Cinema e sport: così vicini, così lontani

Le grandi storie di sport hanno scritto pagine indelebili del secolo scorso e di questi primi anni del 2000. Sono diventate parte del nostro immaginario, lasciandoci immagini vivide e ormai entrate nella leggenda; come parte integrante dell’umanità, hanno scritto la Storia. Alì contro Foreman nel 1974, a Kinshasa. Il gol di Maradona a Messico ’86, sotto il sole accecante dello Stadio Azteca, mentre un emozionato Victor Hugo Morales impazzisce in telecronaca, chiamandolo barrillete cosmico. Nelson Mandela, in piedi sul prato dell’Ellis Park, indossando la maglia degli Springboks, stringe la mano e consegna la Web Ellis Cup a Francois Pienaar, capitano del Sudafrica; un bianco e un nero, figli della stessa terra. Il canestro di Jordan nel ’98 contro Utah, un tiro a 5,2 secondi dalla fine, l’ultimo della sua carriera ai Bulls; due punti che lo consacrano nell’Olimpo del basket, il più grande di sempre, un onnipotente del gioco.

Sono alcune delle immagini che tutti hanno visto almeno una volta e che anche il cinema, Hollywood in particolare, ha voluto omaggiare. Di film sullo sport se ne contano decine e sarebbe difficile elencarli tutti, anche se alcuni sono sicuramente più conosciuti: dai grandi film sulla boxe, come Toro ScatenatoRocky o i più recenti Million Dollar Baby The Fighter, ai film sulla pallacanestro; Hoosiers, con un appassionato e focoso Gene Hackman nei panni di un insolito allenatore. He Got Game di Spike Lee, che racconta uno dei lati nascosti del basket, con un meraviglioso e romantico 1vs1, finale tra Denzel Washington e il figlio Jesus Shuttlesworth/Ray Allen. Ancora Space Jam e la sua accoppiata vincente Michael Jordan/Looney Tunes, un film che ha fatto innamorare del basket un’intera generazione di bambini.

Di produzioni cinematografiche di questo tipo, come detto in precedenza, c’è davvero una gran abbondanza. Hollywood non ha mai badato a spese, cercando sempre di ingaggiare i migliori registi ed interpreti, con risultati, molte volte, davvero notevoli. Com’è invece la situazione in Italia? Se si attraversa l’oceano tornando nello Stivale, il panorama di film sportivi è piuttosto scarso, se comparato a quello americano. Lo sport al cinema è stato quasi sempre visto in chiave parodistica/umoristica, un esempio lampante è L’allenatone nel Pallone; come mai? Di certo non per la mancanza di storie da raccontare o, secondo alcuni, per la pochezza in termini di interpreti e capacità del cinema italiano. Probabilmente la risposta va cercata altrove, ad un livello più profondo.

C’è una differenza socio-culturale di base tra chi, come noi italiani, ha una storia millenaria, che si intreccia con la nascita e il fiorire delle grandi civiltà classiche e chi, come nel caso degli statunitensi, ha una storia molto breve, i cui eroi “antichi” sono i pionieri che hanno conquistato l’ovest o i soldati delle tante guerre da loro combattute. C’è una sorta di ricerca ossessiva dell’epica di un popolo che quest’epica non l’ha mai avuta e che in qualche modo si fonde con lo sport. Il grande atleta viene visto come un’incarnazione dell’eroe omerico, un moderno Achille, selvaggio e competitivo sul campo. Questa visione, la celebrazione della forza, del coraggio dell’atleta, viene presentata anche al cinema, come parte fondante della loro cultura e del loro significato di competizione.

La nostra percezione dello sport è molto diversa, è vissuto sicuramente in modo viscerale e appassionato, ma non ha un valore sociale così profondo e radicato nella nostra cultura. Difficilmente un atleta viene celebrato o raffigurato sul grande schermo come un eroe epico. Sono due visioni opposte, non solo di cinema ma anche di vita e probabilmente nessuna delle due è giusta o sbagliata. Due culture diverse, non per forza in contrasto, che però potrebbero imparare molto di più l’una dall’altra.

Lorenzo Gardellin

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Un angelo che ha voluto essere libero

Occhi grandi, scuri, da cerbiatto. Capelli lisci, tagliati in un caschetto, fini e sollevati dal vento. Un sorriso radioso, illuminato ancor di più dal sole e da quei fasci di luce che rivelano delicatamente tutti i colori dell’arcobaleno. Un arcobaleno di riflessi, della stessa sostanza dell’ energia che una ragazza di diciannove anni dovrebbe sprigionare.

È questa l’immagine che mi lascia legata a lei e che, inspiegabilmente, resta nel mio cuore.

È questa l’immagine che voglio tenere con me, lontano da quel sonno profondo che per più di dieci anni l’ha incatenata a sé per poi portarsela via.

A diciannove anni, si è soliti dire di avere tutta la vita davanti. Talvolta è così. Talvolta è la vita a essere rifiutata, negata. Altre volte ancora, è lei ad allontanarsi da noi.

A diciannove anni, si ha tutta la vita davanti. Eppure, degli incidenti di percorso possono interromperla.

Ed è così che, un giorno come tanti altri, la sua vita si è inceppata, impedendole di rincorrere i suoi sogni e di vivere l’amore. E da quel giorno, un sonno profondo l’ha stretta a sé, svuotando quegli occhi che brillavano al sole, lasciandola imprigionata in quel suo corpo fragile disteso su un letto irrimediabilmente legato a delle macchine che avevano in pugno la sua vita.

Le macerie di un corpo esausto, forse? Segni esteriori di qualcosa che ha in fondo ancora un po’ di vita? La speranza di un risveglio? E quelle lacrime che talvolta scendevano dai suoi occhi, che cosa significavano? Volontà di vita oppure di abbandono di sé?

Durante un intervento al quale doveva sottoporsi, il coma l’ha inghiottita a sé, e le ha impedito di risvegliarsi per sempre. È così entrata in un incubo dal quale è quasi impossibile, se non raro, uscire.

Eppure, quella speranza, quell’incapacità di dire no a una vita che, forse, non ha più lo stesso senso di essere vissuta, permane e, in un certo qual modo, costituisce per i cari che le sono vicino il solo appiglio cui tenersi aggrappati, come se mantenerla in vita potesse aiutarli a sentirla fisicamente più presente a loro.

Eppure, la persona, non è solo corpo. Eppure ciò che la rende tale, è anche altro.

Una vita psichica, una dimensione emotiva, i molteplici fili relazionali di cui la sua esistenza è intessuta.

Quando Kant nella Metafisica dei costumi[1], parlava della differenza tra le cose e le persone, la dignità era l’elemento centrale di questa distinzione.

E qualora mancasse questo, che valore potrebbe assumere il corpo inerte, bloccato a un letto di ospedale? Chi ha tuttavia il diritto di decidere della vita di qualcun altro? E decidere per essa significa decidere unicamente per la sua interruzione, oppure al contrario, talvolta, un vero “attentato” alla vita e alla dignità può ritenersi quello di mantenere in vita “artificialmente” un corpo che ormai è svuotato del suo senso e valore profondo?

 Per tutto ciò che riguarda le questioni di etica medica, l’Occidente è progressivamente passato da un modello paternalista, secondo il quale tutte le decisioni dovevano essere prese dal medico e da tutto il servizio sanitario che si prendeva cura del paziente, ad un modello autonomista, secondo il quale il paziente avrebbe il diritto di scegliere il suo destino ed esprimere la propria volontà[2]. Il primo modello sembrerebbe guidato da quello che in francese è definito con il termine di principe de bienfaisance (ovvero, “principio di benevolenza”): secondo tale criterio, solo il medico può agire secondo il bene e del paziente e per la sua salute; sarebbe soltanto costui, l’unico quindi a decidere a-priori ciò che è bene e ciò che invece potrebbe essere fonte di malessere.

Il secondo, invece, farebbe risiedere la capacità decisionale unicamente nel paziente, in quanto soggetto completamente libero di prendere delle scelte riguardanti l’interruzione o meno di un trattamento terapeutico. A tale scopo nel 2002 in Francia, la legge n° 2002-303 del 4 marzo[3]avrebbe lo scopo di definire, all’interno del quadro dei diritti del malato e della qualità del sistema sanitario, il riconoscimento giuridico dell’autonomia del paziente, anche qualora questi manifestasse il rifiuto di un trattamento.

 Aucun acte médical ni aucun traitement ne peut être pratiqué sans le consentement libre et éclairé de la personne, et ce consentement peut être retiré à tout moment[4]».

( Trad. : « Nessun atto medico, né alcun trattamento può essere praticato senza il consenso libero e informato della persona, e questo consenso può essere ritirato in ogni momento».)

 Come prendere una decisione se è la coscienza del paziente a venire meno, nel momento in cui la sua capacità di intendere e volere scompare? Come può costui capire ciò che è bene o male per sé, se la sua situazione psichica è già parzialmente compromessa? Può davvero ritenersi autonomo nella scelta? C’è qualcun altro che, in caso contrario, può davvero decidere per la sua vita?

Uno dei tratti della condizione umana, lo sappiamo bene, è la finitudine. La vita ci viene tolta, proprio come ci viene data.

Ciò che inoltre distingue l’essere umano dalle cose, lo abbiamo detto, è la dignità, considerata come quella qualità che valorizza ciascun essere umano in quanto insostituibile ed unico nella sua specificità.

Sono pertanto queste due caratteristiche, finitudine da un lato e dignità dall’altro, a entrare in gioco nel momento in cui trattiamo la dibattuta questione etica dell’eutanasia.

Una cosa, infatti, è mantenere artificialmente un corpo in vita e volere a tutti i costi che il suo cuore batta grazie all’uso delle macchine, nonostante l’assenza evidente di una vita psichica, un’altra cosa è comprendere che, talvolta, è giusto lasciare andare la persona cara, poiché la morte potrebbe divenire una sorta di liberazione de quel peso che schiaccia non più una vita, ma solo un corpo inerte.

L’eutanasia è vietata in nome della legge. Nessuno dunque può porre fine alla vita di una persona, nemmeno quando è quest’ultima a domandarlo.

Oggi anche quella ragazza dagli occhi grandi se n’è andata.

Un altro angelo è lassù che mi protegge oramai.

Tuttavia, a volersene andare, è stata proprio lei.

Ha smesso di respirare e ha lasciato quel letto in punta di piedi, alzando al cielo quelle ali che, finalmente, potevano respirare il profumo della libertà.

 

[1] I. KANT, Fondements de la métaphysique des moeurs, Le Livre de Poche, Paris, 2014.

[2] M. MARZANO, Je consens, donc je suis, PUF, Paris, 2006.

[3] Ibidem, p. 77.

[4] Ibidem, p. 76, rif. alla legge n° 2002-303 del 4 marzo 2002, art. L. 1111-4.

 

Sara Roggi

[Immagini tratte da Google Images]

La paura della paura

 

La paura è una cosa indefinibile, un’emozione ingannevole e insidiosa che può causare distruzione e devastazione, se le si permette di crescere. Rosemary Altea

Avete mai pensato a cosa vuol dire avere paura della paura? A cosa significhi vivere nell’attesa che arrivi quell’attimo che ti farà perdere completamente il controllo? Io non ci avevo mai pensato, fino a quando non mi è capitato.

Ed è stato terribile.

È iniziato tutto in una serata tra amici, a cena. Ancora non me lo so spiegare. Stavo mangiando quando all’improvviso non riuscii più a deglutire. Mi sentivo soffocare. Mi mancava l’aria. Il cuore prese a battermi così forte che pensavo mi uscisse dal petto. Iniziai a sudare. Non avrei mai immaginato che nella vita si potesse stare così male, che esistessero delle sensazioni così terribili. In quel momento pensai che sarei morto e che nessuno mi avrebbe potuto salvare.

I miei amici, spaventati, mi portarono in ospedale. Fu una nottata di esami, elettrocardiogrammi e visite con numerosi dottori, fino a quando mi fu detto che quello che avevo avuto era stato un “comune” attacco di panico. E in un certo senso fu sconcertante scoprire che non avevo nulla, che era stato tutto frutto della mia mente. Sarebbe stato meglio scoprire di aver avuto qualcosa. Perché da quella sera la mia vita si è fermata.

Sarebbe successo di nuovo? E se sì, quando? Dove? Sarebbe stato sempre uguale? Ero tormentato. Avevo paura. Paura di me, della mia mente, di quello che poteva succedere. Mi vergognavo da morire e non sapevo cosa fare. Mi sentivo un malato immaginario. Era impossibile da capire per gli altri, pensavo. Era impossibile credermi.

È così che ho iniziato a convivere con uno scomodo me stesso, che ho iniziato a cercare di controllare qualcosa che per me era assolutamente incontrollabile. È così che mi sono messo agli arresti domiciliari. Ho iniziato a evitare qualunque cosa: uscire da solo per strada, guidare, frequentare luoghi affollati. Ho il terrore che l’attacco si manifesti di nuovo. E così evito di uscire. Tengo sempre il cellulare vicino.

La mia vita è completamente cambiata. La mia vita non è più vita.

Mi sono sempre considerato una persona libera. Mi piaceva stare insieme agli altri, uscire, divertirmi. Ero uno sportivo. Adesso… adesso non sono più niente se non uno spettro di me stesso. Vivo nella paura della paura.

Ed è terribile.

Un attacco di panico, secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM), corrisponde a un periodo preciso durante il quale vi è l’insorgenza improvvisa di intensa apprensione, paura o terrore, spesso associati a una sensazione di catastrofe imminente. Durante questi attacchi sono presenti sintomi come dispnea, palpitazioni, dolore o fastidio al petto, sensazione di asfissia o soffocamento, e paura di “impazzire” o di perdere il controllo. In presenza di ricorrenti attacchi di panico inaspettati, rispetto a cui si ha una preoccupazione persistente, si parla di Disturbo di Panico. Può esordire in qualunque momento della propria vita, all’improvviso e in circostanze inaspettate, mentre si sta compiendo una qualsiasi attività. L’attacco di panico non è pericoloso per la salute ma le sensazioni che si sperimentano sono così intense e coinvolgenti da far sviluppare in chi le prova l’intensa paura che si possano ripetere. Il primo episodio porta al timore di rivivere le stesse drammatiche sensazioni e di sperimentare nuovamente quel malessere. Nasce così la paura della paura. Quella stessa paura che porta chi ne soffre a chiudersi sempre più in se stesso e a non riuscire ad avere una vita sociale, a rinchiudersi in una gabbia da cui non riesce più ad uscire. I disturbi d’ansia sono estremamente comuni e tendono a essere sempre più frequenti nella popolazione. Sebbene le cause non siano ancora note, quello che è importante sapere è che da questa gabbia se ne può uscire e tornare a vivere, senza più mostri sulle spalle a tarparci le ali.

Giordana De Anna

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[Immagini tratte da Google Immagini]

 

“Ali spezzate”

È domenica mattina. Mi piace stare a letto a pensare, a ricordare. A casa ci siamo solo io e mio marito. I ragazzi ormai sono grandi, non abitano più con noi. Le lenzuola di seta. Mi è sempre piaciuto sentirle sulla pelle. Sono sempre stata una bella donna. Fin da giovane.  Capelli lunghi, biondi, ricci, folti. Occhi azzurri, grandi, espressivi. Bel fisico. Gambe lunghe e affusolate. Vita stretta al punto giusto. Mi piaceva guardarmi allo specchio. Stavo ore a fissarmi, a studiarmi. La bocca carnosa, scarlatta, a cuore. Un naso piccolo all’insù. Gli uomini impazzivano per me. Anziani, giovani, sposati, single, colti e meno colti. Erano tutti uguali. Chiunque fosse, appena mi vedeva, perdeva la testa. Io, naturalmente, mi lasciavo desiderare. Mi divertiva la cosa, per me era un gioco. Sentivo di poter far di loro ciò che volevo. Ancora oggi è così. Ancora oggi cammino per la strada sentendomi puntati gli occhi addosso. Sorrido sorniona. Testa alta. Cammino con un passo leggero ed elegante. Sono sempre stata molto elegante. Fin da giovane. Read more