Il valore della sconfitta

Bisogna saper perdere è il titolo di un singolo dei The Rokes cantato nel lontano 1967 in un anglo-italiano che in quegli anni spopolava tra i giovani della Beat Generation. Il testo è un invito alla riconciliazione tra due amici dopo una contesa d’amore finita con l’immancabile vincitore che consola lo sconfitto: «Quante volte, lo sai si piange in amore / ma per tutti c’è sempre un giorno di sole!».
Ascoltandola nel 2018, oltre all’inevitabile sorriso che strappa l’accento di Shel Shapiro, la canzone porta con sé un importante messaggio, quel titolo dal retrogusto esortativo che può essere applicato per sua natura a più livelli interpretativi, specialmente in campo sociale.

Quanti di noi considerano una sconfitta, un passo falso, come un aspetto negativo della nostra vita? Un’esperienza da non ripetere, un rimorso che ogni tanto bussa alle porte del nostro cervello proprio mentre cerchiamo di dormire, una malattia latente che spesso uccide nuove iniziative prima ancora della loro realizzazione.
Quanti di noi sono cresciuti con il timore del giudizio altrui? Forse non riusciremmo a tenere il conto.
E quanti hanno pensato, anche solo per un momento, che nulla avrebbe avuto più senso dopo quella tremenda delusione? Con dosi e in proporzioni differenti, ci siamo passati un po’ tutti.
Quante soluzioni possiamo mettere in campo allora per tentare di risolvere questo problema comune? Purtroppo non esiste una ricetta standard valida per lenire qualsiasi tipologia di sconfitta poiché dovrebbe essere compito di ciascuno trovare la propria cura, provando, tentando, fallendo.
Eppure negli ultimi anni stiamo assistendo a un lento estinguersi dei problemi, operato sia dalla gente comune sia dalle istituzioni.

I maggiori beneficiari di questa politica anti-problema sono gli appartenenti alle nuove generazioni a cui viene offerta la più ampia gamma di strumenti per affrontare al meglio le sfide, la vita e l’istruzione in modo da prepararli ad essere i buoni cittadini di domani. Si offre loro tutto… tutto, tranne la possibilità di crescere attraverso le sconfitte.
In passato i minori appartenevano, assieme alle donne, alla parte ‘debole’ della società e, complice una diversa sensibilità umana, risultavano privi delle più elementari norme riguardanti i loro diritti fondamentali, redatti e revisionati a più riprese a partire dal 1924 fino a giungere, solamente nel 1989, con la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia.
Tutto ciò è sacrosanto, ci mancherebbe, tuttavia credo sia arrivato il momento di chiedersi se dal riconoscere i normali diritti dei minori non si sia passati, magari impercettibilmente, a creare per loro un mondo d’ovatta, bello e pericoloso al tempo stesso.

Come potrebbe crescere, ad esempio, un bambino a cui viene regalato tutto, magari una promozione scolastica immeritata, un premio nonostante il suo comportamento irrequieto, un atteggiamento fin troppo conciliante – targato erroneamente come comprensivo: comprendere/capire non è sinonimo di perdonare – sebbene conduca una vita all’insegna della violenza, o peggio della droga?
Ancora, si parla di sensibilizzazione contro il bullismo nelle scuole, ma come lo si combatte se aumenta il giustificazionismo verso le “ragazzate goliardiche” compiute da giovani delinquenti in erba? I paradossi e le contraddizioni sembrano regnare incontrastati.
Qualsiasi tipologia di punizione viene recepita come traumatizzante, destabilizzante, distruttiva, oltre ai genitori che tendono a colpevolizzare l’insegnante pur di non ammettere l’evidente impreparazione beffarda dei loro sacri pargoli, ci si mette anche la legislazione istituzionale della “Buona Scuola” (legge 107/15) a rendere sempre più arduo il bocciare, il respingere, il non accettare.

A prima lettura la mia sembra una sadica difesa a tutto ciò che provoca delusione e sconforto, ma scrivo da “plurideluso” e “plurisconfortato”, ho sperimentato le conseguenze di più bocciature scolastiche, di esami non superati, di progetti falliti, eppure non avrei l’ardire di definirmi un sopravvissuto.
Certo, fa male, ma sono giunto alla conclusione che fa più male essere salvaguardati troppo, perché?
Provate a pensare, alla luce di quanto detto fino ad ora, quali pieghe potrebbe prendere la vita di un ragazzo che si è visto regalare tutto nel nome della sensibilità. Nel mondo degli adulti si aspetterà di trovare altri regali, altri vagoni di sensibilità, altre istituzioni che si preoccuperanno di alleviargli la colpa, tutte cose che nella realtà non esistono, o almeno non esistono per tutti.
Sarà allora che scoprirà di aver vissuto in un pianeta illusorio e si farà ancora più male, poiché orfano di tutte quelle esperienze, negative sì, ma capaci di formare e rafforzare il carattere; quando si cade da bambini ci si rialza, da adulti diventa un problema.

Non c’è soluzione quindi?
Ci troviamo davanti ad un aut-aut? O si soffre oggi o si soffrirà domani?
La sconfitta, che piaccia o no, è un ingrediente della nostra esistenza tuttavia possiamo scegliere di totalizzarla, e precipitare quindi nello sconforto, oppure trasformarla in insegnamento, affrontandola con serenità ammettendo i propri errori per evitare di compierli nuovamente.
In questo modo si saprà perdere senza farsi troppo male.

 

Alessandro Basso

 

banner-pubblicitario_la-chiave-di-sophia_rivista

Unione Europea: ognun per sé e Dio per tutti

Non è mia intenzione ammorbare quanti avranno voglia di spendere parte del loro tempo per leggere questa mia riflessione, con discorsi volti unicamente a distruggere – così come la moda attuale vuole – l’idea comunitaria che regge il sistema politico ed economico europeo nel quale viviamo. Esistono critiche costruttive lì da qualche parte, sovrastate dal mare di sfoghi collettivi anti-sistema che infiammano moltissime persone, urla incontrollate, j’accuse improbabili lanciati da politici altrettanto improbabili; esistono e sono nascoste molto bene.
Tuttavia esistono anche dubbi, forse sani, forse no, legati al concetto stesso di Unione Europea che d’altra parte, visti i recenti comportamenti tenuti dagli Stati nazionali in seno all’organizzazione, inevitabilmente sorgono anche nelle più positive intenzioni.

Cos’è l’Unione Europea?
La risposta è una sola: dipende.
Dipende se intendiamo l’Unione Europea così come ci è stata raccontata, come si presenta, oppure se vogliamo farci del male e riscoprirne definitivamente la natura.
Quando e perché è nata l’Unione Europea?
Un continente uscito con le ossa rotte dal secondo conflitto mondiale aveva capito che i moti di supremazia di un singolo Paese potevano creare danni ingenti a cose e persone, quindi la possibilità per risollevarsi e prosperare era racchiusa nella collaborazione tra Stati. Dallo scontro si era passati quindi al dialogo in modo tale da affrontare meglio un futuro che – con l’inizio del dualismo USA-URSS – non si presentava certamente roseo e felice.
Un po’ come si vede nei documentari di avventura, o nei film in cui i protagonisti si trovano in una situazione di precarietà e ognuno mette in comune i propri viveri, gli Stati europei nel 1951 misero in condivisione reciproca le materie prime più importanti: il carbone e l’acciaio, entrambe utili per il settore energetico ed infrastrutturale, dando vita alla CECA.
Il primo passo verso l’Unione Europea fu proprio questo: il libero scambio di merci.

Fatta questa premessa risulta abbastanza chiaro che le radici dell’Unione Europea sono economiche, che poi l’apertura dei confini abbia interessato altri settori è fuor di dubbio, ma è diretta conseguenza di una visione decisamente materialista e del resto non poteva essere altrimenti.
Un’altra domanda che sorge spontanea è la seguente: l’UE ha mai smesso di pensare ed agire in termini economici e materialisti?
Nel già citato dualismo USA-URSS in cui anche l’Europa faceva parte dei territori contesi, assieme ad Africa, America latina e Asia, fu necessario un ulteriore passo in avanti, questa volta non nella sfera materialista ma in quella psicologica. Per rafforzare il concetto di Europa dovevano essere creati gli europei, i cittadini che avrebbero dovuto emergere dalla condizione di subalternità alle super-potenze.
Senza voler favoleggiare segreti machiavellici, se volete creare un fronte comune “umano” contro qualcuno o qualcosa che appare invincibile, dovete prima di tutto coinvolgere altre persone e farle sentire parte di un grande progetto; del resto il motto «l’unione fa la forza» è sicuramente più motivante di un «se non mettiamo assieme le economie siamo spacciati».
L’apparato extra economico dell’Unione Europea, che comprende il mito di fondazione, la simbologia, le festività laiche ecc, è servito da panacea, da utile racconto per far ingerire lo sciroppo amaro del cinico materialismo. Non è nemmeno una novità, nel corso della Storia fu un processo già sperimentato in piccolo, specialmente nel Settecento quando si formarono gli Stati Nazionali.

Appurata la base materialista dell’UE, appurata la bella immagine che di sé ha costruito negli ultimi sessant’anni viene da chiedersi cosa non sta funzionando, quale ingranaggio si è rotto o allentato.
È sotto gli occhi di tutti infatti il comportamento tenuto dai singoli Stati nel delicato tema dell’immigrazione, comportamento che ha portato alla luce numerosi rancori, anche estranei a questo problema principale e vecchi antagonismi latenti da chissà quanti anni.

Il fenomeno migratorio attuale ci ha colti di sorpresa, poche persone avevano intuito cosa avrebbe raccolto l’Europa dopo secoli di sfruttamenti e tentativi, spesso fruttuosi, di controllare indirettamente le politiche interne dei Paesi nati durante la decolonizzazione (anni ’60 e ’70 del Novecento, quindi l’altro ieri); ciò ha messo a nudo la vera natura che è propria dell’Uomo: l’egoismo.
Gli esseri umani sono capaci di aggregarsi, di modificare l’ambiente per adattarlo meglio alle proprie esigenze, sono in grado di strutturarsi in gerarchie per controllare un determinato territorio, sono capaci di spingere i confini invisibili dell’ignoto, ma alla fine dei giochi, quando si tratta di reagire improvvisamente ad un elemento considerato pericoloso o dannoso, emerge puntualmente l’egoismo che può essere individuale, oppure – come nel caso in questione – nazional collettivo.

Diversi Stati facenti parte dell’UE nei mesi scorsi hanno letteralmente chiuso le loro porte lasciando il gravoso compito di gestire i flussi migratori ad altri Stati, quelli che la geografia e il fatalismo un po’ indotto hanno voluto porre proprio come prima tappa degli sbarchi.
Davanti a tutto questo, come potrebbe un cittadino qualunque, anche se disinteressato dalla polemica a priori contro le organizzazioni sovranazionali, non considerare il mito, lo storytelling legato all’Unione Europea, inutile e – se insistentemente riproposto – irritante?

Balbettare una retorica che sembra dilatarsi in modo inversamente proporzionale alla sua efficacia, quanto può contenere le opposte derive estremiste, quelle ultranazionaliste, che stanno ottenendo un buon successo elettorale?
Per quanto tempo, infine, potrà ancora reggere la credibilità di questa Unione Europea nata per sopperire alle difficoltà, se si lascia vincere proprio dalle nuove sfide del presente?

 

Alessandro Basso

 

banner-pubblicitario_la-chiave-di-sophia_rivista

Il machismo sociale

Si parla spesso di perdita di valori cristiani e laici, di smarrimento collettivo, si parla di una società che non sa più quello che vuole, persa dentro una follia stratificata negli anni figlia del benessere e del progresso. Si parla di sconfitta, di involuzione umana, punti di riferimento scomparsi nel nulla.
Le nostalgie si accavallano in una gara senza tempo e senza limiti, si gioca a tirare in ballo epoche mai viste, mai vissute, si urla e si battono i piedi senza tuttavia voler fermare per davvero un baratro sempre più apparente.

E la colpa? La colpa è del male che affligge i nostri tempi: il progresso agghiacciante che ha messo in discussione le solide basi del passato, delle classi dirigenti che – a quanto pare – fanno la gara per annientare il genere umano, oppure per sostituire le razze all’interno del famigerato Piano Kalergi.
Un insieme di cose che renderebbe felice qualsiasi aspirante scrittore dell’occulto.
La reazione a tutto questo si traduce in una nuova ricerca di riferimenti fissi: uomini forti, capitani di ventura, trascinatori di masse e nuovi profeti capaci di ristabilire lo status quo religioso. Il sogno di una società retta, legata nuovamente a quello che fu, dimenticandone improvvisamente tutti i difetti.
Tutto questo ha un nome: machismo sociale.

In cosa consiste?
La scintilla che scatena il proliferare di tale filosofia può scaturire dalla tendenza di tutelare le minoranze, in particolare quelle prive di alcuni diritti considerati attualmente fondamentali: libertà, emancipazione ed equiparazione.
Esempio pratico: un omosessuale ha gli stessi doveri di un eterosessuale (principalmente osservare le leggi e pagare le tasse), produce ricchezza al pari di un eterosessuale poiché anch’egli lavora e contribuisce alla crescita in un determinato settore dell’economia, eppure non ha gli stessi diritti di un eterosessuale perché sessualmente attirato da individui dello stesso sesso. Secondo molti dovrebbe vivere la sua relazione di nascosto, l’unione omosessuale non dovrebbe essere riconosciuta dalla legge e, a quanto pare, per garantire la corretta crescita di un individuo all’interno della comunità gli ingredienti fondamentali non sono l’educazione o l’ambiente sociale, ma la presenza di un uomo e di una donna.
Bisognerebbe denunciare allora tutte le risorse sprecate nel risolvere problemi sociali quali corruzione, delinquenza, criminalità organizzata, spaccio, furto, quando sarebbe bastato introdurre nella vita dei criminali – e introdurle preventivamente per scoraggiare i criminali di domani – una figura maschile e una femminile in modo da risolvere tutti i mali presenti e futuri.

Quando il governo inizia a interessarsi di tali materie, ecco manifestarsi il machismo sociale: ci sono problemi più seri di cui occuparsi, di questo passo si perderanno i valori cattolici che hanno costruito il mondo che conosciamo, i bambini non devono essere toccati, ci estingueremo in pochi anni e così via.
Se un argomento non tocca i propri diritti è evidente che ci sarà sempre qualcosa di più importante, ma tralasciando questo gli adepti del machismo, aggrappati a figure senza dubbio carismatiche, solitamente cercano di fare leva sugli altri tre punti sopraelencati.
Vediamoli assieme.

I valori cattolici vengono visti dai machisti come immutati e immutabili, nati ad un certo punto della Storia dell’Uomo e giunti fino a noi caldi caldi, appena sfornati; tuttavia l’istituzione della famiglia, il ruolo della donna e l’educazione dei figli – i pilastri presi spesso in esame – sono cambiati molto nel corso dei millenni, sia per l’influenza ricevuta dagli eventi (guerre, pestilenze, scoperte geografiche, progresso tecnologico ecc), sia per nuove consapevolezze nate naturalmente tra gli esseri umani per far fronte alle esigenze più immediate o per rispondere a prese di posizione di ampia portata (es. l’emancipazione femminile). Nonostante vi sia un nutrito manipolo di machisti che sogna ancora la sottomissione della donna, la cieca obbedienza dei figli e la famiglia nucleare apparsa per la prima volta nel dopoguerra e affermatasi negli anni ‘60, è del tutto normale che le creazioni umane – espressioni religiose comprese – subiscano mutamenti, tanto da rendere possibile in un futuro non così distante l’integrazione e il riconoscimento delle coppie omosessuali, parimenti a come avvenne per le unioni di individui etnicamente distanti, o appartenenti a classi sociali opposte.

Come già accennato, ogni individuo cresce e viene istruito da un gruppo più o meno ampio di persone, che possono essere i suoi genitori naturali o parenti, oppure i tutori, così come altri ambienti esterni a quelli casalinghi: scuola, università, luogo di lavoro. A influenzare ciò che sarà, ciò che diventerà una volta adulto sono due fattori: gli altri (l’ambiente sociale) e se stesso (le scelte indipendenti che compirà). Insegnare a un bambino il rispetto per il prossimo risulta più facile se vive in un ambiente dove si rispetta il prossimo, è l’educazione dell’insegnante a contare davvero qualcosa, la sua capacità di comunicazione, certamente non il suo orientamento sessuale o la sua passione per la meringata. Allo stesso modo, nonostante vi siano continue notizie di padri violenti e orchi che purtroppo impongono la maschia virilità sui loro stessi discendenti (e sulle loro mogli), contribuendo a dipingere uno dei quadri più distorti e infelici della nostra contemporaneità, sono gli omosessuali a essere comunemente associati a tale vergognosa pratica, come se fosse una loro peculiarità.

Sull’estinzione della specie umana invece c’è da riportare un ragionamento incongruente portato avanti dai machisti: il problema del calo demografico che caratterizza il nostro Occidente si aggraverebbe ulteriormente se concedessimo l’equiparazione legale ai matrimoni omosessuali. Pensiero ricorrente in diversi interventi di un noto presidente russo.
Non sarebbero quindi le fallimentari politiche familiari che scoraggiano gli individui a metter su famiglia ad essere la fonte del problema del calo demografico, ma le unioni omosessuali. La conseguenza più ovvia figlia di questo ragionamento è che se le impedissimo la gente comincerebbe a figliare come se non ci fosse un domani, o, ancora meglio, se proibissimo a due omosessuali di avere una relazione, questi cambierebbero la loro inclinazione così come ci si cambia d’abito, accoppiandosi con le donne e incrementando così il numero di abitanti.

Il risultato di questa analisi mostra quindi come i machisti siano semplicemente caduti come allodole nell’astuto gioco di specchi che prevede lo spostamento di attenzione verso altro, che nulla c’entra con i problemi principali se non dopo un’accurata costruzione di pregiudizi raccolti da un terreno già fertile di inesatte convinzioni. Infine, per solleticare le frivolezze più piccanti, è curioso notare che tra i cultori del machismo, contrari a tutto ciò che è differente, specialmente ai “froci”, sia l’affascinante e dirompente virilità dell’uomo forte a tirare più del carro di buoi e di qualche altro pelo in generale.

 

Alessandro Basso

 

banner-riviste-2022-feb

La banda dei buonisti inconsapevoli

Si aggira indisturbata ormai da anni, inerpicandosi e infiltrandosi nelle più nascoste intercapedini dell’informazione. Si mostra quotidianamente, in modo beffardo, sfidando la piazza – quella del web – con tutte le sue contraddizioni.
È una banda di profili dietro i quali vi sono persone che vivono in mezzo a noi, compiono le normalissime mansioni che la vita richiede, sono irriconoscibili a prima vista… si manifestano solo da ciò che seminano: commenti, ingiurie, grandi e inconcludenti sermoni.
La banda dei buonisti inconsapevoli non ha un’organizzazione alle spalle, non ha una struttura definita, gli affiliati non sempre sanno di appartenervi.

Avete presente il proverbio del bue che dà del cornuto all’asino? Ebbene, modificandone gli elementi e mantenendone intatta la forma loro sono i buonisti che danno del buonista al prossimo.
Com’è possibile, direte voi, che tante persone cadano in un paradosso simile?

Occorre entrare nel delicato mondo della cronaca nera, quello che piomba nelle nostre case attraverso telegiornali e social, in particolar modo quella cronaca nera legata alle violenze sessuali e agli omicidi in cui sono vittime le donne.
Occorre anche assistere all’epilogo di una notizia data in pasto all’opinione pubblica per veder materializzarsi la famigerata banda al completo.

Indignazione, rabbia, sentenze di morte, palchi di tribunale improvvisati, cataste di legna pronte per un nuovo rogo a Giordano Bruno, urla in formato scritto riassumibili con: crucifige crucifige!1
Tralasciando l’inopportuno volersi sostituire alla legge, sarebbe altrettanto ipocrita affermare di non provare rabbia davanti a fatti del genere e lo sfogo, entro certi limiti, è comprensibile.
Il problema sorge quando il giudizio della massa sconfina in ambiti non propriamente legati al fatto criminoso, poiché diretti ad altre persone nella ‘piazza’, quelle che inizialmente scelgono di tacere, di non esprimere un’opinione a loro avviso troppo frettolosa, coloro che attendono dettagli più consistenti rispetto ad una freschissima breaking news.
Persone che prima di sentenziare si chiedono perché, scavando alle origini sociali del male per trovare, forse invano, una possibile verità.

Questa attesa, questo voler scavare più a fondo, è visto con sospetto.
Viviamo in un mondo che vuole tutto e subito; molti poi, nutrendosi di assoluti, pongono la gente davanti a bivi: o sei con noi o contro di noi / o condanni il gesto, oppure sei amico dell’assassino.
Un buonista insomma.
Complicità, sostegno, addirittura sadico piacere nelle disgrazie altrui, queste sono le accuse mosse a chi stona dal coro delle ingiurie… se il colpevole del fatto criminoso è straniero. Se è italiano, beh, le cose cambiano e parecchio.

Gli assetati di giustizia “fai da te”, davanti ai crimini di un italiano, diventano spesso i veri buonisti di questa triste storia. Le accuse mosse ai prudenti, diventano improvvisamente virtù: l’attesa, il capire meglio, la presunzione di innocenza fino-a-prova-contraria nei confronti del reo.

«Era… rimasto senza benzina. Aveva una gomma a terra. Non aveva i soldi per prendere il taxi. La tintoria non gli aveva portato il tight. C’era il funerale di sua madre! Era crollata la casa! C’è stato un terremoto! Una tremenda inondazione! Le cavallette! Non è stata colpa sua!»2.

E lo stupro di un homo italicus ai danni di una donna? Il «se l’è cercata» balza agli occhi in molti commenti, ferisce e dilania – per due volte – la dignità della vittima e anche di chi legge, di chi è madre, di chi è donna, di chi crede nel rispetto reciproco.
Il reato cade, cade la sua efferatezza, cade la malattia che lo provoca, rimane il giudizio impietoso del colore della pelle. «Si può sapere la nazionalità?» precede di gran lunga il «come sta la ragazza?».
Le accuse al giornale che cela inizialmente le generalità del criminale sembrano voler chiedere indicazioni sul comportamento: dicci in fretta che dobbiamo sapere se giustificare o reclamare la testa.

La banda dei buonisti inconsapevoli ha fame, vive aspettando il macabro spettacolo degli orrori, arroccata ai suoi leader eletti a rappresentanza le cui autorevoli voci legittimano tutte le altre.
I pessimi esempi crescono, si fanno forza e vomitano tutta la loro inconfondibile assurda contraddizione.

 

Alessandro Basso

 

NOTE: 
Jacopone da Todi, Donna de Paradiso, verso 28, XIII sec.
Citazione modificata presa in prestito dal film “The Blues Brothers”, USA 1980.

[immagine tratta da google immagini:
Antonio Ciseri “Ecce homo”, (pre 1891), dettaglio, Galleria di Arte Moderna Palazzo Pitti, Firenze.]

 

banner-pubblicitario-abbonamento-rivista-la-chiave-di-sophia-03-03

Il complesso del balcone: su regimi e dittatVre

Argomento delicato – delicatissimo – quello sulle dittature, forme di governo dalle origini antiche e sempre presenti da qualche parte nel mondo, quindi sempre attuali. Il regime assolutistico su cui si poggiano è insieme spauracchio e feticcio, incubo e sogno, nostalgia e volontà di oblio. In seno al suo contraltare – la democrazia – sembra non esserci spazio per parlarne approfonditamente senza scadere in un elogio o in una condanna a priori. L’errore più frequente è quello di accomunarle tutte sotto lo sguardo miope del buon occidentale, raccogliendole nel contenitore delle cose brutte del mondo; mentre quello più evidente è tesserne le lodi senza conoscerne i risvolti più quotidiani.

Perché chiamarlo ‘complesso del balcone’?
Si tratta di un insieme di cose, anche contrastanti tra loro, che formano un complesso appunto, un ginepraio di costrutti sociali che si differenziano geograficamente e culturalmente. Il balcone invece è una metafora – e in certi casi una vera concretizzazione – che identifica una netta separazione tra la rappresentazione del potere: il dittatore, e l’elemento su cui il potere viene esercitato: la massa, il popolo.

Esistono quindi delle costanti che incontriamo in tutti i regimi dittatoriali e la prima è appunto la piramide sociale: il dittatore al vertice, il popolo alla base e nel mezzo l’insieme di funzionari/militari nominati direttamente dal dittatore. La seconda costante è la gestione del potere: il dittatore assume il ruolo di monarca assoluto – tra il 1976 e il 1977 il feroce Jean-Bedel Bokassa seguì alla lettera tale passaggio, poiché trasformando la Repubblica Centrafricana in Impero lui divenne imperatore, calcando le orme di un lontano Napoleone – mentre il culto della personalità assume proporzioni quasi religiose, basti pensare alla Corea del Nord retta dalla dinastia dei Kim.

I punti in comune terminano qui, tutto il resto è differenziato in termini culturali.
Noi occidentali poniamo la dittatura generalmente sotto una luce negativa perché annienta la libertà individuale e collettiva (libertà di stampa, di parola, di credo ecc), e tendiamo a fare la stessa cosa per tutti i regimi del pianeta; si tratta del nostro inguaribile eurocentrismo – o “occidentalcentrismo” – che ci porta a credere in un concetto assoluto di libertà. Essa invece è variabile, o meglio, i valori da cui è composta vengono posti in piani differenti sia dal singolo individuo sia da un insieme di più individui: una società.

Se per noi occidentali nei primi due o tre posti della scala dei valori fondamentali ci sono la libertà di pensiero e la libertà di stampa (legata all’informazione), per un pastore siberiano potrebbe esserci la libertà di movimento in un territorio molto vasto mentre per un abitante delle isole Trobriand potrebbe esserci la libertà di accumulare cibo senza doverlo necessariamente consumare.
Con i dovuti riguardi, funziona quindi come se parlassimo di preferenze personali: se per me leggere un libro è sinonimo di libertà, per qualcun altro potrebbe essere correre, pescare, disegnare e così via.

Concretizzando: chi dovesse sopprimere la libertà di caccia, verrebbe giudicato negativamente dai siberiani, ma gli europei, che poco si interessano di nomadismo e altrettanto poco sentono la caccia come bisogno primario, probabilmente considererebbero virtuoso sia il divieto sia chi lo ha promosso.
Al contrario chi dovesse sopprimere la libertà di stampa, sarebbe oggetto di critica nel mondo occidentale, mentre in Siberia passerebbe come una legge qualsiasi che nemmeno sfiora l’interesse comune.
Ne consegue che se per noi occidentali i dittatori sono figure negative, per qualche altro popolo potrebbero essere ‘normali’ se non addirittura positive.

Il condizionale è d’obbligo, prima di orientare la nostra opinione nella classica esaltazione dell’uomo forte, o nel nostalgico ricordo di un regime scomparso svariati lustri antecedenti la nostra nascita (è un po’ come provare nostalgia per il buon vecchio Annibale… mai visto né conosciuto), ma anche prima di condannare, senza se e senza ma, un regime che molto probabilmente è l’unico elemento capace di tenere assieme un Paese, servirebbe sviluppare una capacità critica più distaccata, non per pontificare all’infinito su temi triti e ritriti, ma per comprendere meglio ciò che sta accadendo attorno a noi, al nostro Paese, alla nostra collettività.

Alessandro Basso

 

banner-pubblicitario_abbonamento-rivista_la-chiave-di-sophia_-filosofia