Il Seicento, secolo dei dotti e dei geroglifici

Che secolo è stato, il Seicento? La domanda nasce dal fatto che delle epoche successive serbiamo un sunto mentale sufficientemente nitido e condiviso: il Settecento, si sa, fu regno dei Lumi, l’Ottocento industriale e globalizzante partorì l’ebbrezza del capitalismo, mentre del Novecento cominciato solido e terminato fluido conosciamo oramai ogni più recondito anfratto, denudato come l’abbiamo di tutti i suoi drammi e delle sue esaltazioni. Ma del Seicento, che cosa ci rimane?

A questo secolo «astruso e inabissato»1 è dedicato I geroglifici di Sir Thomas Browne (Adelphi 2018), la tesi di laurea con cui Roberto Calasso si congedò nel 1965 da una fugace e mai troppo sentimentale sortita accademica. Un manoscritto rimasto a lungo inedito, e ora riproposto da Adelphi con l’aggiunta di un saggio deuteroscopico buono a corroborare il luogo comune secondo cui «il nostro secolo e il Seicento siano [epoche] affini»2, separate soltanto dallo squarcio purulento della modernità.

Ad accomunare il pre- e il post-moderno sarebbe soprattutto la tensione ibridizzante di natura e cultura, di arte e scienza: «proprio quegli elementi che [la modernità] vorrà tenere separati con ogni cura»3. Se il Seicento è così lontano dal nostro immaginario – lo è molto di più, ad esempio, del Medioevo – è proprio per via dell’occultamento che l’illuminismo esercitò su quell’epoca anfibia, «fertile al tempo stesso di scienza ed empietà»4, come ebbe a dire uno dei suoi più eminenti rappresentanti, Gottfried Wihelm von Leibniz. «Stolidità e illuminazione vi si alternano, e non è possibile districare l’una dall’altra»5.

È Calasso a ricordare come «la forza del dimenticare [abbia] operato potentemente sulla cultura del Seicento», a lungo sommersa e approdata ai giorni nostri sotto forma di relitto esotico e indecifrabile. Eppure, questa zona franca della storia in cui «il più alto e il più basso si mescolano e si confondono»6, fu per antonomasia il «secolo dei dotti»7, dei “pansofisti” capaci di passare con disinvoltura da un ordine delle cose all’altro, per fare germinare la propria vastissima intelligenza su ogni campo del sapere possibile e immaginabile.

I giganti di quest’epoca incestuosa e meticcia di fisica e di metafisica furono il sopracitato Leibniz, il gesuita Athanasius Kircher e, appunto, l’inclassificabile Sir Thomas Browne, che per i suoi contemporanei fu «un grande antiquario, un medico illustre e, soprattutto, un wit»8, naturalista eclettico ed eccentrico. Calasso precisa che fu quest’ultimo a introdurre per primo il saggio come genere letterario e modalità di trasmissione della conoscenza, e fu sempre Browne a inventare parole come electricity e computer. Ci troviamo infatti nella fase embrionale di quell’immane mutazione storica che dal linguaggio analogico avrebbe condotto al digitale, dal reale più tellurico alla sua più astratta rappresentazione.

Una transizione di tale portata storica, ancor oggi tutta da misurare, ebbe convenzionalmente inizio quando Leibniz venne invitato in Cina per tradurre i tetragrammi dell’I Ching, il Libro dei Mutamenti. In quelle linee unite e spezzate, un tempo emblemi dell’arte divinatoria, il matematico di Lipsia lesse il primo esempio storico di numerazione binaria, di informazione linguistica sotto forma di bit. Kircher, dal canto suo, divenne esperto di alfabeti a valenza pittorica e di scritture analogiche come gli ideogrammi cinesi e i geroglifici egiziani, che per primo provò a decifrare. Anche Browne prese parte a quella che fu definita “rinascenza geroglifica”, un ritorno d’interesse delirante ed estenuato per la scrittura egizia che proprio nel Seicento raggiunse il suo acme.

In quell’epoca di “misticismo sperimentale”, infatti, andava maturando la convinzione che tutto fosse artificiale, essendo la natura stessa arte di Dio. «I primi microscopisti, ai quali apparivano regioni segrete e fino allora invisibili della natura, incontravano legioni di minuscoli automi»9, organismi cellulari che si pensava essere manovrati da un’intelligenza immateriale e superiore. L’alchimia, altra Ars Regia che nel Seicento accarezzò lo zenit, nacque proprio per rendere visibili le forze occulte della “Natura Artificiale”, mentre si pensava che la lingua geroglifica fosse il viatico espressivo più adatto a descriverle.

Dal momento che i geroglifici rappresentano le cose così come sono, e dunque «significano la loro forma»10, Kircher e Browne s’erano persuasi che essi fossero il corrispondente più approssimato alla conoscenza divina: «come gli dèi sdegnano le proposizioni e contemplano immagini, così i geroglifici si offrono immediatamente alla contemplazione, saltando la mediazione del linguaggio articolato»11. La natura parla dunque una lingua analogica, immediata, non discorsiva, che impone se stessa istantaneamente e senza ambiguità. Una lingua necessariamente muta, poiché «non si dà traduzione fonetica di quelle immagini, che si offrono solamente alla contemplazione silenziosa»12.

La rinascenza seicentesca dei geroglifici rappresentò così il momento di massima vitalità del pensiero analogico e, al tempo stesso, l’inizio della sua decadenza. Oggi diguazziamo nel guado del grande fiume digitale, attorno a noi continua senza sosta la proliferazione cieca dell’immagine, e perciò la sua più completa svalutazione. Il trionfo del polo sostitutivo su quello connettivo – etichette mai dome con cui Calasso va chiamando ormai da decenni il digitale e l’analogico – è tale che bastano due segni soltanto, lo zero e l’uno, per rendere conto della realtà in tutta la sua estensione. Il «delicato equilibrio tra occulto e manifesto»13 è tutto lì, nel potere spropositato e inesorabile della sostituzione digitale. Con buona pace dei pansofisti seicenteschi e della loro ossessione analogica per i geroglifici.

 

Alessio Giacometti

 

NOTE:
1. R. Calasso, I geroglifici di Sir Thomas Browne, Adelphi, Milano 2018.
2. Ivi p. 23
3. Ivi p. 114
4. Ivi p. 41
5-6. Ivi p. 63
7. Ivi p. 182
8. Ivi p. 14
9. Ivi p. 49
10. Ivi p. 76
11. Ivi p. 79
12. Ivi p. 130
13. Ivi p. 146

[Immagine tratta da archivio personale dell’autore, dettaglio di stampa planisfero del XVII secolo]

banner 2019

L’egoista cosciente. Leggere oggi L’Unico di Max Stirner

Diciamolo pure, Marx si sbagliava: la coscienza di classe e la rivoluzione del proletariato non hanno condotto alla democrazia operaia, al sogno allucinato di una società comunista senza classi né padroni. Anche Nietzsche, dal canto suo, prese un abbaglio: l’alleggerimento psichico conseguente alla morte di Dio avrebbe dovuto condurre all’Oltreuomo, non di certo alle peggiori nefandezze del Novecento. Col senno del poi, per noi che abitiamo nel presente il futuro immaginato da Marx e da Nietzsche, ad aver avuto ragione è stato piuttosto Max Stirner, rizoma comune di cui entrambi sono efflorescenze. Marx, infatti, reagirà a Stirner per avversione, Nietzsche lo affiancherà invece con inevitabile propensione alla sperimentazione.

Nell’accompagnamento alla lettura che correda l’edizione Adelphi de L’unico e la sua proprietà – l’opera somma di Stirner, data alle stampe nel 1844 – Roberto Calasso nota come l’autore di Bayreuth abbia per primo innescato la miccia di una parola-bomba, “nichilismo”, che nell’Ottocento era oramai giunta a completa maturazione. Nonostante le evidentissime implicazioni che lo legano a Stirner, Nietzsche sceglierà la via della dissimulazione, fingendosi irrelato al «grumo purissimo di nichilismo» lasciato in eredità ne L’unico, di cui egli stesso rappresenta il più naturale e il meglio riuscito tra gli esecutori. «La massima affinità con Stirner si avverte [proprio] nei lettori che non lo nominano mai», chiosa Calasso nella sua postfazione.

In una lettera a Marx del 1844, Engels osservava come Stirner avesse fondato la sua teoria dell’Unico sull’egoismo utilitarista di Bentham, piegato però alla distruzione della società, non alla sua rifondazione. Quella teoria oscena e indicibile, esortava Engels al compagno Marx, «non dobbiamo accantonarla, bensì sfruttarla proprio in quanto perfetta espressione della pazzia corrente e, operando in essa un ribaltamento, continuare a costruirci sopra». L’«egoismo criminale» predicato da Stirner era la prova più evidente della necessità del comunismo: Marx ed Engels rovesciarono L’unico commentandolo riga per riga, in quell’enorme glossa a Stirner che è l’Ideologia tedesca, uscita postuma nel 1932.

In maniera analoga a quanto fecero nella Miseria della filosofia (1847) per annerire la stella di Proudhon, spiega Calasso, ne L’ideologia tedesca «le affermazioni di Stirner vengono isolate, aggredite, malmenate», in un’opera distruttiva e spossante che è l’«archetipo di ogni futura estirpazione di anarchici e individualisti piccolo-borghesi». Sarà Bakunin il primo invasato a correre l’azzardo di ripescare dal fondale della filosofia il cadavere vilipeso e decomposto di Stirner: ne imbalsamerà le spoglie cucendole assieme a quelle dell’anarchismo di Proudhon, e immettendo così nel mondo una creatura amorfa, un ibrido incapace di riprodursi e di sostenersi a lungo termine nell’arena della Storia.

«La mia causa non è né il divino né l’umano», precisa subito Stirner in apertura de L’unico e la sua proprietà. «Non è ciò che è vero, buono, giusto o libero, bensì solo ciò che è mio, e non è una causa generale, ma – unica, così come io stesso sono unico. Non c’è nulla che m’importi più di me stesso!». Sotto la scorza liscia e appartata della sua vita da professore in una scuola per fanciulle di buona famiglia, Stirner coltivò per tutta la vita una sola, immensa pretesa: «quella di seppellire la filosofia» e i suoi falsi idealismi. Il primo delitto filosofico che commise fu quello di Socrate, fondatore dell’etica, ovvero dell’uomo che per vivere e agire deve eleggere a propria missione un’idea – «qualcosa di generale e di astratto, cioè un concetto vuoto e senza vita», per cui non vale certo la pena sacrificarsi in quanto Unico.

Ma a quale idea si riferisce, Stirner? Sulle prime fu quella di Dio, per cui troppo a lungo gli esseri umani votati al cristianesimo si sono condotti all’autoconsumo. Poi, con la Riforma, che per Stirner è «l’attuazione completa del regno dello Spirito», venne santificato tutto ciò che era rimasto sino ad allora profano – Legge, Umanità, Libertà – estendendo all’immanente la prigione di deferenza e ossequio che incatenava gli antichi al trascendente. L’illuminismo suggerì una nuova causa per cui valesse la pena sacrificarsi, la Verità: per l’individuo proprietario, ennesimo principio «sovramio». Venne in seguito la borghesia, per la quale «servire lo Stato […] diventò l’ideale supremo», e il comunismo, che come ultima causa della storia indicò la Società.

Tutte queste, argomenta Stirner, sono idee fisse, «fissazioni», cause che la società ci impone di servire con reverenza sin dalla scuola, dove impariamo ad apporre loro l’iniziale in maiuscolo. Per Stirner ognuna di queste idee deve piuttosto diventare niente, deve perdere il potere che esercita sulla coscienza. Operando laggiù, nel sottosuolo del pensiero filosofico, Stirner straccia così in un colpo solo l’impianto etico del cristianesimo, della scienza, del comunismo e della filosofia tutta, suggerendo come, portata al suo estremo, l’autocoscienza del soggetto non diventi spirito sublime, ma egoismo più abietto.

 «Millenni di civiltà hanno oscurato ai vostri occhi ciò che voi siete», individui egoisti, chiamati a nulla di assoluto, privi di alcuna particolare vocazione. L’egoista cosciente «non appartiene ad alcuna potenza del mondo», avverte Stirner, poiché «niente gli è sacro»: egli «vuole sviluppare solo se stesso, non l’idea dell’umanità, non il piano di Dio, non le intenzioni della provvidenza, non la libertà o simili». Egli ha fondato la sua causa sul nulla. Il catechismo eretico di Stirner viola l’antica certezza secondo cui per vivere e rimanere assieme gli esseri umani abbiano bisogno di un’idea condivisa e sovraordinata. In questa certezza riposa l’ipocrisia di chi non sa spingere fino in fondo l’egoismo, ma continua a inibirlo con i freni della morale, religiosa o laica che sia.

Quando l’Unico irruppe nel campo della speculazione filosofia, fu subito chiaro a tutti che il nichilismo di Stirner andasse inabissato prima che la coscienza del nulla in cui si svolge la nostra vita quotidiana arrivasse a diffondersi. Troppo grande la «verità dell’egoismo», come avrà a dire Feuerbach, perché i due teorici del comunismo, Marx ed Engels, non s’adoperassero per seppellirla. Così, per oltre centocinquant’anni, le sferzate scandalose dell’Unico sono rimaste un tabù, un’enorme voragine nella storia della filosofia. Oggi che tutte le ideologie sono cadute, oggi che l’egoismo è diventato la forma del mondo, leggere L’unico di Stirner è come immergersi nel buco nero della propria coscienza, che risucchia e annienta ogni nostra illusione sulla colossale menzogna della vita in società.

 

Alessio Giacometti

 

BIBLIOGRAFIA
M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, Adelphi, Milano 1979.
R. Calasso, Accompagnamento alla lettura di Stirner, in M. Stirner, op. cit.
K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 2018.

[Photo credit Shot by Cerqueira via Unsplash]

banner 2019

L’arte cinese della sepoltura

Siedo placidamente su una roccia nel punto più alto del Tianhe Huangcun Gongmu, il cimitero di Huangcun, periferia nord di Guangzhou, nella Cina meridionale. Un boschetto di bambù mi getta addosso una piacevole ombra, mentre poco più in là luccicano le tegole arancioni di un Ting Zi, l’edificio architettonico tipico delle località d’altura cinesi. Ci arrivo dopo un’ora e mezza di autobus e scalata a piedi. Prima di partire, poche indicazioni dettatemi con vistosi scongiuri da un amico cinese.

A dividermi dal mondo dei morti sottostante c’è ora uno strato sottilissimo di soffice terriccio. Da qui si riesce a cogliere la conformazione e la vastità della radura su cui riposa grigio e ordinato il cimitero, come un involucro di cemento a sigillare una collina radioattiva. Le lapidi si susseguono tutte uguali lungo i terrazzamenti scavati sul dorso della montagna. Di là della strada una stazione di servizio, uomini a lavoro in un cantiere, sconosciuti. Ogni tanto lo scoppio di un petardo e il fumo che si alza bianco sopra una lapide lontana. In un posto come questo si liberano le energie mentali e si potrebbero scrivere infinite poesie d’amore.

Pochi sanno che nell’impero di mezzo muoiono in media più di 10.000 persone al giorno. Un’enormità, con conseguenze organizzative che rischiano di mettere sotto pressione il modello cinese dei piccoli cimiteri di periferia, come quello di Huangcun, appunto. La progettazione cimiteriale cinese si basa da sempre sui principi ancestrali del feng shui – letteralmente “vento” e “acqua” – l’antica arte della geomanzia che stabilisce la direzione e la dislocazione degli elementi nello spazio in modo tale da produrre il miglior risultato in termini di armonia e buona sorte. Di fondo c’è l’idea che ogni ambiente sia solcato da più o meno profonde venature di qi, l’energia sottile e vitale che la geomanzia permette di captare e sfruttare. Il contrario della morte – insegna il feng shui – non è la vita, ma la vitalità.

Il legame tra feng shui e cultura della morte ha in Cina origini adamitiche, e non è certo un caso che il primo testo scritto in cui si discutono e si formalizzino i principi della geomanzia sia lo Zhang Shu, il Libro delle sepolture, di Guo Pu (276-324 d.C.). La prima traduzione in italiano dal cinese antico è merito di Maurizio Paolillo, professore di Lingua e Cultura Cinese all’Università del Salento, che nel 2013 ha pubblicato l’opera di Guo Pu con il titolo di La lingua delle montagne e delle acque.

In introduzione al testo, Paolillo racconta come la cultura del feng shui si sia inizialmente diffusa in Europa grazie all’opera di gesuiti quali l’italiano Matteo Ricci e il tedesco Athanasius Kircher, che nel suo China Illustrata del 1667 definirà il feng shui “oreomanzia”, a sottolineare l’interesse per la configurazione orografica dei siti abitativi nel contesto di un paesaggio naturale o antropizzato. Solo nel corso dell’800, spiega Paolillo, prese avvio un lento ma inesorabile processo di storpiatura dei principi del feng shui, che venne assimilato a pura e semplice arte divinatoria se non, addirittura, a pseudoscienza. Accecati dalle folgori dell’Illuminismo, i commentatori ottocenteschi non s’erano accorti di come il feng shui non fosse altro che teoria del paesaggio e dell’uomo che lo abita, principio di convergenza fra l’utile e il bello. Una sorta di fenomenologia dell’ambiente ante litteram: i filosofi cinesi prima di Husserl, dunque, anche se nello stile arcano e divinatorio che li caratterizza.

In anni recenti la filosofia del vento e dell’acqua è stata oggetto di una vera e propria febbre culturale in Occidente, non senza la perdita di alcuni tratti originari che poco si adattavano ai canoni dominanti del villaggio globale. In Cina il feng shui rimane ben radicato nelle scelte popolari, nonostante il vento di riforme introdotte nella stagione comunista, con il politburo cinese che ha sempre visto nel modello tradizionale dell’inumazione e del cimitero diffuso in contesti naturali un inutile consumo di suolo e risorse. Tra le tecniche di disposizione dei defunti molto meglio la cremazione, più efficiente e più adatta allo spirito della nuova società comunista, che ambiva a scacciare come polvere ogni superstizione del passato.

La prima svolta in questo senso avvenne nel 1949, con un decreto governativo di Mao Zedong che rese obbligatoria in città la pratica della cremazione, allora poco diffusa. Durante la rivoluzione culturale, lo stesso Mao ordinò di passare con l’aratro sopra le sepolture degli antenati: l’ateismo e il materialismo comunista cercarono di rovesciare come le zolle smosse dal vomere una lunga tradizione religiosa e spirituale in materia di morte. Anche il successore di Mao, Deng Xiaoping, continuò nell’opera di estirpazione delle antiche tradizioni locali, come quella dei “funerali del cielo” tibetani, con un decreto del 1985 che estese l’obbligo della cremazione a tutto il territorio nazionale.

Ciononostante, i cinesi si mostrano ancora renitenti alla dispersione delle ceneri, che preferiscono inumare nei cimiteri pubblici in campagna così da conformarsi ai precetti della geomanzia. I lotti cimiteriali con migliore feng shui rimangono quelli più ambiti: «yuè gāo, yuè guì», “più è in alto più è costoso”, mi spiega un visitatore al cimitero di Huangcun. 30.000 yuan nei terrazzamenti in basso (più di 4.000 euro), 50-60.000 yuan in alto (tra i 7.000 e gli 8.000 euro). Prezzi davvero poco accessibili ai più, con molte persone che arrivano addirittura a indebitarsi per comprare un fazzoletto di terra con un buon feng shui in un cimitero pubblico, al punto che non è raro leggere sulle lapidi – a fianco del nome del defunto – quello di chi ha costruito, finanziato o ristrutturato la tomba.

Invecchiamento della popolazione, aumento dei costi cimiteriali e contrazione dei nuclei familiari stanno intanto determinando un’evoluzione delle usanze funebri negli altri paesi in cui si è tradizionalmente diffusa la cultura del feng shui tra i quali Giappone, Corea del Sud, Singapore e Hong Kong, dove il costo del terreno è tra i più alti al mondo e si può restare in lista d’attesa per anni, prima di vedersi concesso un posto per la disposizione delle ceneri in cimitero. Sotto le pressioni strutturali esercitate dall’aumento dei costi della terra e dagli stravolgimenti socio-demografici, il fascino romantico ma sovrastrutturale della tradizione è costretto a retrocedere. E meraviglie antropico-naturalistiche come il cimitero di Huangcun sono destinate a scomparire.

 

Alessio Giacometti

 

[Photo credit Shane Young]

Il capitale e le sue forme

Marx pose un problema tutto sommato elementare – il capitale tende ad accumularsi, generando disuguaglianze – per il quale trovò una soluzione altrettanto basica, a patto venisse praticata attraverso l’esercizio della violenza: per dissipare le disuguaglianze prodotte dall’accumulazione del capitale, è necessario eliminare la proprietà privata dei mezzi di produzione e passare a un sistema sociale senza classi.

La scintilla, per così dire, va ricercata in una lettura giovanile: Scienza della logica, del maestro e vate Hegel (1812-1816). Qui il giovane Marx fermò gli occhi sopra un assioma minuscolo, cui decise di dedicare l’intera propria esistenza e il futuro stesso della critica filosofica: la ricchezza non è nel possesso dei beni – come aveva ingenuamente sostenuto quarant’anni prima Adam Smith, padre dell’economia politica, ne La ricchezza delle nazioni (1776) – ma nel possesso dei mezzi. I beni sono infatti destinati al deterioramento nichilistico del consumo, mentre i mezzi servono a produrre i beni: nulla di più elegante, Marx ne rimase folgorato.

Comincia grossomodo così la storia di un concetto destinato a fare la fortuna del pensatore di Treviri e dei tanti discepoli che ne hanno custodito sino ai giorni nostri la cripta filosofica. Il capitale è quel complesso di mezzi – macchine, denaro, forza lavoro – di cui il borghese dispone per la produzione di beni, estorcendo il plusvalore dall’energia lavorativa dei proletari. Poco importa, a Marx e a noi che cerchiamo oggi di riattualizzarlo, se quell’energia è profusa dallo sforzo muscolare di un operaio alla catena di montaggio o dalla fatica mentale di un ingegnere informatico, lavoratore a cottimo dell’era digitale. I mezzi cambiano, evolvono, trasmutano. A rimanere costante è la logica dello sfruttamento, inscritta nella proprietà privata del capitale.

Una tale concezione dei mezzi produttivi quali base per l’esercizio del potere e condizione prima della distinzione borghese non poteva che esitare nella lotta di classe, nella sofferenza rivoluzionaria di chi vuole sfondare la struttura architettonica di una società profondamente immorale. L’ipotesi marxiana cela così una fiducia estrema verso la natura esterna, materiale e oggettiva del capitale, materializzato in strumento o moneta che posso afferrare con la mano, strappandolo con brutalità al borghese smidollato.

Commentando il problema marxiano del capitale e la soluzione rivoluzionaria escogitata per risolverlo, la giovane Simone Weil scriverà nelle sue Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale che «l’unico contributo reale di Marx alla scienza sociale è d’averne sostenuta la necessità. È molto; è immenso; ma siamo sempre allo stesso punto. Ne occorre sempre una»1. L’insufficienza analitica della formulazione marxiana, intravista dalla Weil nelle sue lucide divagazioni, divenne col tempo chiara a tutti: oggi il capitale è sfuggente, extraterritoriale, disperso, volatile. Man mano che l’impero digitale è andato stabilizzandosi, ci siamo accorti che il capitale risiede sempre più nel possesso di dati2, nulla di più lontano dalla concezione pesante, direi quasi “tellurica”, del capitale marxiano.

Non serve guardare alla finanza, ai big data o ai nascenti bitcoin per misurare l’inafferrabilità moderna del materiale liquido di cui è fatto il capitale. Basta sfogliare le pagine di Forme del Capitale di Pierre Bourdieu (1986), sicario pragmatico della critica marxiana e primo realizzatore del sogno della Weil. Il titolo di questo libricino, vero e proprio talismano per ogni aspirante rivoluzionario o dissipatore d’illusioni, deriva dalla contrazione impossibile tra due classici apparentemente inconciliabili della storia della filosofia sociale: Il capitale di Marx (1867), appunto, e Forme elementari della vita religiosa di Durkheim (1912). Il potere sotto forma di medium materiae e come medium spiriti.

Più vicino a Weber che non a Marx o Durkheim, Bourdieu guarda allo spazio sociale – che lui stesso chiama campo – e si accorge che a distinguere gli individui concorrono diverse forme di capitale in loro possesso o, meglio ancora, che essi possono attivare. Il capitale economico descritto da Marx, spiega Bourdieu, è solo una modalità di una categoria più ampia, della quale esistono anche manifestazioni non economiche, mezzi e risorse immateriali che portano con sé la possibilità reale delle disuguaglianze e agiscono da base per il potere all’interno di un campo circoscritto.

Il borghese bourdesiano, concettualizzato in termini meno strettamente materialistici e rudimentali di quello marxiano, possiede certo un capitale economico, ma anche un capitale culturale e un capitale sociale che accumula, converte, scambia, trasmette, tramuta in potere.

Il capitale culturale pertiene all’individuo sotto forma di credenziali educative e di beni culturali, spiega Bourdieu, ma anche di sapere e saper fare incorporato: il borghese marxiano possedeva i mezzi di produzione, quello bourdesiano si distingue dal proletario per aver fatto un master, per le ripetizioni pomeridiane in matematica, per l’inglese imparato in Erasmus o per le lezioni private di pianoforte. Non solo, perché il borghese bourdesiano può contare su un capitale sociale familiare che gli permette un ritardato ingresso nel mercato del lavoro e un’astensione prolungata dalle funzioni produttive: egli «può estendere il tempo per l’accumulazione di capitale culturale […] fintanto che la sua famiglia può garantirgli tempo libero, ossia tempo liberato dalle obbligazioni economiche, precondizione per l’accumulazione iniziale»3.

Per Marx, ha più capitale chi riesce meglio ad accumulare forze produttive e a estorcere plusvalore dai proletari. Per Bourdieu, invece, ha più capitale chi meglio riesce a sottrarre tempo alle attività economiche per la sopravvivenza e a convertire il proprio capitale culturale e relazionale in denaro, occupando nel campo sociale una posizione che permetta l’accumulazione di tempo utile ed esponga all’assunzione di nuovo capitale culturale e relazionale, oggetto di futura conversione economica.

Nel labirinto della teoria vasta del capitale di Bourdieu, la soluzione rivoluzionaria proposta da Marx finisce per perdersi e diventa insufficiente, le disuguaglianze diventano meno evidenti ma più pervasive, i sistemi universali pensati per ridurre le differenze di dotazione iniziale – come la scuola o la sanità pubblica – finiscono invece per riprodurle e accentuarle. Da Marx a Bourdieu quello della giustizia diventa un compito dannatamente più complesso.

 

Alessio Giacometti

 

NOTE
1. S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Adelphi, Milano 1983, p. 139.
2. R. Calasso, L’innominabile attuale. L’era dell’inconsistenza, Adelphi, Milano 2017, p. 36.
3. P. Bourdieu, Forme di capitale, Armando, Roma 2015, p. 96.

[Credit NeONBRAND]

banner-pubblicitario7

Che cos’è la libertà: le riflessioni di Simone Weil

Aveva grossomodo la mia età attuale, Simone Weil, quando scrisse Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale. A sollecitarla in questo suo sforzo fu Boris Souvarine, editore e amico, che avrebbe voluto pubblicare il saggio ne La Critique sociale. Corre l’anno 1934, e le Riflessioni di Simone Weil sono emanazioni salvifiche dai drammi di quel terribile presente: Hitler al potere da qualche mese, Stalin venerato in patria come “piccolo padre” di una nuova umanità. A saggio ultimato, la rivista di Souvarine aveva già cessato le pubblicazioni per mancanza di fondi, e Simone Weil cominciò a lavorare in fabbrica senza vedere pubblicato il suo lavoro, che venne dato alle stampe solo nel 1955, ormai postumo, in Oppression et liberté. 

Le Riflessioni della Weil, d’un attualità sconcertante, sono attraversate da un unico, angosciato messaggio:

«sembra che l’uomo non riesca ad alleggerire il giogo delle necessità naturali senza appesantire nella stessa misura quello dell’oppressione sociale, come per il gioco di un equilibrio misterioso»1.

L’equilibrio misterioso cui fa riferimento Simone Weil è il bilanciamento ellittico tra Ordine e Libertà, fuochi assiali attorno cui orbita il luogo geometrico dei punti di tutta la filosofia sociale. La storia della società, infatti, non è che il lento e perpetuo oscillare da un fuoco all’altro: ci sono stagioni in cui a prevalere è un ordine prevaricante e annichilente, altre nelle quali i lacci dell’oppressione sociale si allentano in favore della libertà individuale. A tenere distinti i due fuochi un vicolo adamantino, una forza di repulsione che rende inversamente proporzionali le reciproche spinte: è possibile perfezionare l’ordine sociale solo al prezzo di una riduzione dello spazio di libertà individuale, e viceversa.

Il momento storico di massima prossimità al fuoco della libertà, spiega Simone Weil, si è avuto con le forme di organizzazione e di produzione elementari tipiche delle società tradizionali, basate su una ridotta divisione sociale del lavoro e su economie di sussistenza. Nondimeno, quella dell’uomo primitivo non è una libertà perfetta, autentica, conchiusa: certo, l’ordine sociale non era tanto opprimente e la disuguaglianza tanto marcata quanto nelle società moderne, ma l’uomo primitivo, scrive Weil, è comunque «in balìa del bisogno». Pur svincolato dal gravame delle costrizioni e delle procedure sociali, egli non è in condizione di autodeterminarsi poiché ogni sua azione deve aderire, istante per istante, alle esigenze della necessità che governa le leggi di natura. Una necessità che i Greci – col suono gutturale tipico di ciò su cui l’uomo non ha alcun potere – chiamavano Anánkē.

Il superamento dell’oppressione naturale, violenta e superstiziosa del mondo primitivo si ha con la comparsa storica del Leviatano: un assemblaggio spersonalizzato di individui che aderiscono al patto sociale e si organizzano tecnicamente per esercitare un dominio prometeico su Anánkē. È questo il passaggio contrattualistico dallo stato di natura allo stato positivo, reso possibile dalla rinuncia di parte della libertà individuale in favore dei progetti collettivi della società – secondo Freud, disagio della civiltà. 

L’affrancamento progressivo dalle necessità naturali e dall’oppressione primitiva che questa esercitava ha dunque la forma del ribaltamento: «in breve, sembra che l’uomo, nei riguardi della natura, passi per tappe dalla schiavitù al dominio»2. Da Marx in poi, sappiamo che tale passaggio si svolge mediante trasformazioni materiali nella progressiva liberazione delle forze produttive.

Eppure, continua Simone Weil seguendo la scia odorosa dell’intuizione marxiana, «questo dominio collettivo si trasforma in asservimento non appena si passa al livello dell’individuo, e in un asservimento assai più prossimo a quello che comporta la vita primitiva»3. È questa l’oppressione del sistema produttivo capitalista, che svuota il lavoro del suo senso più profondo e colloca homo faber in una condizione di alienazione e istupidimento: «la religione delle forze produttive, […] mette gli uomini al servizio del progresso storico e della produzione»4. 

L’organizzazione produttiva che ci ha permesso di affrancarci dalla natura nasconde dunque un prezzo umano altissimo, che in filosofia prende il nome di eterogenesi dei fini: l’uomo non è il fine dell’attuale sistema di produzione, ma solo uno dei suoi tanti mezzi. Con acuta metafora edilizia, Mandel’štam parlerà di uomo “mattone”5 e Saint-Exupéry di uomo “costruttore”6: quante vite sciupate ieri nella posa delle strade, nella costruzione delle fabbriche, nella perforazione dei pozzi di petrolio. Quante, oggi, nella catena di montaggio cinese o nei servizi a cottimo dell’era digitale americana.

Con l’assolutezza e l’ingenuità dei suoi venticinque anni, Simone Weil accetta l’ipotesi marxiana di oppressione sociale della società capitalista e produttivista sotto forma di eterogenesi dei fini, ma ne rifiuta la soluzione: la presa del potere da parte degli oppressi per il tramite della rivoluzione proletaria non risolverà il servilismo della condizione umana moderna. A valle della lotta di classe, una nuova forma di oppressione: la rivoluzione conduce sempre al suo inizio, finisce sempre con un nuovo padrone.

La soluzione di Weil all’oppressione sociale, più soave e radicale di quella marxiana, si iscrive nella coscienza che lega il pensare al volere e il volere all’agire:

«la libertà autentica non è definita da un rapporto tra il desiderio e la soddisfazione, ma da un rapporto tra il pensiero e l’azione; sarebbe completamente libero l’uomo le cui azioni procedessero tutte da un giudizio preliminare concernente il fine che egli si propone e il concatenamento dei mezzi atti a realizzare questo fine»7.

Ecco la libertà dell’uomo cosciente, «il patto originario dello spirito con l’universo»8.

 

Alessio Giacometti

 

NOTE
1. S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Adelphi, Milano 1983, p. 68.

2. Ivi, p. 46.
3. Ivi, p. 69.
4. Ivi, p. 21.
5. Cfr. O. Mandel’štam, Humanisms and the present, Ann Arbor, Ardis 1979, p. 181.
6. Cfr. A. Saint-Exupéry, Terra degli uomini. Mursia, Milano.
7.  S. Weil, op.cit., p. 77.
8. Ivi, p. 130.

 

[Credit Grant Ritchie]

banner-pubblicitario7

Verità o fake news? Aspettando il Festivalfilosofia 2018

Clamorosa è quella di Calandrino, protagonista indimenticabile di alcune tra le più belle novelle del Decameron di Boccaccio: «Maestro Simone, ad instanzia di Bruno e di Buffalmacco e di Nello, fa credere a Calandrino che egli è pregno; il quale per medicine dà a’ predetti capponi e denari, e guarisce della pregnezza senza partorire» (nona giornata, novella terza)1. Meno nota, ma comunque da non credere, è quella di Marco Polo, che ne Il Milione riporta l’avvistamento – al largo dell’isola orientale di Angaman – dei mitici Cinocefali, creature ancestrali dal corpo d’uomo e dalla testa di cane2. Involontaria, ma certo più distruttiva nelle esternalità prodotte, è invece quella di Orson Welles, che nel 1938 seminò scompiglio con l’adattamento radiofonico de La Guerra dei Mondi: l’annuncio fittizio dell’avvenuto atterraggio di alcune astronavi marziane sulla tranquilla cittadina di Grovers Mill, New Jersey, venne preso per vero dalla popolazione locale, che si abbandonò per alcuni giorni al panico generale. Quelle sul Papa, notizia di qualche mese fa, sono addirittura diventate un libro: Fake Pope. Le false notizie su papa Francesco (San Paolo Edizioni, 2018).

A leggere d’un fiato le righe qui sopra pare che la storia, da Calandrino a Papa Bergoglio, non sia altro un pullulare di bufale, fantasticherie, ridicolaggini, storielle perniciose fatte passare per pillole di verità. Con il linguaggio anglocentrico che caratterizza il nostro villaggio globale, le chiamiamo oggi fake news, termine ombrello e un po’ naïf sotto cui s’ingombra un’accozzaglia di bubbole, inganni, teorie del complotto, errori editoriali e bugie d’ogni sorta. 

Mai come negli ultimi anni se n’è tanto parlato, in un crescendo di iniziative e tavoli di discussione aventi per tema l’informazione bugiarda e il suo rapporto con la verità. Se ne parlerà anche nel corso di Festivalfilosofia 2018, in programma dal 14 al 16 settembre con un calendario ricchissimo di eventi nei comuni di Modena, Carpi e Sassuolo. Tema dell’edizione 2018: la falsa informazione, appunto, e il suo rapporto con la Verità, parola-chiave di quest’edizione e concetto oggi più che mai friabile, in crisi, lacerato dallo soffio sferzante delle falsità mediatiche.

L’incedere lento e taciturno del pensiero filosofico ci ha da tempo insegnato come ogni racconto della realtà porti necessariamente con sé un residuo tossico di menzogna, visione parziale sullo stato di cose, emulsione capziosa di materia reale e materia apparente. L’affresco forse più bello di questa condizione fenomenica dell’essere, sempre in bilico tra verità e finzione, lo troviamo in quel capolavoro cinematografico del 1950 che è Rashōmon, di Akira Kurosawa: la stessa storia raccontata da quattro persone diverse equivale a quattro storie diverse. Dove sta, allora, la verità? Dove la menzogna?

Un problema filosofico fondamentale dunque, la Verità, sul quale intere biblioteche sono state scritte e altre ce ne saranno da scrivere, soprattutto alla luce delle nuove potenzialità offerte dal digitale e della sua capacità di far passare per digesta la menzogna. Siamo nel 2013 quando il Global Risk Report del World Economic Forum (WEF) inserì proprio la diffusione della disinformazione digitale tra le principali minacce per gli ordinamenti politici, al pari di cyberterrorismo e fallimento della governance globale. Tre anni più tardi la conferma dell’Oxford Dictionary, che come parola dell’anno 2016 scelse post-truth, la “post-verità” di una realtà digitale ormai liquefatta, in cui «[…] i fatti oggettivi, chiaramente accertati, sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica rispetto ad appelli a emozioni e convinzioni personali»3. 

La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo (Raffaello Cortina, 2017), del filosofo dell’Università di Oxford Luciano Floridi, è forse un primo, parziale tassello per cogliere la portata sovversiva della potenza digitale, che attraverso un inarrestabile processo di disintermediazione sta rapidamente smontando le fondamenta filosofiche su cui si basa il concetto di verità. In futuro sarà sempre più facile e sempre meno costoso produrre, distribuire e conservare informazione – vera, falsa, poco importa – e questa condizione di possibilità deformerà irreversibilmente l’editoria tradizionale, basata sulla verifica delle voci e sull’attendibilità delle fonti. Lo vediamo oggi dallo scontro letale che si sta consumando sul terreno scosceso delle fake news tra un giornalismo ormai conscio della crisi industriale che va sfiancandolo e le grandi piattaforme digitali, cresciute in maniera deflagrante nella più totale deregulation politica, e oggi minacciate dalle prime misure legislative volte a smontare l’enorme barriera del monopolio digitale.

In attesa di vedere se queste nostre speculazioni filosofiche si avvereranno o rimarranno finzione, non ci resta che sederci sulla riva del grande flusso digitale, limitandoci – almeno per il momento – ad aspettare Festivalfilosofia 2018, nella speranza che un pizzico di verità affiori spontaneamente dall’esercizio del pensiero.

 

Alessio Giacometti

 

NOTE
1. G. Boccaccio, Decameron, Roma, Laterza, 1927, p. 198.ù
2. Cfr. M. Polo, Il milione, Milano, TEA, 2008.
3. Oxford Dictionary.

[Credit Flipboard]

banner-pubblicitario_abbonamento-2018

Salto di civiltà: dalle lettere alla tecnica

«La cultura che abbiamo[,] in particolare in Italia[,] andava bene in un mondo contadino perché le cose non cambiavano e ognuno accettava il suo ruolo. I cambiamenti o non esistevano o erano lentissimi e la cultura era il giardino dei piaceri: la pittura, la poesia, l’arte, la lettura. Purtroppo è su questi argomenti che oggi spendono i soldi pubblici gli assessori. Sono argomenti ancora importanti, certo, ma purtroppo questa vecchia cultura letteraria non è più in grado di reggere il suo tempo e di interpretare la modernità. Oggi per essere dei saggi bisogna sapere raccontare l’innovazione tecnologica e anche l’economia. Perché questo sistema tecnologico è intimamente legato all’economia».

Parla con il candore tipico delle persone di una certa età, Piero Angela, in questo frammento d’intervista apparsa su Corriere Innovazione il 29 giugno scorso, a firma di Massimo Sideri1. La sostanza liquida delle parole messa in ordine in una manciata di righe, epitaffio d’un vecchio mondo in via d’estinzione e al tempo stesso fulgido trailer di quello nuovo che sta per arrivare a sconquassare l’esistente.

Da guru navigato della semplificazione linguistica – che da Vygotskij e Heiddeger in Piero Angela poi sappiamo essere semplificazione del pensiero – Piero Angela traduce in prosa ciò che il chiaroveggente Max Stirner aveva raccolto in poesia già nel 1842: «[…] il vivo legno della mazza ferrata dell’industriale manderà in pezzi il secco bastone del dandy smidollato». Una vita piena di fallimenti e di rancore, la sua, condizioni necessarie per dilatare lo spazio delle visioni. Su tutte, l’immenso avvenire del fenomeno tecnico, il colossale trionfo dell’ingegnere (l’industriale) sul letterato (il dandy smidollato).

È sul solco scavato dalle nitide allucinazioni di Stirner che troveranno di che cibarsi i più grossi saprofagi della modernità: Nietzsche, Marx, Durkheim, Simmel, Weber, Schopenauer, Freud. Com’è possibile che da una civiltà umanistico-agraria, rimasta immutata per millenni, si fosse d’un tratto passati a una civiltà tecnica, della quale il «diventare altro» era (è?) la principale forza propulsiva?

Quando la tecnica cominciò a propagarsi sulla crosta terrestre divenne presto chiaro che il mondo contadino sarebbe definitivamente scomparso: il più grande evento della storia dopo la nascita di Cristo, dirà con esagerazione cosciente il poeta francese Charles Péguy. Da quello squarcio della storia a metà ‘800, cominciò a suppurare copioso il materiale grezzo del pensiero divergente, che proprio in quel segmento di secolo apparve più di frequente e nelle sue vesti più radicali: nichilismo, comunismo, positivismo, struttural-funzionalismo. Un’incredibile occasione di speculazione filosofica, distante due secoli e più dai successivi spostamenti d’asse della storia: la rivoluzione digitale e quella ecologica. Treni che cominciano ora ad apparire all’orizzonte. Alla guida un nuovo Stirner, magari cinese o indiano.

L’urto della modernità con il mondo contadino è tra i topoi più sottovalutati dalla cultura letteraria – tradizionalmente colta, accademica, borghese, urbana. La tecnica piomba straniera sulla vita eterna della campagne indossando abiti di guerra: per i contadini veneti di Ferdinando Camon parla la lingua incomprensibile dei soldati tedeschi, per gli agricoltori del sorgo di Mo Yan arriva a bordo di una strana creatura metallica a quattro ruote. In entrambi i casi, a consegnare alla storia l’invasione tecnica delle campagne sono le stesse mani che zappano la terra.

Con l’avvento della cultura tecnica finisce il mondo contadino, dunque. Finisce anche il suo complemento umanista, letterario, romantico, dolciastro. L’unico umanesimo che rimane è quello della protesi, dell’uomo che interviene sulla natura con un prolungamento tecnologico: l’essenza del neo-umanesimo è fatta di azioni tecniche, di protocolli prometeici, di procedure organizzative. Dietro l’angolo il trans-umanesimo con formule nuove e nuove posologie.

Questa generazione, o forse la prossima, sarà l’ultima ad avere il senso della letteratura, quel «giardino dei piaceri» che per Piero Angela non sarebbe più in grado di «interpretare la realtà». Interpretare? «La letteratura non descrive la realtà, la trasfigura, la prefigura, la configura»: a soffiare via la polvere è Nicolò Porcelluzzi, «dolmen in mezzo alla foschia», in un suo recente articolo su il Tascabile. Prima di lui, lo stesso Ferdinando Camon: la letteratura vede prima, vede meglio e vede per sempre. Ma cosa vede, la letteratura? Cosa configura?

Nelle orecchie risponde il triduo recitato sotto la tempesta da Umberto Galimberti, l’ultimo greco: presi nella morsa del materialismo tecnico, non capiamo più bene che cosa è vero, che cosa è buono, che cosa è bello, che cosa è giusto, che cosa è santo, che cosa è interessante. Capiamo però benissimo che cosa è utile: «Manca oggi una filosofia della tecnologia […] che spieghi come tutta questa rivoluzione ci ha permesso di studiare, di vivere sani, di avere un reddito più alto, di liberare uomini e donne da sudditanze antiche e soprattutto […] di creare delle società che sono competitive in un mondo in cui conta la capacità di essere innovatori per riuscire a vincere la concorrenza», continua Piero Angela nel suo soliloquio materialista e capitalista, in cui trova spazio solo ciò che risponde alla legge dell’utilità.

Patetico sarebbe continuare a sostenere che la letteratura, sorella della filosofia, non serva a nulla, perché serva di nessuno. Essa è piuttosto il luogo in cui diventare coscienti della giustizia, della noia, della nostalgia, della commozione, dei sentimenti: la letteratura è il volto metafisico della conoscenza. Soffocata in un paesaggio tecnico ormai poco ospitale, essa ci è oggi più che mai necessaria.

 

Alessio Giacometti

 

NOTE
1. M. Sideri, Piero Angela: «La cultura letteraria? Non coglie la modernità. Mi offrirono il Tg2, dissi di no», in “Corriere Innovazione”, 29 giugno 2018

[Photo credits: HealthyMond on Unsplash.com]

banner-pubblicitario_abbonamento-2018

All’origine della crisi della scuola: sul caso Galli della Loggia

«Marco, dimmi un po’. Ora ti è venuta voglia di leggere un libro?». Il ragazzo è al terzo anno di un istituto tecnico, vive in un quartierino di provincia come tanti altri, con mamma infermiera e papà impiegato. Ci vediamo una volta la settimana, a ridosso delle verifiche più imminenti. Matematica, inglese, italiano: qualche problema con la grammatica, rifiuto totale per la lettura. Avanzo la domanda dopo aver studiato assieme un paio di poesie siculo-toscane del XIII secolo, d’uno specialismo linguistico da laureato magistrale in Lettere. «Neanche per sogno» risponde lui schietto, mentre con le mani chiude l’antologia di mezzo migliaio di pagine. La copertina tutta stropicciata.

Che ci sia qualcosa di sbagliato nel funzionamento della scuola lo capisco dalla risposta di Marco, e da quell’antologia pesante e autoreferenziale che dovrebbe creare affezione crescente per il libro come tecnologia della conoscenza, non certo rigetto! Un paradosso sconfortante, forse all’origine delle tante proposte di rinnovamento che scuotono oggi l’istituzione scolastica.

L’ultima in ordine di tempo è quella firmata dallo storico ed editorialista Ernesto Galli della Loggia nella sua Lettera sulla scuola, apparsa online il 4 giugno scorso, sezione Opinioni del Corriere della Sera1. Cattedre più alte per i professori, gite scolastiche solo in terre nostrane, abrogazione definitiva della rappresentanza parentale negli istituti: un decalogo polemico e saccente, destinatario simbolico il neo Ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti. Per lui dieci semplici misure da adottare «già dal prossimo settembre», così da dare l’idea «che qualcosa stia veramente per cambiare nella scuola italiana».

Impensabile passasse inosservato, il vademecum per programmatori scolastici messo a punto da Galli della Loggia piove sul dibattito pubblico a pochi mesi di distanza da una serie sconcertante di episodi di bullismo perpetrato da giovani studenti – o, peggio ancora, dai loro genitori – a insegnanti di mezza Italia, in un’escalation di violenza che nell’era delle reti sociali e degli smartphone perennemente a portata di mano si propaga velocissima fuori dalle mura scolastiche.

In un clima di tensione accesa sul nervo scoperto della scuola, il decalogo di Galli della Loggia ha restituito, secondo molti, l’immagine stucchevole di una filosofia dell’educazione paternalistica, retrograda, deteriore. Un’idea logora di scuola che non ha certo trovato d’accordo il fisico e professore universitario Carlo Rovelli: «Non dobbiamo avere nostalgia di un mondo passato che non era migliore del nostro, non si educano i giovani con autoritarismo ottocentesco», commenterà acido e sessantottino nel suo contro-editoriale2.

Ennesimo screzio di una frizione pregressa, quella tra Galli della Loggia e Rovelli, con botta e risposta consumati sulle pagine della stessa testata, divenuta terreno di scontro virtuale tra le due forme della conoscenza che regolano la nostra civiltà: da una parte la cultura scientifica, interessata al movimento, alla trasformazione e all’innovazione permanente; dall’altra quella umanistica, che celebra invece l’estetica del fermo, della resistenza tradizionale alla distruzione creatrice del progresso (non sono forse cambiamenti retrogradi e anti-progressisti, quelli proposti da Galli della Loggia per contenere all’odierna deriva dei costumi culturali?).

Oltre il conflitto dialettico tra la cultura scientifica e quella umanistica, articolate nelle rispettive ragioni dai due editorialisti del Corriere, le proposte contemporanee per salvare la scuola non tengono in minimo conto una riflessione filosofica sulla crisi del discorso educativo lunga quasi due secoli, e capace di andare al di là del manicheismo partigiano di chi difende il sistema educativo tradizionale e di chi vorrebbe invece rovesciarlo.

Sarebbe infantile – scrive Theodor Adorno in Theorie der Halbbildung (1959) – pensare che basti riformare i programmi didattici per sanare le lacune melmose su cui poggia il sistema educativo. Dibattere la reintroduzione del predellino nelle aule scolastiche non ha alcun senso se nulla facciamo per neutralizzare l’avanzata inesorabile del «potere extra-pedagogico», la presa asfissiante alla gola dell’educativo da parte di ciò che a esso dovrebbe rimanere esterno. Un esempio? Il mercato, che vuole l’educazione prona alle sue esigenze strutturali – profitto, competenza, produzione, innovazione – ma anche la politica, che della scuola tende sempre a fare strumento d’indottrinamento di massa, dispositivo disciplinare nelle mani di un preciso progetto d’obbedienza morale.

Ecco che il compito della filosofia dell’educazione, come scritto da Mino Conte ne La forma impossibile (2016), dovrebbe essere quello di sottrarre la scuola a ogni forma di «riduzionismo (o tentazione) tecnicistico-amministrativo-commerciale». Una presa di posizione netta e necessaria contro la mano invadente e molesta del mercato (e della politica), anche a costo di tenere la scuola all’oscuro di ciò che accade nel mondo: è dall’oscurità che sgorgano le forme di vita, non solo vegetativa.

Sottrarre la scuola al richiamo suadente dei poteri extra-pedagogici vuol dire anche superare il «falso principio» su cui essa si fonda, ovvero l’idea che il sapere abbia natura accessoria, bagaglio cognitivo da amministrare e trasmettere attraverso una burocrazia didattica che ha perso ogni rapporto erotico la conoscenza. Un sapere che non espande il raggio d’azione e di vita di chi vi s’immerge, un sapere che non diventa personalità cosciente.

Necessario che gli insegnanti, scrive Massimo Recalcati ne L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento (2014), tornino a trasformare i corpi teorici – libri, teoremi, quadri, poesie (anche quelle siculo-toscane del XIII secolo) – in corpi erotici, capaci di accedere il desiderio della conoscenza. Questa la condizione prima per pensare la scuola oltre la sua crisi.

 

Alessio Giacometti

 

NOTE
1. E. Galli della Loggia, Lettera sulla scuola, in “Corriere della sera”, 4 giugno 2018
2. C. Rovelli, Il predellino? No, ai docenti serve dignità, in “Corriere della sera, 6 giugno 2018

 

banner-pubblicitario-La chiave di Sophia N6

Miraggio Marx: quel che resta dello spettro marxista, nell’era della rivoluzione impossibile

In una delle scene finali del film, Karl, Friedrich, Jenny e Mary sono seduti attorno al tavolo: stanno rivedendo per l’ultima volta la bozza de Il Manifesto del Partito Comunista, ormai prossimo alla pubblicazione. Leggono e rileggono l’attacco di quel pamphlet che cambierà le sorti del mondo, coazione a ripetere. Alla fine, Karl si decide: tira uno striscio nero sulla parola «fantasma» e ci scrive sopra «spettro». La differenza è un riverbero sottile che attraversa le epoche: fantasma viene dal greco phaínō, «mostro», spettro invece dal latino spectrum, «visione». Uno spettro s’aggira per l’Europa, non certo un fantasma.

Ho visto Il Giovane Karl Marx di Raoul Peck l’altra sera, in un monosala di periferia che resiste – Dio sa come – alla forza scorticante dei grandi centri di proiezione. Una ventina gli spettatori presenti, le teste bianche davanti a me, i posti scelti a piacimento secondo la regola aurea del chi prima arriva meglio alloggia.

Il film viene distribuito in Italia nell’anno in cui si celebrano i duecento anni dalla nascita di Marx, avvenuta il 5 maggio 1818 a Treviri, allora nuovo ombelico di un’Europa restaurata dal Congresso di Vienna. Ho visto il film dopo aver letto di tutto sui giornali, che intorno al duecentesimo anniversario di nascita di Marx hanno profuso fiumi d’inchiostro e di bite: c’è chi ha definito il suo pensiero una catastrofe per il movimento operaio e sindacale, chi ne ha sottolineato la solita, incredibile attualità, e chi invece ne ha rivendicato la proprietà filosofica, mettendo fuorigioco in un colpo solo il Marx economista e sociologo.

Per quanto mi riguarda, esco dal cinema con la sensazione di aver impegnato due ore di vita in un film che vale la pena vedere, nonostante la parzialità ineludibile di ogni tentativo di misurarsi con le biografie dei giganti. Ennesimo delitto di hýbris, avranno pensato i detrattori delle agiografie laiche, attirando sul film le smorfie dei vecchi intellettuali sinistroidi ormai in decadenza o dei bigotti tutto-forma della critica cinematografica. Il film, in realtà, dichiara da subito e con estremo candore l’intento pedagogico di celebrare il teorico della modernità senza classi, proprio oggi che annaspiamo in un presente senza nome, privi di cardini ideologici su cui appendere gli sforzi delle nostre misere esistenze.

«Da sempre i filosofi non fanno che interpretare, interpretare tutto il mondo. Ora è venuto il momento di cambiarlo» fa dire il regista al suo giovane Marx, in una scheggia di pellicola che poi è la cifra di tutta la sua vicenda umana. Possono le idee cambiare la storia? Qui Marx, secondo un’interpretazione ormai accettata dal senso comune e dunque poco valida a spiegare l’esistente, non ha dubbi: la storia non è che lo svolgersi dei rapporti di produzione economica, il resto è nuvola vuota. Ciò che davvero conta è la divisione della società in classi, assimilabili grossomodo al doppio tempo verbale di un participio: dominati e dominanti.

Poco importa se questi indossano, nello sfogliarsi delle ere, maschere diverse: servi e padroni, sudditi e re, proletari e borghesi, poveri e ricchi. Solo la maturazione di una coscienza comune nella classe dei dominati potrà evocare le forze esoteriche della rivoluzione, unico tramite per spezzare la struttura dei rapporti di sfruttamento e disuguaglianza che regge l’edificio sociale. No, dunque, per Marx la sovrastruttura delle idee non può svellere in alcun modo la struttura profonda dei rapporti di produzione economica: secoli di filosofia dello Spirito marciscono sotto la muffa della critica marxiana.

C’è però un’interpretazione diversa delle visioni filosofiche di Marx, nota ai pochi che hanno prestato orecchio alle Cose dette da Pierre Bourdieu, attento revisore della critica marxiana: «[…] i gruppi – le classi sociali, ad esempio – sono da farsi»1. Le cose sociali del positivismo sociologico non sono in realtà che involucri vuoti, gusci privi di materia fintanto che non si comincia – direbbe Max Stirner, padre simbolico dell’Edipo Marx – a «fare filosofia col martello».

Il proletario marxiano infatti non esiste in sé, come dato del campo sociale. Bisogna piuttosto renderlo socialmente attivo, esercitando un effetto di teoria capace di imporre una certa «visione delle divisioni» lungo cui scorre la linfa vitale del conflitto di classe. L’ingegnere sociale Marx è dunque riuscito a comminare al corpo molle della società la sua visione delle divisioni, spectrum tremendo ed errante all’origine di un secolare lavorio di applicazione politica che da Vladimir Il’ič Ul’janov arriva sino a Xi Jinping. La forma però, è sempre inferiore all’idea, e il sogno infantile di Marx è naufragato nella degenerazione ideologica della sua ipostatizzazione storica.

La biografia giovanile tracciata da Peck si ferma al momento dell’idea, tralasciando la goffa sperimentazione politica che ne seguirà. Meglio ancora, la pellicola del film si spegne nell’esatto momento in cui l’idea – ancora purissima, intonsa – diventa parola scritta su carta, al chiaro d’una candela. È il passaggio più mistico dell’intera parabola marxiana, oggetto di culto per gli sparuti discepoli ancora capaci di intravedere il miraggio dell’oasi che ci aspetta alla fine del deserto.

 

Alessio Giacometti

Alessio Giacometti è del 1992 ed è laureato in Sociologia e Ricerca Sociale. Ha studiato in Cina e Regno Unito, oggi lavora come nell’ufficio stampa e comunicazione di una grande azienda pubblica.

 

NOTE
1. Orthotes editore, Salerno 2013. p. 167

[Immagine tratta da MyMovies]