Ascoltiamo il grido dell’uomo alla ricerca di senso

L’uomo del tempo presente è attraversato da un abissale sentimento di vuoto interiore, da un’angosciante mancanza di significato della propria vita. L’insorgere del vuoto esistenziale è dovuto, come spiega lo psichiatra e filosofo Viktor Frankl, al fatto che:

«diversamente dall’animale, l’uomo non ha impulsi e istinti che gli dicano automaticamente tutto ciò che deve fare; inoltre, contrariamente all’uomo di ieri, l’uomo di oggi non ha più tradizioni che gli indichino ciò che dovrebbe fare. Orbene, non sapendo ciò che deve e tantomeno ciò che dovrebbe fare, molto spesso non saprà più neanche ciò che in fondo vuole»1.

L’assenza di tali punti di riferimento conduce l’uomo a fare, volere e desiderare ciò che fanno, vogliono o desiderano gli altri. Il conformismo, l’omogeneizzazione e al contempo l’isolamento si manifestano nei più disparati tentativi di riempire il vuoto interiore. È sufficiente osservare la contemporaneità e rilevare come siano in aumento le diverse forme di dipendenze da alcool, droghe, gioco e internet (Internet Addiction Disorder), passando per i crescenti e cruenti fenomeni di criminalità, per giungere alla reificazione della sessualità che si sta spersonalizzando e sta via via perdendo la propria finalità (il proprio senso!) squisitamente relazionale, perché piegata sotto la spinta del godimento immediato e feticistico, dei corpi.

Sono solo alcune delle espressioni dell’uomo contemporaneo che possono essere lette alla luce del tentativo estremo di riempire l’abissale vuoto interiore. Purtroppo però queste modalità non fanno altro che deviare e soffocare il grido dell’uomo alla ricerca del significato della propria esistenza. A ragione Frankl afferma che «noi oggi non siamo più confrontati come ai tempi di Freud, con una frustrazione sessuale, quanto piuttosto con una frustrazione esistenziale»2. E, contrariamente a quanto affermato da Maslow nella celebre piramide dei bisogni, il desiderio, profondamente umano, di inondare di senso la propria esistenza, prescinde dall’autorealizzazione personale e dal soddisfacimento dei bisogni elementari, in quanto emerge sempre prima di essi (primum philosophari), anche e soprattutto quando l’esistenza è attraversata dalla sofferenza. Ne danno testimonianza i malati terminali e i sopravvissuti ai campi di prigionia e concentramento, alla ricerca del senso della propria esistenza e della propria sofferenza sino all’ultimo istante. Il bisogno di senso, precede dunque i bisogni fisiologici primari, li anticipa, per questo «l’uomo che in misura tanto rilevante cerca il piacere ed il godimento alla fin fine risulta essere uno che, nei confronti della sua volontà di significato, quindi […] nella sua motivazione ‘primaria’ è rimasto frustrato»3.

Il desiderio profondo che la propria vita sia animata da un senso è una peculiarità che, coloro che si occupano di esseri umani, non possono trascurare. Infatti, spesso è proprio la frustrazione della volontà di significato che genera altre problematiche, come quelle precedentemente citate e non viceversa. Per questo Frankl ha individuato una nuova tipologia di nevrosi, tipiche del tempo ipermoderno, le nevrosi noogene. Esse emergono precipuamente, quando la tensione per la ricerca del proprio senso viene frustrata e per questo può ripercuotersi o manifestarsi in sintomi nevrotici.

Se Freud scriveva che «nel momento in cui ci si interroga sul senso e sul valore della vita si è malati»4, Frankl invita a riflettere sul fatto che non si ammala tanto colui che s’interroga sul senso della propria vita, quanto piuttosto colui che frustra questa domanda, che la aggira, che tenta di soffocarla dirigendo il proprio desiderio di senso verso mete che non possono soddisfarlo pienamente. Dunque è possibile affermare che il riduzionismo freudiano non rende ragione dell’essenza ultima dell’uomo, come essere pensante che sin da quando ha sviluppato l’intelletto si è posto la domanda circa il senso della propria esistenza. Finché nell’uomo è presente questa domanda, è possibile vivere con pienezza anche gli ultimi istanti dell’esistenza. Nella misura in cui ci lasciamo attraversare dall’invocazione esistenziale del senso, ci possiamo sentire interpellati dalla vita, chiamati a risponderle restando fedeli al nostro compito, al nostro desiderio, anche quando le circostanze sono avverse e faticose.

La filosofia sin dalle origini nasce come fame di senso, come ricerca di significato, come interrogativo circa la possibilità di condurre la propria esistenza scoprendone il valore. Le parole e la vita dello psichiatra e filosofo Frankl, richiamano da vicino la mission esistenziale della filosofia, che ancora una volta può venire in soccorso alle nostre esistenze lacerate e attraversate dalla fatica esistenziale, suggerendo che il significato può essere trovato sempre, a condizione che lo si ricerchi instancabilmente. Esso è sempre concreto e si riferisce alla concreta esigenza del momento. «Ogni giorno, ogni ora – scrive Frankl – si presentano con un nuovo significato, e per ogni uomo c’è un diverso significato che lo attende. Ciò vuol dire che esiste un significato per ognuno, e per ognuno un significato tutto particolare»5. E l’uomo può scorgere il proprio senso solo nella misura in cui trascende se stesso, andando verso qualcosa o qualcuno che non è se stesso, «un significato da realizzare, o un altro essere umano da incontrare nell’amore»6. Pertanto, l’uomo coglie il proprio senso e si realizza quando ‘dimentica’ se stesso per amore di qualcosa o di qualcuno, per la quale o per i quali vale davvero la pena di vivere.

Per far fronte al vuoto esistenziale che lacera noi, uomini del tempo presente, è fondamentale riscoprire la volontà di significato che ci attraversa, lasciarci animare da essa in quanto motivazione primaria e possibilità insostituibile per inondare di senso il nostro cammino dilatando l’orizzonte della nostra vita.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1. V. E. Frankl, La sofferenza di una vita senza senso, Milano, Mursia, 2013, pp. 29-30.
2. Ivi, p. 27.
3. Ivi, p. 36.
4. S. Freud, Lettere 1873-1939, Torino, Bollati Boringhieri, 1960, p. 402.
5. V. E. Frankl, La sofferenza di una vita senza senso, op. cit., p. 50.
6. Ivi, p. 35.

 

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La parola “io”: patologia del nostro tempo

«La parola Io è uno strano grido che nasconde invano la paura di non essere nessuno…»

Giorgio Gaber

Il culto dell’Io pervade il nostro tempo e le nostre esistenze. Se il XX è stato il secolo della psicoanalisi, il XXI è senza dubbio l’epoca che sta conducendo alle estreme conseguenze la psicologia dell’Io. Riportando l’attenzione sul singolo e sull’esplorazione del proprio inconscio, Freud e seguaci hanno senz’altro aperto un varco all’interno della conoscenza dell’uomo, della sua storia personale e dei propri meandri più remoti e celati, realizzando una vera e propria rivoluzione nel panorama culturale e sociale del Novecento. Il nostro tempo, tuttavia, sembra aver operato una vera e propria stortura rispetto alle iniziali scoperte della psicoanalisi. Se quest’ultima aveva ridestato l’attenzione dell’uomo verso il proprio interno affinché si rivolgesse poi rinnovato verso l’esterno, la società contemporanea, con le sue spinte culturali, economiche e politiche sembra celebrare quotidianamente l’Io e l’affermazione del suo potere come condizione esistenziale par excellence.

«La parola Io / questo dolce monosillabo innocente / è fatale che diventi dilagante / nella logica del mondo occidentale / forse è l’ultimo peccato originale»1. Con queste parole Giorgio Gaber canta la crisi dell’uomo contemporaneo, la quale si fonda propriamente sull’esaltazione del narcisismo. L’atteggiamento che tende ad esaurire la personalità nell’esclusiva considerazione di se stessa, è proprio quanto la psicoanalisi aveva individuato come il denominatore comune delle malattie mentali. I messaggi sociali, culturali ed economici veicolati dai social media fanno apparire l’Io come la sola e vera realtà. L’unica, sulla quale le nostre vite si debbano fondare. Tuttavia, sono tragicamente sotto gli occhi di ciascuno le conseguenze di questa finzione chiamata Io. Suicidi, omicidi, femminicidi, infanticidi, criminalità organizzata, attacchi terroristici. In tutti questi casi a dominare è la parola Io. Essa invita ad agire seguendo il proprio interesse egoistico, il proprio godimento personale, senza tenere in alcuna considerazione la presenza e il rispetto per l’altro. A ragione, facendo parlare il narcisista, Gaber scrive: «son disposto a qualsiasi bassezza per sentirmi importante». Questo è lo specchio di una società seriamente malata, che ha abdicato la dimensione originaria della relazione in favore del narcisismo, che sfocia in egoismo.

Secondo l’epistemologia genetica di Piaget, l’egoismo è una fase dello sviluppo che dovrebbe terminare intorno al terzo, quarto anno d’età. In questo periodo il bambino riconosce di non essere solo al mondo e di dover partecipare alla Vita, condividendola con altri simili, confrontandosi con loro e riconoscendo che la propria libertà è limitata ma proprio per questo preziosa. Il tempo ipermoderno sembra aver disconosciuto questo centrale passaggio dello sviluppo socio-individuale. L’egoismo, che oggi non viene superato nella prima infanzia, si trascina fino all’età adulta e permea tragicamente i nostri comportamenti. Riferendosi a questo Gaber scriveva: «negli adulti, diventa più allarmante e cresce la parola Io». L’esaltazione, che il nostro tempo fa della parola Io, suggerisce un potere esibito dal singolo come espressione di forza. È proprio così che si afferma il dominio dell’uomo sull’altro uomo. È in questo modo che il potere diviene violenza, sopruso, abuso, annientamento. Possibilità senza vincoli. Libertà senza legge. Solo così, infatti, il narcisista può affermare se stesso e il proprio essere. Solo così può provare l’ebbrezza di essere il centro del mondo. Solo così può nutrire la falsa illusione di bastare a se stesso e di non avere bisogno dell’altro. Salvo poi cadere in un profondo e sterile isolamento, prodromo della depressione, malattia dilagante nella nostra epoca.

È tempo di riconsiderare l’uomo come essere-in-relazione. La storia del pensiero, da Platone ad Aristotele, da Agostino a Tommaso D’Aquino, da Montainge ad Hegel, ci ricorda come l’uomo è un essere che può vivere solo in relazione con l’altro da sé, in un legame intersoggettivo autentico, in cui si perde parte della propria libertà per ritrovarla, più ampia e completa, nel legame con l’altro, con gli altri. È dunque necessario prendere le distanze dalla pervasività della parola Io in favore del Noi. Far dominare il Noi al posto dell’Io, significa riaffermare l’Umanesimo del quale siamo figli2. Significa stabilire relazioni di qualità, basate su rispetto, attesa, ascolto e comprensione dell’altro. Significa abbandono di parte delle proprie pretese egoistiche, per unirsi all’altro. Affinché questa unione avvenga, come suggerisce lo psichiatra Andreoli, è necessario riconoscere la propria fragilità. A partire da questa presa di coscienza è possibile cercare l’altro, fragile anch’egli ed unirsi a lui, che al contempo ci cerca poiché a sua volta si è riconosciuto fragile.

Nel panorama contemporaneo sembra sempre più difficile abbandonare l’egoismo, accettare le ferite narcisistiche. La società nella quale viviamo prospetta infatti la felicità nell’Io, proprio laddove, come abbiamo mostrato, non può realizzarsi. Essa infatti può compiersi solo quando l’uomo trascende se stesso, in favore di qualcosa che non è se stesso, che sta fuori di sé, che sta oltre. Ecco perché il filosofo danese Kierkegaard ebbe a dire: «la porta della felicità si apre verso l’esterno, cosicché può essere rinchiusa solo andando fuori da se stessi».

Alessandro Tonon

NOTE:
1. La presente e le seguenti citazioni son tratte da G. Gaber, La parola Io, nell’album Io non mi sento italiano, 2003.
2. Su questi temi rimando alla mia intervista al professor Vittorino Andreoli.

 

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Riflessioni sul rapporto fra abisso e luce

Quante volte nel corso della nostra vita siamo colpiti da sofferenze inevitabili? Amori che finiscono, famiglie disgregate, amicizie lacerate, difficoltà economiche, malattie inguaribili, lutti. Contingenze che si abbattono sulle nostre esistenze, indipendentemente dalla nostra volontà e che ci fanno precipitare in un abisso. E, solo chi ha attraversato la sofferenza, può cogliere quanto tale abisso possa essere profondo.

Dinanzi ai dolori, in particolare a quelli legati alle ferite dell’anima, l’uomo si sente chiamato a cercare e a dare un senso alla travagliata esperienza che sta vivendo. È proprio questa chiamata che rende tale l’umano: la possibilità di inondare di senso le pagine tristi e dolorose della propria esistenza. Gli uomini, infatti, non potrebbero vivere la sofferenza se in qualche modo non le attribuissero un senso. Scrive Natoli: «Il dolore […] si fa experimentum crucis, sottopone a prova l’individuo che lo vive e si erge a controprova del senso dell’esistenza»1. La sofferenza, solo qualora sia inevitabile, diviene prova e per questo occasione di maturazione etica, psicologica e spirituale. La domanda di senso circa il male invita l’uomo ad assumere su di sé la sofferenza. In questo viaggio egli matura, apprende a vivere con una maggiore profondità e una piena consapevolezza la propria esistenza. Nel cammino solcato dalla sofferenza, l’uomo può trovare un senso positivo, caricandola di importanti valenze a livello umano e spirituale. Lo psichiatra Frankl ha individuato tre binomi che caratterizzano l’umano: colpa-pena, sventura-sofferenza, malattia-morte. Tutti noi infatti sbagliamo, soffriamo e moriamo. Alla luce del realismo di questa visione, Frankl sostiene però che ogni uomo può trovare un significato alla propria sofferenza e quindi alla propria vita, proprio nella misura in cui sottrae creativamente spazi di dominio alla colpa, alla sfortuna e alla sofferenza. La luce è dunque sempre a disposizione dell’uomo e questo dipende esclusivamente da come l’uomo sceglie di vivere una sofferenza ineludibile, dunque da quale atteggiamento interiore adotta verso il destino. È fondamentale riconoscere, quotidianamente, all’uomo questa possibilità affinché egli possa cogliere sempre il significato della propria esistenza.

La sofferenza inesorabile è dunque opportunità di crescita e cambiamento. Essa aumenta la sensibilità, la prudenza e al contempo allarga gli orizzonti della comprensione profonda dell’altro e del suo riconoscimento. Inoltre, qualora vissuta con pienezza di senso, permette di attivare quella che Frankl definì “forza di reazione dello spirito” e che oggi possiamo chiamare resilienza. La peculiare capacità umana di riemergere dall’abisso in cui una sofferenza senza senso può trascinare. L’uomo ha dunque in sé tutte le possibilità e le risorse interiori di riemergere dalle tenebre dell’abisso e rivedere la luce. Questo dipende da lui, dal modo in cui affronta la sofferenza e la vive. È dell’uomo infatti l’opportunità di trascendere il dolore. E questo accade quando egli soffre per amore di qualcosa o di qualcuno. Frankl ricorda che nei lager nazisti riuscivano a sopravvivere e a dare un senso alla tragica condizione esistenziale solo coloro che riconoscevano di avere un valido motivo per soffrire: un ideale politico, un valore religioso, una persona da amare, una causa da servire. A questo proposito va ricordata l’esortazione che il medico viennese fece ai propri compagni di baracca nel campo di sterminio affinché riuscissero a strappare un senso alla vita, nonostante la tragedia nella quale erano immersi:

«Dissi loro che in queste ore difficili qualcuno guardava dall’alto, con sguardo d’incoraggiamento, ciascuno di noi e specialmente coloro che vivevano le ultime ore: un amico o una donna, un vivo o un morto – oppure Dio. E questo qualcuno s’attendeva di non essere deluso, che sapessimo soffrire e morire non da poveracci, ma con orgoglio!»2.

È allora che l’uomo può inondare di senso la propria condizione e può cogliere eterni spiragli di luce oltre l’abisso, poiché soffre per qualcosa o qualcuno che sta oltre la sofferenza, qualcosa o qualcuno che la trascende.

Al termine di queste brevi considerazioni sull’abisso della sofferenza ineludibile e sulla possibilità di scorgere la luce oltre l’oscurità, come non riportare le parole che Rilke rivolse al giovane poeta Kappus dopo averlo confortato in modo edificante circa l’importanza di coltivare la speranza oltre le tenebre. Concluse Rilke: «E se vi debbo aggiungere ancora una cosa, è questa: non crediate che colui, che tenta di confortarvi, viva senza fatica in mezzo alle parole semplici e calme, che qualche volta vi fanno bene. La sua vita reca molta fatica e tristezza e resta lontana dietro a loro. Ma, fosse altrimenti, egli non avrebbe potuto trovare quelle parole»3.

Alessandro Tonon

Articolo scritto in vista del quarto incontro Luce/abisso della rassegna Tra realtà e illusione promosso dall’Associazione Zona Franca.

NOTE:
1. S. NATOLI, L’esperienza del dolore, Milano, Feltrinelli, 20105, p. 8.
2. V. E. FRANKL, Uno psicologo nei lager, tr. it di N. Schmitz Sipos, Milano, Edizioni Ares, 200113, p. 138.
3. R. M. RILKE, Lettere a un giovane poeta, Adelphi, Milano 201321, pp. 62-63.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Occidentali’s Karma: una lettura del tempo presente

L’ultima serata del festival di Sanremo ha celebrato la vittoria del brano Occidentali’s Karma di Francesco Gabbani. Sin da quel momento la canzone ha cominciato ad essere trasmessa in moltissime radio, celebrata in televisione e condivisa sui social network. Il ritmo travolgente e i passi che la caratterizzano l’hanno fatta divenire un vero e proprio tormentone. Una di quelle melodie che appena ci entrano in testa a fatica ci abbandonano.

Il successo di questa canzone e dell’uso che ne viene fatto sembra esclusivamente legato alle poc’anzi citate peculiarità di ritmo, passi e melodia. Tuttavia, a colpire l’attenzione di coloro che si occupano di pensiero e di esseri umani, non sono solamente queste caratteristiche, quanto piuttosto le parole che compongono il testo. Ponendo attenzione al brano, infatti, è possibile scorgere una lettura lucida e profonda del nostro tempo. Il presente della civiltà occidentale risulta infatti caratterizzato da un vuoto di senso che cerchiamo di colmare con ogni mezzo, senza renderci conto che riempiendolo in modo vago e superficiale lo destituiamo ancor di più del proprio senso. Ne è un esempio la rincorsa superficiale alle filosofie orientali («lezioni di Nirvana, c’è il Buddha in fila indiana») che, come affermava già alla fine del secolo scorso Francesco Guccini «da noi nascondono soltanto un vuoto di pensiero». Le religioni orientali, vendute e usufruite come pillole per medicare le ferite dell’anima, estrapolate dal profondo percorso interiore che esse richiederebbero, vengono banalizzate nella loro profondità, saggezza e spiritualità.

Seguendo il brano di Gabbani, è poi possibile evidenziare un altro tratto della nostra civiltà, vale a dire la cultura di massa («la folla grida un mantra»). Ogni aspetto dell’esistenza risulta massificato, ciascuno fa ciò che fanno gli altri, desidera ciò che gli altri desiderano. Questo è il conformismo della nostra epoca che ci rende simili a degli automi monodimensionali, tesi al consumo di ogni aspetto della vita, dal corpo alla sessualità, dal cibo alla ricerca del piacere che diventa ostacolo a se stesso. Ed è proprio qui che «l’evoluzione inciampa».

Altro aspetto sociale, emergente nel testo, riguarda la diffidenza e la paura dell’altro («mettiti in salvo dall’odore dei tuoi simili»). La nostra cultura fa dell’altro uno scarto e non una risorsa, senza capire che la gioia di vivere si celebra proprio nell’incontro con l’altro da noi. Il prossimo, il più vicino. Una società, la nostra, che inneggia all’egocentrismo, dimenticando che l’uomo è un animale sociale e politico, che per poter vivere ha bisogno dell’altro e di tutto ciò che da questa relazione deriva: riconoscimento, attenzione, cura, partecipazione, empatia, affetto, amicizia, amore. Dimensioni che caratterizzano il fondamento ontologico dell’umano e che nessun prestigio sociale, nessuna affermazione politica o nessun tipo di denaro, possono sostituire.

Altro tratto tipico del nostro tempo è, per Gabbani, l’umanità virtuale. Oggi infatti internet e i social network sembrano sostituire i veri rapporti umani, che non possono nutrirsi di virtualità, ma che spesso vengono costretti in questa condizione dall’imperio della tecnica e della tecnologia. Diversamente dall’ideologia vigente, le autentiche relazioni umane si nutrono  di incontri, parole, chimica degli sguardi, carne e fiato. Mentre l’umanità virtuale si nutre di apparenza, non di sostanza, di avere e non di essere. Oggi infatti, ciò che la società impone come condizione esistenziale necessaria è il possesso, l’immagine stereotipata di corpi perfetti e carriere di successo, lusso, sfarzi ed eccessi. Indicatori di una “bella vita”. Ma, canta Gabbani, è proprio quando «la vita si distrae», si dirige verso l’effimero, il vuoto e l’eccesso che «cadono gli uomini». Frustrando la volontà di significato e abdicando il pensiero autonomo essi vengono meno rispetto alla propria essenza. L’uomo infatti è animato dalla volontà di cercare e trovare un senso alla propria vita e nel momento in cui si adagia al già dato, al vigente, dimentica la propria essenza e smarrisce l’orizzonte della bellezza che, già per Platone, era la strada maestra verso la verità.

Già nel 1486, Pico della Mirandola nell’Oratio de hominis dignitate, affermava che all’uomo viene data la più grande delle libertà, quella di scegliere se vivere un’esistenza alla stregua delle bestie o se elevarsi a dimensioni superiori. L’uomo può scegliere se orientarsi verso la “bella vita”, fatta di istinti, superficialità, effimero, vuoti colmati con banalità e apparenza oppure orientarsi verso una vita bella condotta all’insegna dell’insaziabile ricerca dell’infinito e della bellezza celati nell’essenzialità di ogni minuscolo, ma preziosissimo, aspetto dell’esistenza.

La cultura e il pensiero sono i vettori per cambiare lo sguardo su noi stessi e sul mondo, per penetrare il mistero della nostra esistenza, per guardarlo con gli occhi della meraviglia che ci invita alla riflessione e all’adesione ai veri valori che possono dare senso alla vita. Infine l’educazione estetica, l’educazione alla bellezza, che come affermava Schiller «dovrebbe poter presentarsi come una necessaria condizione dell’umanità». Solo la bellezza infatti permette di elevarsi al di sopra del vuoto dello status quo, che il testo del cantautore toscano ha tragicamente evidenziato.

«La scimmia si rialza» conclude con fiducia Gabbani. È nelle possibilità dell’uomo infatti riemergere dalle ceneri che egli stesso ha creato, ma questo dipende dalle scelte che ogni singolo compie quotidianamente. L’uomo può elevarsi, oppure continuare a vivere come una “scimmia nuda”, un animale (poco) evoluto. A coloro che non si elevano, che rinunciano ad essere uomini, che si compiacciono di essere semplicemente scimmie nude o bipedi implumi, Schiller ricorda: «colui che non osa elevarsi al di sopra della realtà non conquisterà mai la verità».

 

Alessandro Tonon

 

[immagine tratta dal video musicale]

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Intervista a Vittorino Andreoli: alla scoperta dell’uomo

Vittorino Andreoli, psichiatra di fama mondiale, è stato direttore del Dipartimento di Psichiatria di Verona-Soave ed è membro della New York Academy of Sciences. Uomo di scienza e di grande cultura umanistica, si è sempre occupato di studiare e comprendere in profondità i segreti della mente, per poter aiutare concretamente l’uomo alleviandone le sofferenze con straordinaria competenza scientifica, sensibilità, delicatezza e coerenza. Sempre alla ricerca dell’umanità dell’uomo, negli anni ha analizzato per la magistratura grandi criminali che hanno scosso l’opinione pubblica italiana, fra i quali Pietro Maso e Donato Bilancia.

Fra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: La mia corsa nel tempo (Rizzoli, 2016); La gioia di vivere (Rizzoli, 2016); Ma siamo matti (Rizzoli, 2015); L’educazione (im)possibile (Rizzoli, 2014); I segreti della mente (Rizzoli, 2013); Le nostre paure (Rizzoli, 2010); La fatica di crescere (Rizzoli, 2009).

Professore, nel corso della sua vita si è sempre occupato di esseri umani. A suo parere qual è la condizione dell’uomo contemporaneo?

Anzitutto c’è una condizione che è del tutto umana: l’uomo ha delle peculiarità per le quali è propriamente homo sapiens sapiens. Questi due sapiens non mi piacciono, ma sono l’indicazione per collocarci nell’albero delle specie che aveva disegnato Darwin. Quindi la condizione umana è quella di un animale. C’è una famosa e bellissima espressione di René Dubos (neuroscienziato francese, ndr) che ha scritto So human an animal (1968). Siamo dunque degli animali e abbiamo, in quanto specie umana, la caratteristica della coscienza, una capacità di porci questioni che si legano al cogito di Cartesio e all’Io penso di Kant. Siamo portati a porci domande a cui non sappiamo dare risposte. Attraverso la coscienza abbiamo la consapevolezza dei limiti della specie: la morte, la domanda dal nulla all’esserci, il limite drammatico del dolore, particolarmente quello inevitabile. Io credo che ci siano delle caratteristiche legate propriamente alla condizione dell’essere uomo e a queste caratteristiche e a questo senso del limite e del mistero si legano poi alcune condizioni del tempo presente. Le caratteristiche dell’essere del tempo presente sono: l’insicurezza, la paura, la percezione di un futuro che non si riesce nemmeno a immaginare, la violenza che ha una dimensione che non era mai stata così nel passato, inoltre c’è la paura che la nostra storia su questa terra finisca. Stephen Hawking afferma che sarà una grande fortuna se questo pianeta avrà ancora l’uomo fra mille anni. Questa è un’affermazione drammatica perché, dal punto di vista della fisica e della cosmologia, sappiamo che il pianeta va verso l’estinzione poiché il sole è una stella che nel giro di due miliardi di anni finirà. Ma tra due miliardi di anni e mille anni passa una bella differenza. Hawking non lega tanto questa ipotesi al consumo dell’energia stellare, quanto piuttosto alla paura che l’intelligenza artificiale possa creare dei comportamenti distruttivi per l’uomo. Attualmente i limiti e le paure sono davvero di grande portata.

I suoi ultimi scritti, su tutti La gioia di vivere (2016), si occupano di esplorare in linea teorica ma anche praticamente gli ingredienti per poter condurre un’esistenza all’insegna del benessere e della gioia. Come mai ha sentito l’esigenza e l’urgenza di trattare questi temi, paradossalmente essendosi sempre occupato delle sofferenze dell’anima?

Devo premettere una considerazione: io amo l’uomo e lo amo indipendentemente da quelle che sono le qualità buone o cattive. Io mi sono occupato di casi estremi e ho sempre trovato l’uomo. L’ho trovato persino in Donato Bilancia, che ha ammazzato 17 persone in 6 mesi. In quanto uomo, io ne ho sempre grande considerazione. Amo l’uomo e il mio sogno è quello di un uomo che riesca a vivere insieme secondo l’umanesimo. Quell’insieme di principi che in ciascun tempo devono essere applicati perché si possa vivere meglio. Amo l’uomo, sogno e so che può vivere in un modo che sia dell’umanesimo. Questo significa rispetto dell’altro, significa far dominare il Noi e non più l’io.
Per quanto riguarda la gioia, la spinta è una visione tragica del tempo presente. Io sono un tragico, non solo perché mi dedico ai casi estremi, non solo perché ho amato i tragici greci fin da piccolo, ma proprio perché la mia percezione tragica si sta espandendo e sta arrivando a previsioni quasi apocalittiche, è allora che ho ritenuto necessario promuovere la gioia, la vita. La gioia è certamente l’elemento fondamentale che io ritengo mancare nel residuo di umanesimo che questa società ha ancora in sé. Perché domina l’io, sostenuto anche dalle psicologie. Con Freud nasce la psicologia dell’Io, e tutti noi che l’abbiamo sostenuta (e per questo c’è persino un po’ di senso di colpa) abbiamo finto che sia possibile parlare dell’uomo singolo, mentre l’uomo è sempre relazione ed è sempre storia. Quindi ho pensato che era tempo di cambiare gli occhiali e di vedere il mondo in modo diverso e qui mi sono appoggiato, da una parte a un grandissimo filosofo come Kant, dall’altra ad un grandissimo psichiatra come Karl Jaspers. Kant ha detto: “il mondo com’è non lo conosciamo però ne percepiamo una rappresentazione” che dipende da quelle categorie a priori che per noi sono la biologia del cervello. Così ho cominciato a illustrare quali sono le caratteristiche del mondo della gioia, di questa visione del mondo e di come si fa a promuoverla. Perché, a differenza dei filosofi della tradizione io sono un operativo, uno che vorrebbe cambiare la storia di un uomo e in fondo questo è lo scopo che ho sempre messo nella mia professione. Mi pare che bisogna guardare il mondo in modo diverso da come ce lo presentano i giornali, i politici. Ormai è consuetudine svegliarci in una visione che è catastrofica e qui si inserisce la mia idea che bisogna cominciare a guardare i Nessuno e non il potere. Io sono contro il potere inteso come verbo “posso e quindi faccio”, mentre sono per la condivisione e quindi per il Noi. Perché io per vivere ho bisogno degli altri. Gli egocentrismi sono una lettura sbagliata. L’io è una finzione rispetto al Noi.

Quindi, come possiamo ‘fare la gioia’?

Bisogna avere la percezione della fragilità. Io sono fragile e in quanto fragile ho bisogno dell’altro. Se ho bisogno dell’altro devo avere verso l’altro un’attesa, una ricerca, devo trovarlo, devo legarmi e questo naturalmente porta a dare maggiore importanza al pronome Noi. Pensiamo al legame di coppia, al legame con i figli, al legame con la comunità, con gli uomini. Se c’è qualcosa di filosofico nel mio pensiero è estremamente semplice, non se ne può più di complicazioni. Pensi alla solitudine del tempo presente, ai vecchi, all’abbandono. Oggi c’è la voglia dell’altro ed è su questo che noi dobbiamo fondarci. Per questo, i miei richiami alla filosofia sono dentro all’umanesimo. Questa è una filosofia che non si distacca nemmeno un istante dall’essere terapeutica. Il De tranquillitate animi (Seneca, ndr) è un’ottima seduta di un buon psichiatra, così come i dialoghi platonici, che sono esempio di una relazione che oggi è fondamento delle psicologie e della psichiatria. I dialoghi platonici ci dicono: “c’è un problema, vediamo di analizzarlo”. Platone non fa esercizi di razionalità, quanto piuttosto di un’arte relazionale per vivere. La filosofia dev’essere insegnamento di vita. Oggi c’è una filosofia da riproporre come “terapia”. Parola educativa e parola terapeutica sono per questo molto affini. Mi meraviglio ancora di come la filosofia sia stata distolta completamente dal contesto della classicità. Io amo la civiltà occidentale e dopo i nichilismi, la filosofia non può essere che una filosofia della vita.

Binswanger affermava che l’oggetto della psichiatria è l’uomo. Egli veniva dal sostrato filosofico della fenomenologia, così come Jaspers e Minkowski.

Essi sono dei filosofi, dei fenomenologi. Lei ha colto un punto importante: l’unione fra filosofia e insegnare vivere, che ha trovato nella fenomenologia un terreno estremamente ricco. Io sono e voglio essere un clinico, però ho avuto la grande fortuna di respirare l’atmosfera fenomenologica e di aver avuto un amico come Minkowski che è stato un grande filosofo e psichiatra.

Qual è quindi il suo rapporto con la psichiatria fenomenologica e quale invece quello con la psicoanalisi?

Debbo fare una premessa: io voglio cambiare l’uomo. Da me vengono persone che stanno male, che desiderano stare meglio e chiedono il mio aiuto. Io sono un operativo e in questo sono un empirico, per questo voglio fare qualsiasi cosa per poter aiutare. Naturalmente non mi propongo mai, ma quando interpellato cerco di rispondere sempre. La fenomenologia è una filosofia straordinaria. Io ho conosciuto dei fenomenologi, per esempio Cargnello, che avevano anche responsabilità di cura. Le posso dire che con la fenomenologia non è facile curare perché è troppo lontana dalla clinica che è empirica, mentre la fenomenologia è molto teorica. Molti mi dicono che sono un fenomenologo, ma io sono un clinico, un empirico, uno che vuole far star meglio, uno che vuole essere-con per far star meglio colui che gli sta vicino. Le mie radici sono nella fenomenologia, ma le mani vanno in una disciplina scientifica, perché ho bisogno di strumenti per agire.
Per quanto riguarda la psicoanalisi è inutile che stiamo a discutere l’importanza di Freud e il suo apporto storico. Ma sono molto critico rispetto alla psicologia dell’Io. Il principio freudiano per cui se una persona presenta delle anomalie occorre trovare la radice dentro di lui… beh su questa convinzione sono molto critico perché l’io è una finzione, mentre credo nel Noi. Se colui che ha i conflitti, invece di guardarlo solo dentro lo metto in relazione con un’altra persona, questi in relazione cambia.
Io sono un clinico che ha bisogno della scienza (mi sono dedicato per molti anni in laboratorio allo studio del cervello). Sono un clinico tradizionale però con strumenti attuali. Mi spiace dover dire che di clinici oggi non ce ne sono più e per questo la psichiatria è in una crisi spaventosa. Ma oggi bisogna aiutare l’uomo. Un valido ausilio a questo può venirci da un filosofo come Schopenauer che nell’Ottocento ha capito cose molto utili anche all’uomo d’oggi, nella crisi del tempo presente.

Qual è il suo parere su Franco Basaglia?

È molto semplice. Basaglia è sicuramente un uomo della storia. Non ho simpatia per tutti quelli che ne fanno un uomo del presente. Nella storia ha un significato preciso e storicamente apprezzabile. Ho conosciuto molto bene Basaglia. Non sono mai andato in piazza per lui, ma l’ho sempre rispettato. Da lui nasce lo stimolo per una legge (legge 180, ndr) che io ho seguito. Il primo ottobre 1980, giorno in cui venivano chiusi i manicomi, cioè non vi entrava più nessuno, io ho lasciato il manicomio dove in fondo ero un personaggio di significato e sono andato rispettando la legge 180. Basaglia, essendo un grande trascinatore, ha messo in moto un movimento che ha contribuito a dare una svolta alla psichiatria, anche se è stato più nel chiudere senza sapere cosa aprire. Nel mio libro Un secolo di follia (1991) a Basaglia ho dedicato quindici righe perché io credo nella psichiatria scientifica. Credo nel come si debba fare la psichiatria, credo quindi nella scienza. Per esempio, Cesare Lombroso oggi non è accettabile, ma storicamente è un grandissimo autore. È un uomo della storia. Perché dicendo che il matto, il criminale, ha una degenerazione cerebrale ha allontanato gli spiriti del male. La donna delinquente (saggio di Lombroso, ndr) è certamente un libro che oggi va condannato, ma che storicamente ha allontanato questa dominanza del male e poi fino ad allora il cervello non lo studiava nessuno, perché c’era l’anima da qualche parte, mentre lui ha detto che tutto va riportato al cervello. Oggi sembra ridicolo perché è noto, però storicamente è stato importante. Nell’ambito della psichiatria scientifica, con radici nell’umanesimo e nella fenomenologia, Basaglia non ha tanto spazio, però storicamente è stato il protagonista di un mutamento storicamente utile. Quindi merita alcune righe nella storia.

Qual è il suo rapporto con la religione e in particolare con il Cristianesimo? Secondo lei la vita può avere un senso al di là della fede in Dio?

Il tema della religione meriterebbe un ampio spazio di riflessione e dialogo. Vi sono due punti di riferimento circa le mie considerazioni in merito. Primo: il libro Il sacro di Rudolf Otto, del 1917, il quale dice che nell’uomo, oltre alle categorie della razionalità, ci sono delle categorie per quello che è il mistero, il sacro. Tutti gli uomini hanno le categorie per percepire il sacro, che è mistero, senso del limite, tutto ciò che si lega alla morte. Otto dice che il religioso è la risposta che si tende a dare del sacro. Il sacro avverte il mistero della morte, la religione dice che invece c’è il paradiso, o il Nirvana, o le metempsicosi, o il nulla. Io credo veramente che esista il sacro e che le religioni siano dei tentativi di risposta.
Il secondo pilastro è la figura di Gesù di Nazareth. Indubbiamente tra i grandi della storia e forse il più grande uomo che io conosca storicamente, persino più di Socrate, Platone, Montaigne. Io l’ho studiato come uomo e l’ho trovato grande come tale. Se poi c’è qualcuno che dice che è anche Dio, sarà ancora di più. Ma io mi occupo di uomini… e certamente lo ascolterei.
Altro punto di riferimento è la Chiesa, della quale non amo il culto e non condivido diverse espressioni, ma della quale ho comprensione. La Chiesa è una struttura molto umana che si è attaccata a Gesù e che penso a Gesù non piaccia molto. L’immagine e l’esempio di Papa Francesco mi piacciono. Amo molto i preti ai quali ho dedicato molta attenzione.
Io sono un non credente nel significato che dice che non ho l’esperienza di Dio, che non l’ho mai incontrato. Se Dio venisse a trovarmi, dopo aver fatto le debite ricerche, certamente la mia vita cambierebbe, probabilmente diventerei un credente. Non sono ateo e ho rispetto per quelli che credono (anche questo fa parte del Noi). Sono un non credente, ma pronto a credere se avessi l’esperienza di Dio.

Alessandro Tonon

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Si può sperimentare l’eternità dell’amore oltre la morte?

«Mettimi come sigillo sul tuo cuore […] perché forte come la morte è l’amore».

Cantico dei cantici 8, 6

Nel corso della nostra vita siamo posti di fronte all’invalicabile limite della morte, inteso come mistero per eccellenza. Dinanzi alla perdita di un proprio caro, di una persona amata, ci chiediamo che ne sarà di lui, di lei, ma soprattutto: che ne sarà del nostro amore per quella persona, una volta che si sarà congedata dal mondo? Che ne sarà di tutto quello che abbiamo vissuto insieme e che non potremo mai più rivivere? Sarà possibile continuare a sperimentare quell’amore cha ha caratterizzato il nostro rapporto con la persona morta?

Queste laceranti domande interpellano i filosofi sin dalle origini e tengono bordone nei duemilacinquecento anni di storia del pensiero. Un pensiero che si confronta con l’infinito desiderio d’infinito amore e si scontra con la finitudine dell’esistenza, limitata nel tempo e nello spazio. Ma è proprio l’amore la forza eterna che trascende la temporalità della nostra esistenza. È l’amore che è necessario coltivare nella nostra vita, perché solo esso lascia tracce di bellezza eterna e intramontabile nel nostro transito terrestre.

Scriveva Rilke: «Non vi lasciate ingannare dalla superficie; nelle profondità tutto diventa legge»1. Questo significa che l’amore può essere vissuto e sperimentato concretamente anche senza la presenza fisica dell’amato, nella propria profonda interiorità, poiché solo lì vi è l’eterna sorgente dell’amore; quell’amore che trascende anche la morte. Etty Hillesum testimonia quanto sin qui detto attraverso le parole che annota nel proprio Diario in seguito alla prematura morte dell’amato Julius Spier:

«Il mio cuore volerà sempre verso di te, da ogni luogo della terra, come un uccello e sempre ti troverà […] Sei diventato talmente parte del cielo che s’incurva sopra di me, che mi basta alzare gli occhi per esserti accanto. E se anche mi trovassi in una cella sotterranea, quel pezzo di cielo si stenderebbe dentro di me e il mio cuore volerebbe a lui come un uccello, ed è per questo che è tutto così semplice, sai, straordinariamente semplice e bello e ricco di significato»2.

Parole dense, profonde, consapevoli, di un’indicibile tenerezza e maturità interiore, psicologica e spirituale. Sì, perché solo un profondo percorso interiore può condurci ad esprimere con questa lucida e delicata dolcezza l’amore che trascende l’assenza della persona amata.

Un simile approdo si riscontra anche nelle parole e nell’esperienza di Viktor Frankl. Lo psichiatra viennese, nell’inferno del lager nazista, evoca l’immagine della moglie ventiquattrenne, anch’ella internata in un differente campo di sterminio e della quale ignora la sorte. Di fronte al limite invalicabile dell’assenza, della morte, si fa urgente una tendenza all’interiorizzazione. Il pensiero di Frankl va all’amore per la creatura amata, a prescindere dalla presenza fisica della stessa e dal sapere se sia o meno nel novero dei viventi. Scrive Frankl:

«Improvvisamente, ho di fronte l’immagine di mia moglie. […] Parlo con  mia moglie. La sento rispondere, la vedo sorridere dolcemente, vedo il suo sguardo, e […] per la prima volta nella mia vita, provo la verità di ciò che per molti pensatori è stato il culmine della saggezza, di ciò che molti poeti hanno cantato; sperimento in me la verità che l’amore è, in un certo senso, il punto finale, il più alto, al quale l’essere umano possa innalzarsi. […] l’uomo, anche quando non gli resta niente in questo mondo, può sperimentare la beatitudine suprema – sia pure solo per qualche attimo – nella contemplazione interiore dell’essere amato»3.

L’amore non solo eccede la morte, ma eternizza la vita. Nell’interiorità abbiamo la possibilità di coltivare l’amore per le creature, sperimentando l’eternità indissolubile di questo legame. L’amore per una persona cara è la bellezza senza fine di un fiore i cui petali mai avvizziscono, perché eternamente coltivati, riparati e protetti nella propria intima interiorità, all’interno della quale tutto viene conservato assumendo i contorni ontologici dell’essere eterno.

Pervenire a una simile, profonda consapevolezza, richiede un quotidiano e paziente esercizio interiore, che non può mai dirsi completo e raggiunto. Proprio per questo, di fronte all’enigma della morte, noi tutti ci troviamo al confine fra l’abisso del nulla, il nichilismo e l’eternità dell’essere che si fonda nell’amore che non ha mai fine. La nostra fragile umanità, al cospetto della fine, vive uno spaesamento tragico, perché non è né semplice né scontato riconoscere l’eternità dell’amore. Negli ultimi istanti della vita di una persona, particolarmente se cara, la vulnerabilità della nostra esistenza emerge nella sua angosciante pesantezza. Ma l’uomo che riflette sulla propria precaria condizione vive con umiltà e riconosce nella propria interiorità la traccia eterna dell’amore. La forza della fragilità che è principio e fondamento di ogni autentica relazione. Poiché, come scrive Rilke, l’amore è «qualcosa che lo elegge, e lo chiama a un’ampia distesa»4, l’uomo può imparare ad abitare la lacerante contraddizione della propria esistenza, segnata dalla morte, senza rimanere soffocato, aprendosi all’intramontabile orizzonte della bellezza interiore, nella quale l’amore ha la sua fragile ma eterna dimora.

Alessandro Tonon

NOTE:
1. R. M. RILKE, Lettere a un giovane poeta, tr. it di L. Traverso, Milano, Adelphi, 201321,  p. 33.
2. E. HILLESUM, Diario, tr. it. di C. Passanti e T. Montone, Milano, Adelphi, 2013, pp. 751-752.
3. V. E. FRANKL, Uno psicologo nei lager, tr. it di N. Schmitz Sipos, Milano, Edizioni Ares, 200113, p. 74.
4. R. M. RILKE, Lettere a un giovane poeta, op. cit., p. 49.

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Divertirsi per non pensare?

Il nostro tempo è caratterizzato dall’affermazione del divertimento come categoria esistenziale fondamentale. Gran parte delle manifestazioni umane di giovani e adulti si fonda sul divertimento, indicatore sociale di una “bella vita”. Osservando le proposte di aggregazione, le esperienze relazionali e la condivisione di quest’ultime sui social network, risulta evidente come il divertimento sia creduto l’unico sinonimo dello stare bene, dell’avere una vita piena e ricca di significato.

Tuttavia, ad un occhio più attento e profondo, la condizione esistenziale dell’attuale società del “benessere”, appare come una vera e propria contraddizione. La filosofia, il cui compito è sin dalle origini quello di comprendere e “smascherare” la realtà, rivela come al di sotto di questo stile di vita basato sul divertimento e sul desiderio di godimento senza limiti, si celino un disagio profondo e un vuoto esistenziale, dei quali è necessario rendersi consapevoli.

Indagini e statistiche di natura sociologica e psicologica, evidenziano come alla base della “bella vita” sia sottesa una precarietà esistenziale, un’assenza di disciplinamento del desiderio e un vuoto di senso dilaganti, che la società preferisce non riconoscere per perpetuare il suo sistema ideologico radicato nel consumo di ogni aspetto dell’esistenza. A ragione si può parlare di consumo, proprio perché dai più la vita non viene vissuta e portata a compimento, ma letteralmente sciupata. Nella falsa convinzione che maggiormente il desiderio di godimento, privo di legge, è spinto all’estremo, maggiormente si realizza l’esistenza. Quando in realtà il desiderio si alimenta precipuamente di assenza, di limite, di tutto ciò che non lo esaurisce e non placa la sua sete, ma continua a tenderlo verso l’infinito che è sorgente.

La filosofia e i filosofi, sono come profeti che vogliono ridestare la nostra attenzione, avvertendoci che il desiderio infinito dell’infinito, non può essere colmato attraverso il divertimento spinto oltre ogni limite. «Il divertimento, inteso come fuga, − scrive D’Avenia − si può alimentare e ripetere ad oltranza, ma il vuoto resta lì»1. Dunque, una volta finito l’effetto anestetizzante del divertimento stesso, il desiderio esistenziale, che è sete di verità, ritorna a bussare ai nostri cuori e alle nostre menti, portando con sé un carico di angoscia che esige di essere accolto e affrontato, proprio perché essenziale della nostra naturale, precaria condizione.

Pascal è stato magistrale interprete della condizione dell’uomo nel mondo e in particolare dell’uso del divertimento come “alternativa” alla riflessione su se stessi. L’essere umano appare paradossale al filosofo e matematico francese, in quanto in esso coesistono bene e male, sapienza e ignoranza, grandezza e miseria. Questo paradosso non dev’essere negato, ma integrato e compreso. Tuttavia, la maggior parte degli uomini evita di riflettere sulla propria essenza, allontanando il pensiero per la paura di inabissarsi nel vuoto, nel nulla. Gli uomini nascondono a se stessi questa fragile condizione, questi insanabili contrasti e lo fanno attraverso quello che il pensatore chiama divertissement, ovvero divertimento, meglio se tradotto come “diversione” o “distrazione”, dal latino de-vertere “volgere lontano da qualcosa”, in questo caso dalla ricerca del senso della vita. Scrive infatti Pascal:

l’unica cosa che ci consola delle nostre miserie è il divertimento, e intanto questa è la maggiore tra le nostre miserie. Perché è esso che principalmente ci impedisce di pensare a noi e ci porta inavvertitamente alla perdizione. Senza di esso noi saremmo annoiati, e questa noia ci spingerebbe a cercare un mezzo più solido per uscirne. Ma il divertimento ci divaga e ci fa arrivare inavvertitamente alla morte2.

Il divertissement pascaliano, indica propriamente quanto avviene nel nostro tempo: l’oblio della propria vera natura e condizione, la fuga da se stessi, al fine di esimersi dal pensare. Ed è proprio questo il lato tragico del nostro tempo, l’abdicare il pensiero, il quale però «costituisce la grandezza dell’uomo»3 e la sua più intima dignità. «L’uomo non è che una canna – scrive Pascal – la più debole della natura; ma è una canna pensante»4.

Il divertimento, così com’è vissuto nel nostro tempo, concede una gioia temporanea. Non appena questa finisce, l’uomo ripiomba nella sua infelicità, nel suo vuoto, nella sua miseria. In tal modo, l’uomo non vive mai il presente, il solo momento realmente esistente. Non è mai contento di ciò che ha, ma è sempre proiettato nel futuro laddove si persuade sia posta la felicità. Ecco che l’uomo non vive veramente. Anche quando crede di farlo attraverso il divertimento, semplicemente spera di vivere, procrastinando la realizzazione di se stesso nel futuro.

Il divertimento è oggi la strategia maggiormente adottata per evitare di soffermarsi a riflettere sul mistero della propria esistenza, costantemente meravigliandosi di essa, interrogandola e indagando ciò che la circonda, come insegna il pastore errante del sublime Canto notturno di Leopardi.

Quanto scritto non intende pronunciare una condanna della dimensione ludica dell’umano, o della sua naturale necessità di abbandono. Si propone piuttosto come un’esortazione, un esplicito invito a meditare criticamente, circa le forme estreme del divertimento e del godimento, ormai divenute habitus e oggetto di vanto per molti uomini (sic!). Al fine di recuperare la peculiarità umana, che è quella di essere capaci di pensare. Perché attraverso il pensiero l’uomo supera la propria miseria conoscendola e riscopre il proprio valore morale. Solo così, riconoscendo il silenzioso dialogo con noi stessi, è infatti possibile la fondazione di un’etica che ci traghetti dalla “bella vita” ad una vita bella, inondata di significato nella sua più intima e misteriosa essenza.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1. A. D’Avenia, L’arte di essere fragili, Milano, Mondadori, 2016, p. 118.
2. B. Pascal, Pensieri, Milano, Edizioni San Paolo, 198712, pp. 179-180.
3. Ivi, p. 240.
4. Ibidem.

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Intervista a Eugenio Borgna: tra psichiatria e filosofia

Eugenio Borgna è primario emerito di Psichiatria dell’Ospedale Maggiore di Novara e libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università di Milano. Fra le più recenti pubblicazioni ricordiamo: Parlarsi. La comunicazione perduta (Einaudi 2015), L’indicibile tenerezza (Feltrinelli 2016) e Responsabilità e speranza (Einaudi 2016).
Ho l’occasione di incontrare il professore successivamente al suo intervento al Festival di Pordenonelegge. Si concede alle mie domande e ai microfoni dei miei due gentili colleghi e amici. Ci accoglie con la cordialità e la pacatezza dei gesti che lo contraddistinguono in ogni sua manifestazione, sia essa scritta o orale e con la coerenza di chi cerca di vivere i valori dei quali si fa portatore. Al termine di ogni domanda si sincera di aver esaudito le mie richieste. Una delicatezza autentica, di un uomo di grande cultura e profondità spirituale, che nella propria esistenza ha scelto di condividere la sua straordinaria sensibilità e umanità per avvicinare le ferite dell’anima ed alleviarne le sofferenze, attraverso l’ascolto, la comprensione e l’empatia.

Professor Borgna, nel suo ultimo libro Responsabilità e speranza lei afferma che «conoscere se stessi e gli altri è il modo più intenso di essere responsabili. Ma la vita è, insieme, proiezione di speranza». Può illustrarci quale rapporto intercorre tra responsabilità e speranza?

La speranza allarga la capacità che noi abbiamo di prevedere le azioni che esercitiamo sugli altri. Se la speranza non c’è in noi, vi è il rischio di esaurire il giudizio. Senza la speranza il futuro si chiude, si raggruma, si isterilisce. Finché la speranza vive in noi, come ha continuamente detto Leopardi, riusciamo a vivere. Senza speranza diventiamo delle monadi con porte e finestre chiuse, senza riuscire a intuire quello che c’è nell’animo delle persone. La speranza è memoria del futuro, è la premessa affinché si costruiscano relazioni umane autentiche fondate sulla corrispondenza, la concordanza e la pace; nonché la capacità di intuire, accettare e accogliere le nostre debolezze senza mai sottolineare e rimarcare quelle che sono le differenze negli altri.

Cerchiamo poi di cogliere il sorriso di un’anima anche quando le lacrime scendono senza fine. Ci sono lacrime che testimoniano un sorriso ancora più umano, ancora più creativo, ancora più capace soprattutto di oltrepassare le terrificanti barriere dell’odio, della violenza, del risentimento. La speranza va intesa come “nemica mortale” della violenza. Se si spera poi, si riescono a cogliere e intravedere scintille, apparentemente invisibili, che ci aiutano a dare un senso alla vita. Attraverso la speranza la nostra vita si fa più intensa, più capace di carità, di fede, più capace soprattutto di vivere e comprendere i dolori indicibili del sofferente. Senza speranza, potremmo anche essere giganti del pensiero, ma con i piedi di gesso.

Lo psichiatra Viktor Frankl sosteneva che l’uomo che non si proietta/progetta nel futuro facilmente smarrisce il senso della propria vita. Cosa ne pensa? E in che modo, secondo lei, la speranza ci apre al futuro?

Conosco molto bene i libri di Frankl. Credo che riescano a cogliere alcuni aspetti essenziali della vita dello spirito. Al contempo ritengo che lo psichiatra viennese sia però minato da quella che per me è stata la sua defaillance e cioè il pensiero di poter generalizzare situazioni, come quelle che lei mi ha descritto, che valgono solo in determinate circostanze e soprattutto con determinate personalità. Quindi, senza dubbio il pensiero di Frankl è un lume e una finestra aperta per uscire dai grovigli dell’egocentrismo e della solitudine. Tuttavia, eviterei di trasferire questa indicazione pratica e terapeutica in un sistema ideologico. Per cui, una tesi così secca come quella che lei mi ha espresso, non mi sembra sempre sostenibile. Riconosco comunque la qualità dei suoi scritti, tradotti anche dalla Morcelliana, che hanno senza dubbio un grande valore euristico.

In che misura la filosofia, e la fenomenologia in particolar modo, si sono integrate nella sua attività di medico psichiatra a diretto contatto con la sofferenza?

Come accade di frequente nella vita certe strade si aprono così, improvvisamente, senza che vengano direttamente cercate. Inizialmente io in clinica universitaria mi occupavo di neurologia, ma di casi di psichiatria ce n’erano pochissimi e venivano considerati come non degni di uno studio scientifico, come invece avrebbero dovuto essere tutti i casi di neurologia. Tuttavia, incontrando alcuni pazienti, ospiti in questa clinica famosissima, mi sono accorto che gli aspetti materiali, organici, cioè neurologici, mi interessavano relativamente, mentre mi interessava il risvolto interiore, cioè come quei pazienti vivevano i propri disturbi, le proprie malattie, i propri handicap, la propria disperazione. Da lì, quindi, ho seguito i pazienti che non avevano problemi neurologici specifici, ma che invece erano pazienti depressi e ansiosi. Quindi, non i grandi pazienti psicotici, cioè non schizofrenici, ma depressi, ansiosi, ossessivi. Ho capito che volevo seguire quella strada, altrimenti non avrei combinato niente, anche perché non ho grandi attitudini mediche pratiche, chirurgiche.

Inoltre, essendo uno dei pochissimi psichiatri italiani che conoscono il tedesco, ho potuto leggere, nel 1955, Allgemeine Psychopathologie, grande libro di Jaspers (scritto quando aveva appena trent’anni e che ancor oggi si studia), uscito nel 1913 in Germania e tradotto in Italia nel 1964. Jaspers a trent’anni si ammalava di tubercolosi e non potendo più fare lo psichiatra divenne filosofo. Uno dei grandi filosofi, che introdusse un nuovo parametro di conoscenza della psicologia sulla base delle idee fenomenologiche che erano state introdotte da Husserl prima e da Scheler dopo, per cui l’oggetto della psichiatria non sarebbe più stato il cervello, come oggetto neurologico, ma l’anima, cioè i sentimenti, le emozioni, i pensieri, i comportamenti che si possono riconoscere però soltanto se noi cerchiamo di metterci nei panni di chi soffre. Sembra la scoperta dell’uovo di Colombo, eppure questo concetto dell’einfuhlung, cioè dell’immedesimazione, ha davvero cambiato il mondo. Infatti, immergendoci e cercando di ricostruire la storia e le vicende della vita del paziente ci si è accorti di come avesse grande importanza nella cura anche il sentire come proprie queste sofferenze e il capire che non appartenevano ad un altro mondo, anche se espressione di esistenze lacerate e sofferenti; spesso dotate di qualità umane superiori a quelle che noi nella nostra umanità raggiungiamo.

Per esempio, Jaspers ha scritto un libro su Van Gogh, applicando per la prima volta anche nella storia dell’arte la categoria dell’immedesimazione per capire il motivo di questi particolari gialli del pittore olandese, questa sua schizofrenia, l’orecchio tagliato e l’esito del suicidio.

Il concetto stesso di speranza sembra oggi molto lontano dal vocabolario di adolescenti e giovani, che si confrontano con una società che spesso non crede in loro, se non a parole, e che è priva di ogni genere di certezze e stabili opportunità. Quale consiglio si sente di dare loro affinché non perdano la speranza nel futuro e in particolare in un futuro migliore?

Questo è un tasto molto delicato perché tendo, anche con i pazienti, a non dare consigli, tendo a non fare domande. Tendo, se ci riesco, a fare in modo che chi sta male, riesca a dire le cose che sente e se le sente, perché non sono un poliziotto come tanti psichiatri o psicologi che fanno domande in continuazione perdendo di vista il rapporto terapeutico e la relazione. Per cui, i consigli possono essere solo quelli che vengono dalla testimonianza, dall’esperienza, dagli studi e dai libri di alcuni importanti psichiatri o filosofi fra i quali Basaglia o Jaspers (pur nella complessità dei suoi scritti) o magari qualcuno dei miei libri relativi alla speranza.

Alessandro Tonon

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Dal cielo stellato alla filosofia

Concludendo la Critica della ragion pratica Kant scriveva: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me1. E a proposito della prima precisava: «La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata»2.

Queste righe sono indiscutibilmente fra le più celebri e suggestive del filosofo di Konigsberg. Esse non sono tuttavia un unicum all’interno della galleria filosofica e letteraria. Se infatti, come afferma Aristotele «gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia»3, questo significa che a destare stupore e smarrimento negli uomini, dalla notte dei tempi, ha contribuito certamente l’immensità della volta celeste.

Ecco che, proprio contemplando il cielo e lasciandosi stupire (talvolta intimorire?) dalla sua incomparabile bellezza, gli uomini hanno cominciato a riflettere su se stessi, sulla propria condizione mortale, sulla propria origine, sul proprio destino. Hanno cominciato a filosofare.

È dunque possibile affermare che, sin dalle sue origini, la filosofia mantiene una fedele partnership con il cielo stellato. Di più. La filosofia smarrisce il suo originario movente qualora perde il contatto visivo ed emotivo con la volta celeste.

Proprio in queste notti agostane, contemplando il cielo in attesa di alcune stelle cadenti, scorgo fra le costellazioni i versi di poeti e filosofi che riescono ad evocare stupore, paura, meraviglia e spaesamento di fronte all’immensità del creato, alla sua forza e alla sua fragilità, che convivono e si completano in una profonda armonia, che chiamiamo bellezza.

Osservo Vega, la contemplo. Ai miei occhi è immobile, si fa via via più luminosa. D’improvviso però alcune nuvole la imprigionano, oscurandola senza spiegazioni, ma altrettanto senza spiegazioni la liberano. Vega è certamente consapevole che la sua è un’emancipazione temporanea. Per questo ora esprime la sua libertà sfavillando più di prima. Passano pochi istanti, infatti, e un altro ammasso nebuloso la cela completamente. Questa volta la reclusione sarà più lunga. Provo stupore e tristezza. Mi si gonfiano gli occhi e mi si stringe lo stomaco. È proprio in questo istante che mi sovvengono i versi di Pessoa:

Ho pena delle stelle
Che brillano da tanto tempo,
da tanto tempo…
Ho pena delle stelle 4.

Decido di voltarmi alla ricerca di porti più stabili e sereni. Rivolgo il mio sguardo leggermente più in basso e ai miei occhi appare, con tutta la sua fragile e maestosa eleganza, la costellazione del Cigno. È molto grande e ben visibile. Nessun carceriere all’orizzonte. Per questo il Cigno può volare libero nell’aere, con la magnificenza della sua apertura alare. Lo contemplo a lungo ed egli sembra dirigersi verso di me. Provo un senso di pace e gioia, il mio respiro si fa via via più regolare. Le mie quotidiane preoccupazioni si ridimensionano e assumono tinte meno angoscianti. Ora sì. Ora colgo con profonda chiarezza il significato delle parole che Pavel Florenskij, scrisse ai figli nel suo testamento spirituale.

«È da tanto che voglio scrivere: osservate più spesso le stelle. Quando avrete un peso nell’animo, guardate le stelle o l’azzurro del cielo. Quando vi sentirete tristi, quando vi offenderanno, quando qualcosa non vi riuscirà, quando la tempesta si scatenerà nel vostro animo, uscite all’aria aperta e intrattenetevi da soli col cielo. Allora la vostra anima troverà la quiete» 5.

Con l’animo rasserenato dall’incomparabile delicatezza estetica del volo del Cigno, scelgo di cambiare nuovamente orizzonte e dirigo i miei occhi verso est. Eccola, sua maestà Cassiopea. Mi piace chiamarla la costellazione regina, per la sua forma che ricorda la corona di un’antica regnante. È luminosissima, come i brillanti incastonati nelle corone. Cassiopea è una sovrana insolita rispetto a quelle che abbiamo conosciuto nel corso della storia. Essa ha una presenza imponente, ma discreta. E’ luminosa senza essere accecante, perché sa stare al proprio posto, lasciando così ad ogni altra stella e costellazione la possibilità d’essere e brillare senza sentirsi inferiore. Osservando questa regina senza sudditi e piena di amici, comprendo l’essenza della parola “cosmo”, che in greco significa ordine, armonia, parità, rispetto. Già nel VI sec. a. C. Pitagora sosteneva che l’armonia interiore e quella relazionale degli uomini deve rispettare e imitare il supremo equilibrio del cosmo. Tuttavia, se ripongo lo sguardo e il pensiero sulla terra e i suoi abitanti, fatico a scorgere un tale equilibrio. Piuttosto che la parola cosmo, di cui parlavano i primi filosofi, mi sembra di vedere il caos, la voragine, l’abisso di cui parlava Esiodo nella Teogonia.

La profonda contraddizione che intercorre fra l’armonia del cielo e il tragico disordine degli uomini in terra, è protagonista di una delle aperture più intense e struggenti della storia della letteratura. L’inizio delle Notti bianche di Dostoevskij:

«Era una notte meravigliosa, una di quelle notti che possono esistere solo quando siamo giovani, caro lettore. Il cielo era così pieno di stelle, così luminoso, che a guardarlo veniva da chiedersi: è mai possibile che vi sia sotto questo cielo gente collerica e capricciosa? Anche questa domanda è da giovani, caro lettore, proprio da giovani, ma che Dio la faccia sorgere più spesso nell’anima tua!»6.

Lasciamo che l’incanto fecondi il nostro animo e attivi le nostre menti. Come Dante uscendo, finalmente, dall’Inferno, spalanchiamo una finestra sul cielo e con lui esclamiamo: «tanto ch’i’ vidi de le cose belle che porta l’ ciel, per un pertugio tondo. E quindi uscimmo a rimirar le stelle»7.

Alessandro Tonon

NOTE:
1. I. Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari, 1994, p. 197.
2. Ivi, p. 198.
3. Aristotele, Metafisica, tr. it. di G. Reale, Bompiani, Milano, 201412, p. 11.
4. F. Pessoa, Poesie di Fernando Pessoa, a cura di A. Tabucchi e M. J. De Lancastre, Adelphi, Milano 2013, p. 157.
5. P. Florenskij, Non dimenticatemi, tr, it di G. Guaita e L. Charitonov, Mondadori, Milano, 20113.
6. F. Dostoevskij, Notti bianche, tr. it di G. Gigante, Einaudi, Torino, 20142, p. 3.
7. D. Alighieri, La Divina Commedia, a cura di A. Marchi, Paravia, Milano, 2005, p. 328.

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La saggezza come antidoto alla disperazione

«Beato l’uomo che ha trovato la sapienza…»
Proverbi 3, 13.

Quante volte nel corso della nostra vita ci sentiamo in balia del destino? Quante volte ci sembra di naufragare di fronte agli eventi? Quante volte concludiamo di non aver alcun potere di modificare il corso della nostra storia personale?

Lo stoicismo e Seneca in particolar modo, suggeriscono che anche rispetto alle circostanze più avverse, anche di fronte a un destino ineludibile, l’uomo ha ancora una dimensione in suo potere: la saggezza. Seneca è maestro di saggezza e tutti i suoi scritti filosofici e letterari rappresentano un preciso itinerario verso la serenità.

Il filosofo romano definisce la grandezza d’animo di un individuo sulla base della sua capacità di sopportare con saggezza e serenità le avversità dell’esistenza. Tutto questo richiede un impegnativo e profondo percorso alla riscoperta della propria forza interiore. Un cammino che può condurre ad accettare serenamente gli eventi della vita, compreso l’avvenimento inesorabile per antonomasia: la morte. Per farlo occorrono: conoscenza profonda di se stessi, autocontrollo, imperturbabilità (atarassia) e distacco dalle cose materiali. Il saggio stoico è imperturbabile, completamente padrone di se stesso. Egli, come afferma Epitteto, desidera che accada ciò che accade e non ciò che desidera. Il saggio è incrollabile, rimane impassibile di fronte a ciò che gli giunge dall’esterno, non prova più alcun turbamento dell’anima.

Il carattere apparentemente inarrivabile dello stoicismo, nella vita quotidiana si colora di una profonda umanità, si avvicina all’esistenza del singolo, manifesta il suo carattere “terapeutico”, perché aiuta l’uomo a riscoprire che anche quando ci si trova di fronte ad un destino crudele e irreversibile, si ha ancora la possibilità di scegliere come vivere interiormente quel destino, con saggezza e serenità.

Seneca nei suoi scritti ci riporta costantemente a riflettere sulla nostra vita interiore, sulla nostra anima. Egli stabilisce che a contare è la qualità della nostra esistenza e non la quantità. Dove per qualità egli intende quella della nostra anima, della nostra esistenza interiore. Ed è proprio dalla disposizione dell’anima che dipende la qualità dei nostri giorni, dunque è da essa che è necessario ripartire per risanare la nostra esistenza troppo spesso ferita in modo straziante dagli eventi.

Nel De brevitate vitae Seneca sostiene che non è la quantità dei giorni a definire la lunghezza della nostra esistenza, quanto piuttosto il modo in cui la viviamo. La saggezza conduce alla tranquillitas (pace dell’anima) e colui che la raggiunge vive serenamente, in modo quieto, nulla lo condiziona, nulla lo influenza negativamente. Anche nell’oceano in tempesta la sua barca è ben ancorata e si mantiene stabile. Solo in questo modo si evita di essere corrosi dal pensiero del futuro e dalla paura della morte.

Vivere con saggezza significa vivere pienamente, non disperdere i propri giorni e le proprie energie in occupazioni e preoccupazioni vane, perché «in realtà, non è che di tempo ne abbiamo poco; ne sprechiamo tanto»1. Vivere, afferma Seneca, significa disporre «di ogni giorno come della vita intera»2. Solo in questo modo è possibile un’esistenza completa. La vita infatti sarebbe lunga ma l’essere umano l’accorcia dissipandola. Siamo proprio noi a renderla breve e ciò risulta evidente se pensiamo a quanto tempo impieghiamo ad accumulare denaro, ad abbandonarci a effimeri divertimenti e a passioni superflue di ogni genere. Seneca sostiene che la maggior parte degli uomini disperdono il proprio tempo perché «corrono solo dietro a faccende inutili»3. Per questo egli scrive che molti uomini sono rimasti a lungo su questa terra ma non hanno vissuto a lungo, sentenza da cui emerge, come ribadisce anche nelle Lettere a Lucilio, che non è la durata della vita che conta, ma l’uso che di essa ne viene fatto.

L’autore è consapevole che l’arte di vivere saggiamente è una lunga e faticosa conquista e per questo afferma: «per imparare a vivere ci vuole tutta la vita e, cosa ancor più stupefacente, ci vuole tutta la vita per imparare a morire»4.

Il segreto consiste nel desiderio e nella ferma volontà di conoscere i propri moti interiori e nel prestare ascolto alla propria coscienza. Agire secondo coscienza significa essere sempre presenti a se stessi. In ogni azione, in ogni espressione, in ogni decisione chiedersi il senso di quanto si sta compiendo, evitando, come capita ai più, di interrogarsi sulle proprie gesta solo dopo averle compiute. Anche in questo consiste la saggezza, celebrata da Seneca con le seguenti parole: «soli fra tutti raggiungono la vita serena coloro che si dedicano alla sapienza; sono i soli che sanno vivere»5.

Le molteplici difficoltà che attraversiamo nella nostra esistenza, esigono un rimedio efficace che parta dalla sorgente interiore presente in ciascuno. La saggezza è questo rimedio. Seneca asserisce che, quando non è possibile modificare gli eventi esternamente, è possibile risolverli e modificarli interiormente e questo dipende da come ci disponiamo verso gli eventi stessi.

Gli insegnamenti del saggio stoico vanno dunque riscoperti ed evocati come la possibilità esistenziale della serenità e della gioia. La vita vissuta con sapienza è un’esistenza piena e lunga, ove vengono riconosciuti il senso e la preziosità dei singoli istanti.

E a coloro che non vivono secondo sapienza, Seneca ricorda:

«Nessuno ti restituirà più  i tuoi anni, nessuno ti renderà un’altra vota a te stesso. La vita proseguirà lungo la strada per cui si è avviata, senza fermarsi né guardare indietro. E lo farà in silenzio, senza rumore, senza nulla che t’avverta della sua velocità […] correrà com’è partita il primo giorno, senza deviazioni né soste. Cosa accadrà? Tu sei affaccendato, ma la vita ha fretta: intanto arriverà la morte e per lei, tu lo voglia o no, il tempo dovrai trovarlo»6.

Alessandro Tonon

NOTE:
1. Seneca, La brevità della vita, tr. it. di G. Manca, Einaudi, Torino 2015, p. 3.
2. Ivi p. 33.
3. Ivi, p. 53.
4. Ivi, pp. 29-31.
5. Ivi, p. 69.
6. Ivi, p. 37.

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