbra est: nil habet ista sui: tecum venitque manetque,/ tecum discedet, si tu discedere possis»1: questi versi tratti dal III libro delle Metamorfosi di Ovidio descrivono il delirio di Narciso conseguente all’innamoramento dell’immagine, bellissima e evanescente, riflessa in uno specchio d’acqua. Narciso, al contrario di Eco, ama solo se stesso, è l’identità assoluta che non conosce alterità. 

Con riferimento alla teoria lacaniana dell’étade du miroir, Narciso inizierebbe a costruire il proprio “io” un po’ tardi: è infatti tra i sei e i diciotto mesi che il bambino riesce a riconoscere la propria immagine riflessa elaborando un primo abbozzo del proprio “io” seppur in modo confuso e in stretta dualità con la madre. Secondo Lacan, il bambino, di fronte a uno specchio, reagirebbe dapprima esattamente come Narciso, come se si trattasse cioè di una realtà a sé che si può afferrare, per accorgersi solo dopo che si tratta invece di un’immagine, la propria, ritenuta tale perché diversa da quella dell’adulto che lo tiene in braccio. E sono lo sguardo e la conferma verbale della madre, cioè dell’altro, che iniziano a definire il bambino in modo autonomo: l’antitesi è dunque necessaria per la formazione e l’affermazione dell’“io”, auspicabilmente senza cadere nel compromesso della sintesi hegeliana o nella follia pirandelliana di una frammentazione dell’identità all’infinito. 

Non intenderei lo “specchio” solo in un’accezione letterale come oggetto materiale ‒ sia quello di Narciso, di Lacan o di Grimilde – ma anche in senso metaforico, cioè come “funzione specchio”, rilegata a ciò che è “altro dall’io”, tanto con una valenza linearmente speculare, di sola affinità – quante volte ad esempio ci capita di sentire frasi come “quella canzone riflette il mio stato d’animo”? – quanto con una valenza più scabra, di scontro e incontro, di conoscenza e potenziamento del proprio io.  

A riguardo, nelle cosiddette Lettres du Voyant Rimbaud ribadisce la celebre affermazione «Je est un autre»: il poeta di Charleville attaccando la poesia soggettiva dei Parnassiani delinea una visione orfica del poeta, da considerarsi non un’entità piena al centro del reale, ma strutturata dall’esterno, che, attraverso quel «dérèglement de tous les sens», trascende l’io e perlustra l’ignoto ‒ «C’est faux de dire Je pense: on devrait dire On me pense».

Se in Rimbaud la postura oracolare pone l’imperativo per il poeta di trovare una lingua nuova, quella «langue de l’âme pour l’âme», la lingua delle correspondances, la dialettica io/altro – insita nell’etimo stesso del termine “persona” appunto intesa come “maschera”, come le dramatis personae dell’attore di teatro ‒ è invece trattata da una prospettiva psicanalitica da Ingmar Bergman in un capolavoro meta-cinematografico e stilisticamente postmoderno ante litteram, Persona (1966). 

Con un montaggio scarno ed essenziale, quasi una tragedia teatrale divisa in atti dalla scena della mano bucata dal chiodo, ripetuta per tre volte a mo’ di sipario, Persona porta sullo schermo l’animo umano, fluido e contraddittorio, assettato di amore e di verità. «[] Tu insegui un sogno disperato Elizabeth, questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, non sembrare di essere []»: questa la diagnosi fatta all’attrice Elizabeth Vogler sul suo clinicamente inspiegabile mutismo, iniziato durante la recitazione dell’Elettra come tentativo psicosomatico di svuotare di senso la propria esistenza. Durante una convivenza a scopo terapeutico con la giovane infermiera Alma al mare, fatta di fluviali flussi di coscienza di quest’ultima, le due donne si fondono e si confondono in un caos dionisiaco, in una casa senza calendari né orologi, in una geniale inquadratura che accosta le metà illuminate dei due volti creando un unico essere umano aberrante quanto meraviglioso. Le due donne si fanno da specchio, da schermo di proiezione l’una dell’altra, rivelando le reciproche ombre nascoste e dimostrando che la presenza dell’altro è uno scacco per il mantenimento di un frammento di “io”. Un film, che mediante la tecnica della mise en abîme spinge il cinema al limite di se stesso, laddove il linguaggio e la luce verrebbero meno, per affermare l’arte come forma più autentica di esistenza per non soccombere alla follia e alla morte. Lo specchio dunque può essere inteso come filtro che rilega al di qua, nella vita: oltre il linguaggio e la luce, e quindi oltre la menzogna e l’ombra, il vuoto.

 

Rossella Farnese

 

NOTE

1.Ingenuo, perché ti affanni a cercar di afferrare un’ombra che ti sfugge? Non esiste quello che cerchi! Voltati, e perderai che ami! Quello che vedi non è che un tenue riflesso: non ha alcuna consistenza. E viene con te, resta con te, se andrà con te, ammesso che tu riesca ad andartene!»] Ovidio, Le Metamorfosi, trad. it. di Giovanna Faranda Villa, Milano, Bur, 2007, pp. 194-195
 2. A. Tonelli, Sulle tracce della sapienza. Per una rifondazione etica della contemporaneità, 2009, p. 33.

[immagine tratta da Unsplash]

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Intrudere ed estrudere: l’inaccettabile opposizione di Jean-Luc Nancy

Nel 1992 il filosofo francese contemporaneo Jean-Luc Nancy ha subito un trapianto di cuore.

Ha raccontato questa estenuante esperienza nel libro L’intruso, edito da Cronopio e uscito nel 2000. Nancy basa la sua riflessione, breve ma densa, sulla coppia di sostantivi intrusione/estrusione, due termini che si oppongono ma che al contempo si richiamano cercandosi, abbinandosi, dandosi reciprocamente un senso. Non potrebbe esserci estrusione senza intrusione: quando, infatti, scegliamo di estrudere qualcosa – ossia di eliminarla, allontanarla – è perché essa viene percepita da noi come un intruso da scacciare, come un estraneo che ci crea problemi, ci invade o richiede troppo da noi; magari un impossibile che non possiamo o non vogliamo dare.

Il cuore di Nancy, quello con il quale è venuto al mondo, diventa l’organo da estrudere: appare come un intruso all’interno del suo stesso sistema corporeo, un intruso che non è più in grado di svolgere il suo compito e che mette a rischio la salute del filosofo. Si rende quindi necessario un trapianto: un altro cuore, un cuore che si attende come un libro fuori catalogo ordinato in libreria. Il cuore di un altro, capace di salvare la vita di Nancy, ma solo dopo un’intrusione violenta, fantascientifica, quasi impossibile da immaginare.

Scrive Nancy: «Dal momento in cui mi fu detto che era necessario un trapianto, tutti i segni parvero vacillare, tutti i riferimenti capovolgersi» (J.L. Nancy, L’intruso, 2000). Il suo cuore, che gli «saliva alla gola come un cibo indigerito», lo stava abbandonando. Per sopravvivere, avrebbe dovuto ospitare in sé qualcosa di estraneo.

Ma come si fa ad accogliere un intruso, che per sua stessa definizione giunge imperioso e si introduce in un ambiente familiare con aggressività e potenza, con scaltrezza e imprevedibilità? L’intruso arriva «senza permesso e senza essere invitato. Bisogna che vi sia un che di intruso nello straniero che, altrimenti, perderebbe la sua estraneità» (ivi). Bisogna accettare un’inaccettabile.

I medici devono estrudere per poi includere.

Di fronte a questa scomoda e temibile realtà, Nancy si sdoppia, così come doppio si fa il senso della sua stessa esistenza. La sua vita sarà la morte di un altro essere umano. Ciò che sente è «di essere caduto in mare pur restando ancora sul ponte» (ivi). Egli è in due luoghi contemporaneamente: in balia della morte che incombe, della quale il suo cuore malandato si fa messaggero; in balìa della vita che ancora lo trattiene a sé con la promessa di una speranza, di una soluzione. Nancy è al di qua e al di là, così come sarà e resterà se stesso con in petto l’organo di un altro.

Il filosofo capisce anche che se si vuole sopravvivere bisogna prima diventare estranei a se stessi. Prima dell’arrivo dell’intruso il suo sistema immunitario viene preventivamente preparato a essere neutro, ossia inutile, per facilitare la sua venuta. Esso viene quasi cancellato, per minimizzare il rischio di un rigetto. «L’intruso è in me e io divento estraneo a me stesso» (ivi), spiega Nancy. L’estraneità si moltiplica e i farmaci anti-rigetto gli causano un abbassamento delle difese immunitarie che sfocia in cancro. Questa nuova malattia lo costringe a ulteriori sofferenze che paiono infinite e che sbalzano ancora e ancora la bussola della sua identità.

Ma egli sopravvive. E lo fa perché l’uomo ha imparato a superare se stesso divenendo «colui che snatura e rifà la natura, colui che ricrea la creazione» (ivi).

Per sopravvivere dobbiamo continuamente estrudere qualcosa e includere qualcos’altro di nuovo. Lo facciamo con il nostro organismo – le unghie troppo lunghe o i capelli, che vanno tagliati ma che poi ricrescono. Lo facciamo con persone e situazioni che, come il vecchio cuore di Nancy, ci divengono indigeste. Il ciclo della vita esclude per accogliere, e accoglie sapendo a priori che quella venuta resterà, come dice Nancy, scomoda e dal sapore straniero fino a che seguiterà a venire, fino a che non sarà divenuta qualcosa di familiare – ma quella familiarità durerà sempre e soltanto per un tempo determinato, sfociando poi in una nuova estrusione che sa di auto-defezione.

«L’intruso non è nessun altro se non me stesso e l’uomo stesso. Non è nessun altro se non lo stesso che non smette di alterarsi […] intruso nel mondo come in se stesso» (ivi).

Un paradosso che va accettato, compreso, abbracciato.

 

Francesca Plesnizer 

[Photo credit Ali Hajiluyi via Unsplash]

la chiave di sophia 2022