Socrate è stato il primo boomer?

Con questo pezzo si inaugura una piccola rassegna di profezie filosofiche. Sì, perché i filosofi sanno essere profetici, a modo loro: talora di sventure, talora di avventure, ma più spesso dell’ambigua tensione tra entrambe che caratterizza le grandi svolte storiche.

Questo è per esempio il caso di Socrate, che – diciamocelo! – oggi figurerebbe come il prototipo del boomer. Infatti, circa 2500 anni or sono, questo borghese figlio di un’ostetrica e di uno scultore puntava il dito contro le nuove ICT1 di massa che sconvolgevano la vita dell’amata Atene, della Grecia stessa e persino dell’intera umanità. Aveva dunque captato la potenziale disruption a cui l’umanità stava andando incontro a causa dell’interazione con una tecnologia digitale innovativa come non mai. Le perplessità di Socrate erano grossomodo di questa natura2:
1) appoggiarsi a server esterni di informazioni avrebbe rappresentato una ricetta per la smemoratezza: se la macchina ricorda al posto tuo, tu smetterai farlo;
2) permettere di riprodurre e avere accesso alle informazioni in maniera universale e immediata avrebbe favorito la fruizione superficiale dei contenuti, piuttosto che una loro genuina interiorizzazione: se la macchina sa al posto tuo, tu smetterai di apprendere, concentrarti e andare in profondità;
3) la circolazione indiscriminata e libera di masse di informazioni decontestualizzate e impersonali avrebbe sancito la fine del genuino dialogo faccia a faccia e dei processi di verifica in prima persona: se la macchina risponde al posto tuo, tu smetterai di interrogar(ti), dunque non ti renderai più conto di quello che non sai – non saprai più di non sapere e finirai in una bolla.

Ora, il fatto rilevante è che Socrate si riferiva non a GoogleMaps, Wikipedia, Alexa, ecc., ma a quella che potremmo definire come la prima forma di AI nella storia umana, grazie al cui codice il flusso analogico dell’esperienza veniva spezzettato e compresso in unità variamente combinabili e interscambiabili, ossia veniva trasformato in un algoritmo potenzialmente universale: si tratta della scrittura alfabetica. Proprio così! Infatti, secondo Socrate, con l’alfabeto la «parola viva» diventava «morto discorso» che «si diffonde ovunque», composto da elementi che «sembra che siano intelligenti»: «fidandosi della scrittura», finirà che essa «impianterà la dimenticanza» nelle menti e le persone diventeranno come «rotoli da papiro» incapaci di «rispondere e a loro volta porre domande», ossia di apprendere e pensare.

Oggi viene da sorridere, ma non semplicemente perché l’alfabeto è diventato ovvio, normale, banale, e così via; c’è qualcosa di più radicale: oggi l’atto stesso del pensare logicamente, criticamente, riflessivamente e autonomamente consiste anche nel saper leggere, analizzare, comprendere e interpretare testi e sottotesti. Ma non solo: l’esistenza della democrazia, della consapevolezza di sé e degli altri e persino della consapevolezza della consapevolezza stessa sono frutto dell’interazione con la scrittura alfabetica, della sua letterale incorporazione. In poche parole, la scrittura alfabetica non solo non ha ucciso la nostra “anima”, ma le ha anzi dato forma – la ha informata: grazie a essa, sappiamo di non sapere.

Ciò è vero al punto che, nella nostra epoca, il problema diventa che le nuove ICT starebbero minacciando l’insieme dei processi cognitivi tipici dell’attitudine da «lettura profonda», fatta di tempi dilatati, di abilità ricorsive, di capacità di coniugare divisione e connessione e di prontezza nel fare inferenze e trarre conclusioni: analisi, sintesi, riflessione, immaginazione, astrazione, empatia, contemplazione, concentrazione, giudizio, organizzazione, codificazione, documentazione, classificazione, interiorizzazione, e così via. Ci ritroveremmo quindi a sviluppare una vera e propria «mente da cavalletta», che saltella e svolazza senza una vera direzione – senza un senso vero e proprio. C’è davvero dell’ironia in tutto ciò: Socrate si lamentava che l’alfabeto avrebbe rovinato la nostra mente (orale), mentre oggi ci si lamenta che la rete starebbe rovinando la nostra mente (scrivente).

Siamo quindi passati dal timore o convinzione che la scrittura ci renderà stupidi (perché ormai incapaci di ascoltare/parlare) al timore o convinzione che il web ci renderà stupidi (perché ormai incapaci di leggere/scrivere). Ieri i “professori” si lamentavano che i giovani non dialogavano più perché distratti dalla carta; oggi invece si lamentano che i giovani non riflettono più perché distratti dallo schermo. Che cosa capiterà con le AI odierne è difficile saperlo e ancor di più ipotizzarlo in poche parole; ma una cosa potrebbe sembrare certa: nel bene e nel male, ogni epoca ha i suoi boomer. E tu, quanto ti senti socratico?

 

Giacomo Pezzano

NOTE
1. Information and Communication Technologies.
2. Espresse principalmente in Platone, Fedro, 274d-275d e Protagora, 329a, una cui eccellente rilettura contemporanea è in M. Wolf, Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge, Vita e Pensiero, Milano 2009, soprattutto pp. 59-87. Le citazioni successive sono tratte da queste opere.

[Photo credit Milan Fakurian]

la chiave di sophia 2022

Manuale di sopravvivenza all’apocalisse robot

Domanda a bruciapelo:

“Chi sei?”

Non vale rispondere con nome e cognome.
Né per automatismo, né per tentare di delegare la risposta al proprio profilo Facebook,  scansando lo sforzo di pensarci e distraendoci con le foto della Tailandia in bacheca.

Per rispondere prova a cercare qualcosa in più:
Cosa sceglieresti per rappresentare quello che fa di te ciò che sei?

Se incontri una persona mai vista prima, è dura non notare prima di tutto i dettagli più superficiali. Allo stesso modo potresti fare tu mentre ti muovi verso “te stesso”. Soffermarti sulle caratteristiche della tua figura, il tuo stile nel vestirti. O andare un poco oltre: potresti descrivere le peculiarità dei tuoi movimenti. Sei vittima della goffaggine oppure agile, elegante? I tuoi gesti affermano un certa fiducia e sicurezza, o tradiscono la tua timidezza? E via continuando verso dettagli meno evidenti al primo sguardo. Potresti raccontare il tuo carattere. O le tue abitudini. I tuoi pregi o le tue nevrosi. La tua storia, passata e progettata, ricordi e sogni.
Pezzo dopo pezzo si costruisce una tua immagine, una tua rappresentazione, che cerca di essere autentica e aderente al reale. A quello che sei, ma che magari non sai, che non è facile raggiungere fino in fondo, completamente. Un figura in cui specchiarsi, rigirando e rivoltando il proprio profilo, cercando di capire come siamo e appariamo, possibilmente trovando il lato migliore.
Non è facile scegliere se tra queste c’è qualcosa che ci rappresenti in modo essenziale. Forse in misura diversa tutte insieme collaborano a renderci quella creatura che spesso frettolosamente etichettiamo e riconosciamo grazie a un nome e un cognome.

A volte finiamo per conoscerci meglio se abbiamo la possibilità di riconoscerci negli altri. Individuando qualcosa che ci risuona in coloro che appaiono simili a noi per questa o quella caratteristica.

Ci rispecchiamo in “qualcuno”, e ci rivediamo attraverso di lui.

Ma se invece cominciassimo a trovare ulteriori e sempre più frequenti similitudini con “qualcosa”?

L’avanzamento delle tecnologie robotiche prosegue senza sosta, e i suoi prodotti si rinnovano, si aggiornano e progrediscono.
Gli automi rinascimentali suggestionavano le corti mimando l’apparenza umana. Cavalieri meccanici che riproducevano i movimenti dell’uomo. Meraviglia in chi li osservava e stava al gioco dell’artificio teatrale. Ma poco più di una marionetta per chi riusciva a guardare al di là dell’armatura e scorgeva nell’ingegno del meccanismo un guscio vuoto d’anima.

Da allora robot e androidi si sono evoluti in molte forme, emulando caratteristiche umane, spesso migliorandole. Si pensi a tutti i compiti che richiedono un movimento ripetitivo e programmabile: più forti, più precisi, più rapidi.
Una somiglianza superficiale, che ci fa comodo e ancora non disturba. Anzi. Avere un doppio che ci sostituisce è intrigante. Il termine robot deriva proprio dal termine ceco robota, che significa lavoro pesante o lavoro forzato.

L’evoluzione scientifica è continuata, e a diventare meccanica è stata l’intelligenza. Qualcosa che è di consuetudine attribuito alla sfera dell’interiorità e della soggettività.
Intelligenza artificiale.
E le sue possibilità forse complicano le cose.

Macchine che parlano, reti neurali artificiali che elaborano informazioni, parole e immagini sino ad arrivare a riprodurre facoltà di stampo creativo. Le macchine, le “cose”, invadono il nostro territorio insomma, il campo di quelle possibilità una volta ritenute esclusiva dell’homo sapiens.
E che ne è dunque di quella marionetta vuota?
Impara a muoversi, a percepire l’ambiente circostante, a parlare il mio linguaggio e comprendermi. Si relaziona con me in modo sempre più realistico, analogico, umano. Mi somiglia sempre di più. Portandosi dietro quel vuoto di macchina, vuoto che rischia di risucchiarmi.
L’immaginario della fantascienza spesso ci ha raccontato un futuro apocalittico di terminator robotici che porteranno la distruzione per il nostro mondo di persone. Ma più che una battaglia campale tra agguerrite IA e soldati in carne ed ossa parrebbe che lo scontro avvenga sul piano concettuale. Più etereo, subdolo, inconsapevole.

Gli oggetti diventano riflesso dei soggetti, privandoli poco a poco dell’unicità rispetto a ciò che tradizionalmente li caratterizza. E lasciano ben poco in cui riconoscerci, conservando una sostanziale diversità dai macchinari. Cosa ci caratterizza in quanto umani? Cosa mi differenzia da quella marionetta vuota di coscienza?

“Chi sei?”

Sicuramente qualcuno che ha molto in comune con quella marionetta. E osservandola potrei addirittura imparare qualcosa di più su come “funziono”. E utilizzare quelle nuove conoscenze come base per costruire nuove domande. Senza esaurire la ricerca, per scoprire qualcosa di più.

“Chi sei?”

La tua apparenza, i tuoi pensieri. La tua capacità di imparare, ricordare. Il modo in cui ti relazioni con gli altri. I tuoi gesti, il tuo lavoro. E anche qualcosa di più.

Qualcosa di più.
È questo lo spazio in cui andare a cercare, per salvarsi dall’invasione dei robot.

 

Matteo Villa

P.s.: nel frattempo possiamo rassicurarci con qualche esempio di “stupidità artificiale”

 

banner-pubblicitario-03