Linguaggio e realtà: due dimensioni, un unico significato

Soli tra tutti gli animali, gli esseri umani hanno la capacità di capire, di parlare e di servirsi del linguaggio in infiniti modi. Non ci stupisce quindi che l’esplorazione sistematica del linguaggio sia un’impresa a cui partecipa una moltitudine di studiosi – lessicografi, grammatici, glottologi, psicolinguistici, neuroscienziati – e di discipline: la fonetica, la fonologia, la filologia, la sociolinguistica, fino alla filosofia del linguaggio.

La riflessione filosofica riguardante il linguaggio percorre oramai duemila anni di storia: pensiamo al Logos (discorso), tema fondante nella ricerca fisico-speculativa, quando ancora la filosofia si esplicava in frammenti e trasmissioni orali. Termine che possiamo intendere come un contenitore di concetti dal linguaggio al ragionamento, dal pensiero al metodo.

In un passo famoso delle Confessioni, Agostino nel V sec d.C. espone, a differenza dei suoi precursori, un’immagine per quanto possibile sistematica del processo di apprendimento del linguaggio. Quando gli adulti “nominavano qualche oggetto e, proferendo quella voce, facevano un gesto verso qualcosa, li osservavano e ritenevano che la cosa si chiamasse con il nome che proferivano quando volevano indicarla1“.  Pur senza essere una vera e propria teoria del significato, questo passo delinea chiaramente una possibile soluzione al problema: le parole del linguaggio denotano oggetti e gli enunciati sono connessioni di tali denotazioni. Il significato di una parola è dunque l’oggetto per il quale la parola sta.

Per milletrecento anni la filosofia sembrò che avesse dimenticato la riflessione sul linguaggio, relegandola a discapito dell’essere, della teologia e nel Seicento del metodo scientifico. Solo a partire dall’Ottocento con il lavoro di Gottlob Frege, logico e matematico noto all’epoca, si inaugurò la filosofia del linguaggio contemporanea. Con il suo lavoro Agostino fu superato: se infatti il rapporto con l’oggetto denotato esaurisse il significato di una parola, allora non riusciremmo a spiegare certe differenze evidenti tra enunciati con diverso valore informativo. Di qui la necessità di riconoscere che le parole non hanno solo un rapporto di denotazione, denominazione e riferimento. Frege si chiederà se davvero il valore delle parole si riduca al loro significato, inteso come rapporto con l’oggetto denominato o se, al contrario, non sia indispensabile tenere conto anche del senso che esse esprimono.

La stessa concezione freghiana risulterà però non priva di problemi: da Russell a Quine, da Carnap a Wittgenstein, da Putnam a Kripke, essa sarà al centro di una serrata critica volta per alcuni a riconquistare la semplicità dell’immagine agostiniana, per altri a elaborare una visione nuova del rapporto tra linguaggio e realtà. Uno fra tutti fu Wittgenstein, presentato di solito come l’iniziatore di due importanti correnti della filosofia del Novecento: il Neopositivismo e la Filosofia del linguaggio ordinario. Ironia della sorte sia Wittgenstein che Agostino furono due figure di spicco della filosofia del linguaggio, senza definirsi tali.

L’obiettivo da Frege in avanti fu la ricerca di una teoria del significato che potesse allontanare l’uomo da errori e imperfezioni del linguaggio comune, cercando di unirlo alla realtà in un’unica dimensione. Così pure Russell, forte critico di Frege ma a lui legato dalla rinnegazione dell’immagine agostiniana del linguaggio.

Wittgenstein invece provò un’altra via: senza rifiuto o accettazione mise Agostino come sfondo e non cercò una teoria del significato bensì un metodo d’indagine (anche se non sempre la pensò così). Possiamo infatti parlare di due Wittgenstein: uno del Tractatus Logico Philosoficus (1921) e un secondo delle Ricerche filosofiche (1956). Quest’ultima opera rappresenta la summa dei concetti qui esposti.

Nelle Ricerche filosofiche cercherà di mettere in discussione certe assunzioni generali che, a suo giudizio sottostanno a un’unica famiglia di teorie di significato. Nel linguaggio esistono diverse funzioni delle parole, svariati modi d’impiego delle espressioni, e mostra come esse non possono essere classificabili sotto un’unica rubrica onnicomprensiva. Nel tentativo di dissipare queste tendenze generalizzanti, Wittgenstein conia l’espressione gioco linguistico e forma di vita. Esistono molteplici impieghi delle frasi, ossia varietà di atti linguistici.

Una volta affrontato il tema del proferimento, discusso da molteplici pensatori nei modi più svariati, è importante anche chiedersi come possa avvenire la comprensione del linguaggio e come essa dovrebbe essere descritta. Il comprendere andrebbe concepito – secondo Wittgenstein – come un’abilità, un saper fare, la padronanza di una tecnica che presupponga l’esistenza di una pratica sociale, addestramento ed esercizio. Ha in sé dunque il suo funzionamento.

Wittgenstein cercherà quindi, tramite una contorta rete di somiglianze, di individuare l’elemento di identicità nella differenza all’interno dell’atto linguistico. Ad esempio, tanti sono i giochi con diverse regole e funzioni, ma cos’è che li rendono giochi? Qual è il loro rapporto di condivisione? Bisogna, sostiene Wittgenstein, stabilire un equilibrio nel funzionamento della lingua, verificare con il mondo la veridicità del riferimento e dell’uso dell’atto linguistico così che possano andare assieme.

Siamo distanti dalle posizioni di Frege o di Russel, abbiamo come sfondo Agostino ma siamo ancora lontani da una teoria o esplicazione di che cosa sia il linguaggio e di quale possa essere la sua funzione e condizione di verità. Gli oppositori allo stesso Wittgenstein saranno molti, primo tra tutti Chomsky.

Quello che a noi rimane è la tendenza contemporanea a unire gli sforzi, tramite la specializzazione del sapere: neurobiologia, filosofia, psicologia, sociolinguistica – tutte discipline orientate allo studio di componenti diverse, ma con un unico obiettivo: c’è unità tra realtà e linguaggio, tra l’umano e il mondo? Siamo nel vero o nel fittizio? Siamo noi a determinare le cose e non le cose a plasmare noi?

 

Simone Pederzolli

 

NOTE
1. Agostino d’Ippona, Confessioni, BUR, Roma, 2006, p.58

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L’influsso materno. Due madri nella storia della filosofia

Oggi sappiamo che opere come Essere e tempo di Heidegger o Così parlò Zarathustra di Nietzsche non sarebbero quelle che sono senza l’influsso che alcune donne ebbero su di loro nei periodi di scrittura e di pensiero delle loro opere fondamentali. Nel caso di Heidegger fu la giovane Hannah Arendt ad aver favorito un flusso creativo potentissimo e ad aver fornito al filosofo tedesco l’ispirazione e le energie giuste per poter chiarire quei pensieri. Nietzsche fu più sfortunato, forse, e non ricambiato dall’amore per l’affascinante Lou von Salomè, entrò nella una crisi depressiva che lo condusse al Così parlò Zarathustra.

Quando però si parla di grandi donne dietro grandi uomini, non dobbiamo pensare solamente alle grandi amanti. Molto spesso nella crescita e nella formazione di un pensatore ha infatti influito l’educazione che la madre ha scelto per il proprio figlio e le abitudini che cerca di trasmettergli.

Alcuni casi noti ed emblematici possono essere quelli delle madri di Agostino o di Schopenhauer. La prima, Monica, rimase accanto al figlio già nei momenti di maggior perdizione e confusione di Agostino, ancora ben lontano dalla speculazione filosofica e dal percorso religioso. Cresciuta in un contesto sociale elevato, ebbe la possibilità di studiare e avvicinarsi al cristianesimo. Le violenze psicologiche di un marito burbero e le apprensioni inflitte dal giovane Agostino turbarono l’animo di Monica senza però farla desistere nei suoi intenti amorevoli. La preoccupazione di quella donna per le future sorti del figlio scapestrato e la certezza che una buona educazione e lo studio avrebbero potuto essergli salvifiche, le fece decidere di seguire fisicamente il figlio dal caldo Nord Africa fino a Roma e Milano, venendo in un primo momento addirittura raggirata da Agostino e lasciata in terra africana, mentre il figlio si imbarcava verso ambiziose mete. Nel percorso formativo del giovane Agostino lei gli fu però sempre accanto, facendogli da mentore, da supporto e da aiuto e divenendo poi la figura centrale per il figlio, sino ad oggi riconosciuta. Le Confessioni ricordano ed elogiano Monica ripagandole in qualche modo le fatiche sopportate a lungo.

Secoli dopo, nella Prussia di fine settecento, il bambino che sarebbe divenuto il noto Arthur Schopenhauer attendeva di sapere cosa sarebbe diventato. Cresciuto in una famiglia agiata e colta, una volta scomparso il padre e tramontate le necessità che anche Arthur facesse il commerciante, fu la madre non solo a crescere ma a educare il giovanissimo Schopenhauer raffinando la sua sensibilità ed esercitando la sua interiorità (come ricorda l’episodio della morte di un amico d’infanzia del figlio, dopo il quale la madre invitò il piccolo Arthur a pensare quanto prima alla caducità dell’esistere)1. Sin da adolescente, la madre di Arthur, Johanna Henriette Trosiener, gli consigliò di tenere un diario, di studiare i classici e sviluppare il pensiero autonomo e la scrittura, abitudini che Schopenhauer non abbandonerà fino alla morte. La madre era scrittrice2, era dotata di una spiccata sensibilità letteraria e amava dunque i salotti letterari, tanto da istituirne uno lei stessa, frequentato da niente di meno che dai fratelli Schlegel, da Wieland e da Goethe, che diventerà una presenza fondamentale per la filosofia schopenhaueriana. Le indicazioni, i consigli e la cura di Johanna confluirono nel creare un autore di portata enorme per la cultura occidentale, al pari della paziente – e non a caso santa – Monica.

Queste madri hanno trasmesso ai loro preziosi figli un’eredità ineguagliabile: quella della quotidiana vicinanza, del simbiotico scambio di valori e conoscenze, della costituzione di un’autostima e di una forza necessarie a qualsiasi pensatore. Quelle eredità rimangono oggi perlopiù sottovoce e sono spesso dimenticate, ma se è vero che le amanti nelle vite dei grandi uomini assumono il ruolo dei temporali per la natura – rinfrescano, ristorano, nutrono, scuotono, rinnovano – è altrettanto vero che sono le madri a permettere loro di rimanere fedeli al loro essere, di poter poggiare su fondamenta solide. Le madri, volendo continuare con le metafore, hanno costituito spesso il terreno dei pensatori. Il loro essere ha permesso che i figli imparassero a contare sulle proprie forze, a perseguire i loro scopi anche in mezzo alla solitudine o alla difficoltà, a fare propria l’interiorità creatrice che nasce su una sensibilità differente dalla pura ratio o dalla semplice abilità nel fare qualcosa.

 

Luca Mauceri

 

1. Nota biografica, in A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Einaudi, 2013, p. CVII.
2. Ibidem.

[In copertina: dettaglio opera di G. Klimt, Mother and child]

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Breve storia del dualismo per principianti

Vi siete mai chiesti in che relazione siano anima e corpo? Oppure, per dirla in termini più “scientifici” e attuali, mente e cervello? Esistono davvero entrambi, oppure tutto ciò che pensiamo, proviamo, facciamo è riducibile alla materialità della nostra corporeità?
I discepoli scientisti del “se non vedo, non credo”, ritengono che tutto ciò che esiste realmente sia solo fisico e tangibile.
Secondo me, invece, in questa prospettiva completamente materialista, c’è una riduzione ingiusta della natura e dell’uomo alla sua sola cosalità.
Niente di male, ci mancherebbe, nel vivere secondo materia: tutto ha un corpo e la corporeità è il nostro unico modo d’esistere, il corpo permette di relazionarci con il mondo. Ma se mancasse qualcosa, non necessariamente migliore, superiore o più sacro del corpo e della materia, ma che li completi? Spirito, anima, forma, mente, date all’invisibile il nome che più vi piace.

Ammettendo l’esistenza di questo non tangibile, in che rapporti sarebbe con il tangibile? La maggior parte, scommesse aperte, risponderebbe affermando due principi separati, anima da un lato e corpo dall’altro.
Persino molti cristiani – cattolici e non – che credono, in teoria, nella resurrezione della carne, in cuor loro immaginano l’anima immortale in Paradiso e il corpo dimenticato sottoterra chissà dove.
E la colpa, se consapevoli o ignari, pensiamo dualizzando è della filosofia. O meglio, di alcuni grandi filosofi.

Da Platone in poi, tutto fu due.
È dal più brillante dei discepoli di Socrate che per la prima volta, nella storia della filosofia, entra di gran carriera l’idea dell’esistenza di due mondi separati, il primo, per origine ed importanza, eterno, immobile, incorruttibile; l’altro, transeunte, in continuo divenire, sottoposto a generazione e corruzione.
Nessun vento contrario poté opporsi alla forza della navigazione portata avanti dalle braccia del filosofo, che avrebbe pronunciato la sentenza secondo la quale materia e spirito, sensibile e sovrasensibile, sarebbero ontologicamente differenti e l’uno subordinato all’altro.

Aristotele tentò di porre rimedio alla divergenza abissale tra materia e forma inserendo il concetto di sostanza, ma non bastò a risolvere la questione.
Sulla scia del neoplatonismo e del manicheismo, Agostino perpetuò l’idea di corpo impuro e materia malvagia, assunti che Tommaso rivide dicendo che l’anima, la carne e le ossa appartengono alla struttura stessa dell’uomo (d’altro canto Gesù diceva che il corpo è tempio dello Spirito!).

Ma la modernità s’affacciò prepotente e matematica sul pensiero medioevale al tramonto, fiduciosa dei suoi alambicchi  e certa delle sue equazioni.
Cartesio, con la sua celebre massima “Cogito ergo sum, pose la pietra tombale sulla possibilità di riunire anima e corpo nei secoli filosofici a venire. Res cogitans e res exstensa, pensiero e materia, nell’uomo così maldestramente collegate da una qualche ghiandola, costituirono la base della sua riflessione e di problemi che tutt’oggi non riusciamo a scrollarci di dosso. La materia, operante secondo leggi fisiche determinate, altro non era se non un guazzabuglio di qualità miste ad estensione e, nel caso del corpo umano o animale, le parti costituivano una macchina in tutto e per tutto insensibile di per sé, animata da un io pensante, una coscienza sicura solo della propria esistenza grazie a un percorso che parte dal dubbio iperbolico per approdare a una verità propria dell’attività noetica. Solo all’anima spettavano le sensazioni, le esperienze, la ricerca della verità.

Kant, sicuramente uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi, riuscì solo a spostare il problema che, dall’ambito ontologico – ossia dell’essere – passò a quello conoscitivo (possiamo conoscere solamente i fenomeni, ma non potremo mai arrivare all’essenza delle cose!); e anche lo Spirito di Hegel, benché non immediatamente, si rivelò un buco nell’acqua ai fini della risoluzione del problema, che tutt’ora perdura se non proprio a livello accademico (un particolare tipo di approccio fenomenologico pare abbia tentato di sciogliere i principali nodi), almeno per il senso comune.

La scienza contemporanea, infatti, confonde ulteriormente le acque, tentando di mostrare come tutte le attività che prima attribuivamo all’anima o alla mente, non siano altro che particolari legami tra neuroni: questo non solo è improbabile da affermare alla luce delle attuali conoscenze, ma condiziona il senso comune già accennato: quanti agiscono come se avessero un’anima, ma, se viene chiesto loro cosa ne pensano a riguardo – si sa che con l’internet tutte le discipline sono diventate democratiche (ma giuste?) piazze di dibattito – , rispondono riponendo piena e totale fiducia nella ricerca scientifica che un giorno arriverà a dirci come il nostro cervello produca pure emozioni e coscienza e pensiero.

Come risolvere, dunque, la questione? Accogliendo a braccia aperte i grandi traguardi delle scienze naturali, per poi ritornare, con questi nuovi tesori tra le mani, alla filosofia, dove tutto ha avuto inizio. Troppo spesso l’approccio scientifico riduce e riduce, fino a conglomerare l’uomo e il mondo in una capocchia di spillo, come se potesse davvero esaurirsi tutto fisico, tutto lì.
Ed è qui che rientra in gioco la filosofia, come via preferenziale per capire l’uomo e non solo: essa è l’unico modo possibile per imparare a vedere il mondo nella sua interezza, è un esercizio faticoso ma che permette di conoscere il senso d’essere del mondo e di collocare le cose stesse all’interno di un orizzonte di senso.

 

Vittoria Schiano di Zenise

 

24 anni, studentessa magistrale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, s’interessa particolarmente di Filosofia Teoretica e Bioetica.
Convita sostenitrice della dell’utilità pratica e quotidiana della Filosofia, s’impegna nella divulgazione di vario genere.
S’approccia allo studio della percezione, attraverso gli scritti di Maurice Merleau-Ponty, e a quello che ne consegue: filosofia della mente, estetica, psicologia e – soprattutto – lingua francese.

 

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Fede, filosofia e mistero: intervista a Vito Mancuso

In questo articolo proponiamo la seconda parte dell’intervista al filosofo e teologo Vito Mancuso, pubblicata all’interno della nostra rivista cartacea La chiave di Sophia #5 – Le dimensioni dell’abitare. La nostra chiacchierata con lui è stata così profonda ed interessante che non possiamo non condividere con voi la versione integrale dell’intervista. Buona lettura!

 

La Scolastica ha formato generazioni di teologi ad affidarsi in egual modo a ragione e fede nella loro ricerca, ma negli autori contemporanei si rileva la tendenza a privilegiare la prima e ad abbracciare più una “teosofia”. È possibile in un’era post-illuminista mantenere il paradigma scolastico, o è inevitabile che l’aspetto razionale fagociti quello fideistico?

Partirei con una considerazione di tipo storico alla luce di quello che mi chiedete in riferimento alla scolastica e alla sua promozione dell’armonia tra fede e ragione. Ora, certamente c’è un paradigma scolastico che consiste nell’armonia di fede e ragione: è il paradigma tomista, che in Alberto Magno prima e in Tommaso d’Aquino poi trova la propria consacrazione. Un’armonia tra l’altro non del tutto simmetrica, perché in questa prospettiva si considera la filosofia in funzione servile rispetto alla teologia, si pensi alla famosa espressione Philosophia ancilla theologiae. In ogni caso qui ci muoviamo all’interno di un paradigma di concordanza, di armonia, di fiducia reciproca.

La scolastica però ha conosciuto anche un’altra linea, direi opposta, la quale non crede nell’armonia fede-ragione ma al contrario tende a costruire la fede sulle macerie della ragione. Questa visione la ritroviamo nel filone francescano dove con Ockham ha trovato la maggiore espressione. Da qui nasce la fortissima opposizione alla filosofia da parte della tradizione classica del protestantesimo, e noi sappiamo che Lutero ebbe una formazione occamista soprattutto mediata da Gabriel Biel.

Questo per dire che quando parliamo della scolastica in realtà ci troviamo al cospetto di una grande dialettica: da un lato una fiducia della fede rispetto alla ragione, dall’altro una vera e propria guerra. Tra l’altro la scolastica rimanda a sua volta alla patristica, perché anche lì ritroviamo i due filoni: il primo, quello di Giustino, di Origene, del primo Agostino (penso al De vera religione o al De Magistro e in genere ai suoi primi dialoghi), che è estremamente ottimista nei confronti del lavoro della ragione e in generale dell’impresa umana. Cito al riguardo una frase di Giustino tratta dalla Prima apologia, paragrafo 21, e rivolta ai pagani: «Nel dire che il Verbo, primogenito di Dio, Gesù Cristo nostro Maestro, è nato senza rapporto umano, è stato crocifisso, è morto, è risorto ed è asceso al cielo, nulla di nuovo diciamo rispetto a coloro che, presso di voi, parlano dei figli di Zeus.» È una frase sconvolgente, perché sostiene che il centro del cristianesimo, quello che viene chiamato il kèrigma, l’Annuncio, coincide totalmente con quanto la visione greca, e quindi in generale la ricerca umana, aveva colto già da sé.

Sempre in epoca patristica però abbiamo Tertulliano che nell’Apologetico sostiene esattamente l’opposto: che cosa c’è in comune tra il Cristianesimo e la filosofia, tra Tebe e Gerusalemme? Domanda retorica la cui risposta è chiaramente nulla. Ecco le parole precise di Tertulliano: «In che cosa sono simili i filosofi cristiani discepoli della Grecia e quelli del cielo?», domanda retorica la cui risposta è ovviamente “nulla” (Apologeticum, 46-18).

Questo ci rimanda a sua volta alla Bibbia, perché anche nella Bibbia ebraica e nel Nuovo Testamento troviamo allo stesso tempo una tendenza di apertura e fiducia e una tendenza opposta di chiusura e opposizione. Lo stesso apostolo Paolo da un lato nella Lettera ai romani, primo capitolo, condanna i pagani perché sostiene che avrebbero potuto tranquillamente, ragionando sulla creazione, giungere all’esistenza di Dio, e quindi raggiungere la conoscenza della verità, affermando perciò la stessa cosa sostenuta da Giustino quando pone una grande continuità tra il centro del cristianesimo e la ragione umana. Ma nel primo e nel secondo capitolo della Lettera ai Corinzi l’apostolo Paolo afferma quanto sostenuto da Tertulliano col porre l’opposizione più ampia possibile tra sapienza umana e sapienza divina.

Quindi noi ci troviamo al cospetto di un nucleo incandescente che dal Nuovo Testamento raggiunge la Patristica e poi giunge nella Scolastica, genera le divisioni all’epoca di Pascal tra la scuola dei gesuiti e la scuola dei giansenisti, e arriva fino ai nostri giorni, perché ancora oggi c’è una Chiesa che ha un’ala più progressista e un’ala più conservatrice, si pensi alla divisione del Vaticano II tra quella che fu la maggioranza conciliare e quella che fu la minoranza. Si tratta insomma di una dialettica che attraversa da sempre il Cristianesimo.

Il Cristianesimo è abitato da fiducia e da sfiducia nei confronti della ragione e questo vale sia per il cattolicesimo sia per il protestantesimo. La sfiducia è originaria, connaturale a Lutero, il quale parlava della ragione umana come di una puttana e pensava che la filosofia fosse un’opera del demonio. Si tratta di una prospettiva che nel Novecento rivive in Karl Barth e in genere nella cosiddetta teologia dialettica. Ma il protestantesimo conosce anche il protestantesimo liberale, quello di F. Schleiermacher, A. von Harnack, E. Troeltsch, i quali al contrario hanno nei confronti del rapporto fede-ragione lo stesso ottimismo che l’analogia entis cattolica porta con sé. Questo è lo statuto storico, detta in maniera sintetica, del rapporto tra teologia e filosofia.

Per quanto mi riguarda, io penso che sia nella stessa parola teologia che si ritrovi il senso del giusto rapporto tra fede e ragione, tra teologia e filosofia. Il termine teologia dice infatti rapporto tra Theós e lògos, e non si deve mai dimenticare tra l’altro che questa connessione non è specificatamente cristiana perché colui che ha coniato il termine ‘teologia’ è stato Platone nel II libro della Repubblica, mentre il termine teologia entra nel cristianesimo in epoca patristica perché nel Nuovo Testamento non c’è. Il che significa che questa connessione tra theós e lògos è qualcosa di originario, è una tendenza della mente e direi anche del cuore umano, in base alla quale si pensa che l’assoluto, il theós, non sia qualcosa di estraneo al mondo e alla mente umana, ma al contrario qualcosa che ha a che fare con la logica del mondo e con la logica della mente umana, direi con il linguaggio umano. Non è un caso che il termine lògos rimandi al contempo sia alla ratio nel senso di ordinamento complessivo del cosmo (come per esempio nel Vangelo di Giovanni e prima ancora negli Stoici, dove logos ha un senso metafisico), sia al senso linguistico per cui lògos è parola, frase, discorso… Questo implica l’intuizione primordiale, ovvero la grande fiducia nel fatto che la logica che governa il mondo, il lògos che è archè, che è “in principio”, abbia strettamente a che fare anche con il linguaggio umano e quindi con tutto ciò che dal linguaggio scaturisce: l’etica, la creatività, l’espressività. Siamo cioè all’interno di un unico discorso: theós e lògos, questa è l’idea di fondo che rende possibile il discorso teologico.

Ne viene a mio avviso una conclusione stringente, ovvero che nella misura in cui la teologia è fedele a sé stessa non può che essere condotta sulla base del paradigma della concordanza tra fede e ragione, ovvero secondo l’idea di Giustino, di Origene, del primo Agostino, di Tommaso d’Aquino, del protestantesimo liberale, della maggioranza conciliare nel Vaticano II e di teologi cattolici come Teilhard de Chardin, Congar, Rahner, Küng, Panikkar.

 

Nella storia del pensiero sono state molte le ‘dimostrazioni razionali’ dell’esistenza di Dio, pensiamo a Cartesio, Anselmo, Tommaso, Kierkegaard… alternando prove e argomentazioni a favore della sua esistenza o della sua inesistenza. Ritiene che oggi i numerosi tentativi del passato a dimostrazione dell’esistenza di Dio possano ancora reggersi? O forse – già con Kant – siamo giunti alla consapevolezza che la ragione di fronte alla vita – e aggiungerei anche nei confronti della fede – non è sufficiente a ‘chiudere’ il discorso?

C’è una frase di Bobbio nella lettera che consegnò alla stampa con l’incarico di pubblicarla all’indomani della sua morte, che dice: «Non mi considero né ateo né agnostico. Come uomo di ragione e non di fede, so di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare fino in fondo, e le varie religioni interpretano in molti modi». A mio avviso questa è una delle più lucide esemplificazioni contemporanee del rapporto fede-ragione, perché Bobbio afferma che, come uomo di ragione, egli sa di essere immerso nel mistero.

Vede, noi normalmente pensiamo che sia la fede a parlare di mistero, mentre al contrario riteniamo che la ragione sia chiarificatrice, le assegniamo un lume che arriva e illumina ogni cosa. Ma Bobbio dimostra che non è così. È lo stesso risultato a cui giunse la grande speculazione di Kant, che pose la critica della ragion pura che si chiude con irrisolvibili antinomie: e che cos’è il mistero, se non il vedere le contraddizioni che costituiscono le esistenze stesse e le varie antinomie?

Vedere la contraddizione e riconoscerla come tale, significa cogliere due nomoi, due leggi entrambe legittime ma contrapposte l’una all’altra, e così generare l’anti-nomia. In Kant si ha l’antinomia della ragion pura e l’antinomia della ragion pratica. Da qui si origina un fondo oscuro, capiamo cioè che la ragione esercitata fino in fondo non ci consegna alla luminosità. Benché qualche positivista possa pensare il contrario, vi sono eccellenti ragionatori che chiudono il senso del loro ragionare ritrovandosi al cospetto di un irrisolvibile chiaroscuro, dove le luci sono sempre connesse alla tenebre. Ne viene il senso del mistero, termine che rimanda a mystérion in greco, il quale si rifà al verbo myō, che significa chiudere, detto di occhi e di bocca, così che il mistero è ciò che ti fa chiudere gli occhi e la bocca. E quando uno chiude gli occhi e la bocca, vuol dire che ha capito di essere alla presenza di qualcosa di più grande che non può dire, o pensare di racchiudere in una formula, e in un certo senso vi si affida.

Non a caso da mistero deriva anche mistica, il rimando alla dimensione eccedente della mente che si ritrova al cospetto di qualcosa di più grande e vi si affida. Confida, si fida, ha fiducia, eccoci qui, siamo arrivati alla fede. In questa prospettiva la fede non è qualcosa che si contrappone alla ragione, o la fede o la ragione, o si pensa o si crede, come cita una raccolta di scritti di Schopenhauer. In realtà è proprio perché si pensa fino in fondo che poi, ad un certo punto, una persona, posta di fronte alla scelta di quali debbano essere i criteri per orientarsi nella vita, capisce che deve fidarsi di un orientamento. La semplice ragione ti dà argomenti tanto per aprirti quanto per chiuderti, tanto per dire di sì alla vita quanto per dire di no, tanto per benedire quanto per maledire. La fede dunque nasce dal continuo rapporto con le domande della ragione. Senza questo rapporto la fede è un’ideologia come altre, e consegna a una delle tante appartenenze religiose che fanno parte del variegato cammino dell’umanità. Ma la fede vera è quella che, come diceva il cardinal Martini, sa affermare «dentro di me c’è il credente e il non credente», c’è l’uomo di ragione che vuole trovare ragioni e al contempo c’è l’uomo di fede che sa che si deve fidare, i due sono legati l’uno all’altro.

In questa prospettiva l’idea che qualcuno possa sostenere che la fede si basa totalmente sulla ragione, la quale arriva e giunge a dimostrare l’esistenza di Dio, è qualcosa che sfiora l’empietà dal punto di vista spirituale, perché chiunque abbia fatto esperienza della vita e del mistero religioso, intuisce che non c’è nessuna possibilità di capire, proprio nel senso etimologico del termine capio, capere, il cui participio passato è captum da cui deriva captivus cioè prigioniero, dunque capire in quanto imprigionamento. Io con la mente capisco una cosa, la capisco e la carpisco; oppure la comprendo, la prendo dentro di me, la faccio mia. Se questo avviene, non si ha la genuina esperienza religiosa, non a caso diceva Agostino: «Si comprehendis non est Deus», se comprendi non si tratta Dio, perché da Dio, da questa dimensione dell’Assoluto, dell’Essere, del Bene, da questa dimensione più grande da cui veniamo e a cui torniamo, a cui normalmente ci si riferisce dicendo divino, è chiaro che si può essere solamente capiti, compresi, nel senso di contenuti, di essere dentro.

Le prove dell’esistenza di Dio sono dunque a mio avviso qualcosa di assolutamente contrario all’esperienza del pensare e del sentire religioso. Se ne può parlare semmai come di argomenti, di tentativi di legittimare un oggetto che non sarà mai oggetto e che tuttavia devo in qualche modo oggettivare se voglio pensare, perché non posso pensare se non oggettivando. C’è infatti un paradosso costitutivo della teologia, dato dal fatto che la cosa che voglio oggettivare non sarà mai oggettivabile, non lo sarà perché mi contiene e quindi io non posso mai renderla obiectium, metterla di fronte a me, gettarla di fronte a me, e quindi vederla e così capirla. Di fronte all’assoluto, che è per definizione ciò che non ha relazione, ciò che è l’intero, l’Uno, è chiaro che mi contiene e io non posso oggettivarlo. Tuttavia se in qualche modo non oggettivo, non parlo. Quindi capisco come mai nella storia del pensiero siano nate le cosiddette prove dell’esistenza di Dio, anche se è del tutto evidente, anche alla luce di quello che hanno prodotto, che non sono prove. Sono piuttosto argomenti per dire che quel discorso ha una sua legittimità da un punto di vista razionale, e da questo punto di vista possono avere una loro utilità.

 

Lavori come Homo Deus di Yuval Noah Harari prospettano un’umanità che, rifuggendo il trascendente, divinizza se stessa e vede in un neopositivismo rivisitato un nuovo Vangelo. È questa la nuova prospettiva della teologia?

Che cosa ci riserverà il futuro non lo so, si possono fare previsioni naturalmente ma penso che non lo sappia di preciso nessuno, neppure Harari. Leggere i libri del passato che hanno parlato di futuro e quindi giungono a parlare del nostro presente non è sempre un’esperienza di grande consonanza, concordanza, si vede quante cose si immaginano che poi non avvengono per nulla. Il destino della teologia è legato a quello della libertà, a quella capacità di cogliere il mistero di cui ho detto sopra. Nella misura in cui negli esseri umani continuerà questo fremito di fronte alla dimensione dell’inattingibile, di fronte alla libertà e al sentire la pochezza del linguaggio rispetto alle grandi questioni dell’esistenza, fino a quando rimarrà questo scarto tra il di più della vita e la mente umana, –un di più che la mente umana che comunque percepisce, che capisce che non può ridurre, ma percepisce e sente– vi sarà spazio per la teologia. È chiaro se l’umanità attraverso microchip o altri meccanismi a me ignoti riuscirà a togliere e pacificare ogni tensione, arrivando a quella conciliazione che Hegel assegnava come compito alla filosofia e che oggi si assegna invece alla tecnica, per cui l’uomo da passione diventa qualcosa di soluto, di sciolto, di assolto, e sarà un essere addomesticato, è chiaro che non ci sarà spazio per la teologia, per la religione, per la trascendenza.

Nel mio libro Il principio passione (Garzanti, 2013) ho scritto che il mondo è un esperimento e come tale può anche fallire. Ritengo che se avverrà una chiusura di un’umanità su se stessa, una totale conciliazione di un’umanità che si compiace di sé e della propria intelligenza volta a soddisfare solo i propri bisogni, questo sarà un fallimento dell’esperienza umana. Evidente quindi che non vi sarà spazio per la teologia e l’uomo sarà dio all’uomo, ma non nel senso classico Homo homini deus, cioè l’uomo è qualcosa di divino, ma nel senso che l’uomo sarà l’Assoluto. La storia del Novecento però insegna: quando l’umanità ha voluto porre l’umanità stessa, l’umanità concreta con le sue ideologie, ad assoluto, il sangue non ha cessato di scorrere. Non lo so come finirà, ma se la nostra corsa finirà in questo neopositivismo tecnologico, vi sarà certo un fallimento della religione, e con essa finirà probabilmente la filosofia, di sicuro questa sarà la sorte per quel tipo di filosofia che prende sul serio il suo essere philos e il suo coltivare philein, cioè amare, perché non vi può essere spazio per l’amore laddove tutto è appagato. E forse finirà anche il nostro essere sapiens, saremo solamente faber, non più Homo sapiens ma Homo faber, o peggio Homo consumans, ammesso che si possa dire in latino.

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Giacomo Mininni

[Credit Giacomo Maestri]

Conosci te stesso. L’imperativo dimenticato

Il tempo presente, dominato dal vivere superficiale, sembra aver dimenticato l’importanza decisiva di un’autentica e profonda conoscenza di se stessi. Alle radici della nostra storia e della nostra cultura vi è proprio il motto socratico “conosci te stesso”. Socrate non l’aveva inventato, ma l’aveva letto, stando a quanto riferisce Platone, sul frontone del tempio di Apollo a Delfi e l’aveva assunto come guida della ricerca filosofica. Il pensatore, passeggiando per le strade di Atene, incalzava i suoi giovani interlocutori mettendoli nelle condizioni di scendere nella propria interiorità, conoscerne ombre e luci, moti profondi della propria anima, così da partorirela verità.

A partire da Socrate la filosofia ha assunto il motto “conosci te stesso” come bordone per la ricerca esistenziale. Una ricerca che suggerisce all’uomo di conoscersi, di operare quindi un cambiamento per pervenire al proprio sé migliore, edificando se stesso secondo il proprio desiderio. Da Agostino d’Ippona che, nel De vera religione, rammenta come la Verità risieda nell’interiorità dell’uomo (in interiore homine habitat veritas) sottolineando l’urgenza di intraprendere un viaggio intellettuale e spirituale dentro se stessi per ri-trovarla. Passando per Kierkegaard, ammiratore dell’esempio socratico, che intende la filosofia non solo come costruzione astratta, quanto piuttosto come ricerca esistenziale su se stesso, al punto da scrivere: «Ciò che in fondo mi manca è di veder chiaro in me stesso, di sapere ‘ciò ch’io devo fare’ [At 9,6] e non ciò che devo conoscere, se non nella misura in cui la conoscenza ha da precedere sempre l’azione. Si tratta di comprendere il mio destino»2. Attraversando il pensiero di Nietzsche che in Ecce homo cerca di penetrare in se stesso e conoscersi per tentare di rivelarci “come si diventa ciò che si è”. Per giungere infine alla psicoanalisi che, agli inizi del Novecento, richiama all’importanza decisiva per la qualità della propria vita, di rendere conscio l’inconscio – che per natura sfugge al controllo e alla percezione dell’Io cosciente – affinché non domini la nostra esistenza impedendoci di realizzare noi stessi con equilibrio e secondo verità.

Un esempio edificante che testimonia quanto sia fondamentale e possibile, conoscere profondamente se stessi per poter condurre in pienezza la propria esistenza, anche in circostanze sfavorevoli, ci giunge dalla vicenda umana di Etty Hillesum. Questa giovane ebrea olandese, al culmine di un disordine psicologico interiore e con l’avanzata inarrestabile delle persecuzioni naziste in Olanda e in Europa, ha scelto di prendersi per mano, conoscersi, per conquistare il proprio sé migliore. Lo ha fatto con l’aiuto dello psicoanalista Julius Spier, raffinato terapeuta, mentore culturale e spirituale, ma soprattutto con il decisivo coraggio e l’imprescindibile volontà personale di costruirsi con nobili materiali, consapevole che per raggiungere la bellezza della sorgente interiore era necessario attraversare le tenebre che la abitavano e che dimorano altresì in ciascuno di noi. Scrive nel proprio Diario: «ecco l’inizio, l’inizio assoluto: prendersi sul serio ed essere convinti che abbia senso trovare una propria forma»3. Questo è stato possibile solo guardando in faccia, ben prima della tragedia esteriore, il proprio abisso interiore, attraversato il quale è pervenuta alla luce della Vita con la sua carica di significato, anche alle porte di Auschwitz. La luce è il proprio desiderio profondo, il proprio amore per la Vita. È la fedeltà alla parte migliore di se stessi. Per questo, al culmine dell’instancabile lavoro interiore, la giovane studentessa di Amsterdam può annotare nel Diario che riesce a sperimentare «una tale intensità di vita, la sensazione di diventare sempre più coscienti e al tempo stesso di vivere più profondamente, nell’intimo, sottraendosi sempre più al caos e acquisendo la propria forma»4.

L’itinerario interiore di Etty Hillesum non è un idillio. È un cammino lungo – che «non può tener conto del tempo»5 – faticoso, irto di difficoltà, che richiede perseveranza e volontà. Poiché, come afferma il coro nell’Agamennone di Eschilo «non c’è conoscenza senza sofferenza», conoscere se stessi ha un prezzo che può consistere in un’iniziale fatica psicologica e spirituale, essenziale per abbandonare una modalità esistenziale mal funzionante. Così infatti si può pervenire ad un nuovo e fruttuoso equilibrio interiore, una nuova saggezza, una nuova luce, che si riverbera poi in una maggiore consapevolezza della propria esistenza, unica e irripetibile e della possibilità di incidere positivamente su di essa, se non esteriormente, almeno e sempre interiormente. Per edificare se stessi con nobili materiali è dunque fondamentale «mettere ordine nel caos»6, comprendere la propria storia, le proprie gioie, le proprie ferite, le proprie dinamiche interiori evitando che ci impediscano di restare fedeli al nostro desiderio, non aderendo al quale «la vita si ammala»7. E se, come afferma Recalcati parafrasando Lacan, «c’è un solo peccato, un solo senso di colpa giustificato: cedere, nel senso di indietreggiare sul proprio desiderio»8, è quanto mai fondamentale riabilitare l’imperativo delfico “conosci te stesso”, come massima che ci conduca alla scoperta del desiderio che ci abita. Quest’ultimo non è capriccio o irrefrenabile impulso ma guida e condizione per la realizzazione di una vita bella e ricca di significato.

 

Alessandro Tonon

NOTE
1. Socrate, paragonandosi alla madre Fenarete che faceva la levatrice,  esercitava l’arte della maieutica per risvegliare nei propri interlocutori il gusto di conoscere se stessi e la verità.
2. S. Kierkegaard, Diari 1834-1842 I, tr. it di C. Fabro, A. G. Quinzio e G. Garrera, Morcelliana, Brescia, 20104, p. 67.
3. E. Hillesum, Diario, tr. it. di C. Passanti e T. Montone, Milano, Adelphi 2013, p. 586.
4. Ivi, p. 309.
5. Ivi, p. 116.
6. Ivi, p. 120.
7. M. Recalcati, La forza del desiderio, Magnano, Qiqajon, 2014.
8. Ivi, p. 51.

 

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Creazione ed eternità del mondo: le riflessioni di Tommaso d’Aquino

Il mondo è stato creato da Dio, oppure, come diceva Eraclito, il mondo «non lo fece nessuno degli dei né degli uomini» (fr. 30 B DK)? E inoltre: il mondo (abbia o non abbia avuto origine dall’atto creativo di un Dio) ha avuto un inizio nel tempo (o col tempo), oppure, sempre come riteneva l’antico filosofo greco, il mondo «è sempre stato» e sempre sarà? In altri termini: il mondo è una “fiamma” che ha incominciato a brillare, riempiendo di luce l’oscurità e il nulla che regnavano prima dell’inizio dei tempi, o è una “fiamma” che brilla da sempre, un «fuoco semprevivo, che secondo misura si accende e secondo misura si spegne»? Sono domande filosofiche quant’altre mai. Nell’opuscolo intitolato L’eternità del mondo (De aeternitate mundi), probabilmente composto tra il 1270 e il 1271, Tommaso d’Aquino cerca per l’appunto di dar loro una risposta.

Tommaso inizia la trattazione scartando innanzitutto l’ipotesi che afferma che l’esistenza del mondo non dipende dall’atto creatore di un Dio. Per Tommaso, che il mondo possa essere “autosufficiente” ed esistere senza l’intervento di Dio, quindi senza essere da Lui creato e mantenuto nell’essere in ogni istante, è un «errore abominevole, non soltanto agli occhi della fede, ma anche per i filosofi». Tommaso è infatti convinto, insieme ai più grandi pensatori che lo hanno preceduto, che «tutto ciò che esiste […] non potrebbe esistere se non fosse causato da colui che possiede l’essere al massimo grado e nel modo più vero».

Dopo aver stabilito l’erroneità della tesi che afferma che il mondo ha incominciato a esistere (o esiste da sempre) da sé, Tommaso cerca di capire se sia o meno possibile che il nostro mondo sia “eterno” (= già da sempre esistente) e insieme frutto di un atto creatore. Ebbene, per Tommaso l’eternità del mondo e la dipendenza del mondo da Dio sono caratteristiche che non necessariamente si contraddicono tra loro: «qualcuno potrebbe […] ritenere che a esistere da sempre possa essere qualcosa che, tuttavia, è stato interamente causato da Dio in ogni fibra del suo essere», scrive infatti l’Aquinate.

«Il problema, quindi, sta tutto qui: nel vedere se l’esser creato da Dio secondo la totalità della sostanza e il non avere un inizio della propria durata siano concetti che si contraddicono a vicenda, oppure no».

Purtroppo non possiamo seguire in dettaglio i vari problemi filosofici che Tommaso affronta e risolve nel suo scritto; limitiamoci qui soltanto a richiamare la conclusione a cui Tommaso perviene, e cioè appunto che «non c’è nulla di contraddittorio nel dire che qualcosa è stato creato da Dio e tuttavia esiste da sempre».

Certo, alcuni potranno obiettare che è ben difficile capire come possa il mondo essere “eterno” e tuttavia dipendente, quanto alla propria esistenza, dall’atto creatore di Dio. Per comprendere come Dio possa aver creato liberamente e ab aeterno (“al di fuori del tempo”, “extratemporalmente”) un mondo diveniente privo di un inizio temporale, Tommaso riprende allora un’immagine già usata da Agostino ne La città di Dio per spiegare il pensiero dei filosofi platonici:

«Se un piede […] fosse sempre stato nella sabbia dall’eternità, sotto di esso vi sarebbe stata l’orma. Non si può mettere in dubbio che l’orma è stata prodotta da chi ha calpestato la sabbia; eppure, l’uno non sarebbe prima dell’altra, sebbene una sia stata prodotta dall’altro. Allo stesso modo, dicono, il mondo e gli dèi in esso creati sono sempre esistiti […]; ma ciò non toglie che sono stati prodotti».

Una volta che si sia ammesso che la creazione di un mondo eterno è effettivamente possibile, rimane un’ultima domanda a cui rispondere, e cioè: di fatto, quale mondo ha deciso di creare Dio? Il nostro mondo è effettivamente “eterno” o ha avuto un inizio? In altre parole: la possibilità di un mondo “eterno” si è realizzata per davvero, o a esser stata scelta da Dio è stata l’altra alternativa: quella di creare un mondo dotato di un inizio temporale?

Per capire fino in fondo quale sia la posizione del “dottore angelico” in merito a questo tema bisogna consultare il suo capolavoro, la Somma Teologica (Summa Theologiae). In essa leggiamo che il problema dell’eternità (o della non eternità) del mondo non può essere risolto filosoficamente, ma solo tramite una rivelazione divina: «gli articoli di fede non si possono dimostrare […]. Ora, che Dio sia il Creatore del mondo in maniera tale che questo abbia iniziato a esistere è un articolo di fede […]. Quindi l’inizio del mondo si ha soltanto per rivelazione, e non può essere provato dimostrativamente». Più avanti, Tommaso ribadisce: «che il mondo abbia avuto inizio è oggetto di fede, non di dimostrazione o di scienza».

Per Tommaso, la ragione umana, lasciata a se stessa, può cioè sì dimostrare che il mondo è creato da Dio, ma non può procedere oltre nella sua indagine, perché non ha né le capacità né gli elementi sufficienti per capire se il mondo che Dio ha creato è un mondo eterno, e dunque da sempre esistente, o un mondo che ha avuto un inizio e che pertanto non ha alle spalle un passato temporale infinito. La ragione umana può limitarsi a prospettare queste due ipotesi e accertare la non contraddittorietà di entrambe, ma non può sapere né dimostrare incontrovertibilmente quale di esse sia quella corretta. La ragione offre vari scenari possibili, e la fede supplisce alle carenze della ragione suggerendo quale di essi coincida effettivamente con la verità.

La riflessione filosofica si limita a dire che Dio, in linea teorica, avrebbe anche potuto creare un mondo eterno, e il lume della fede integra questo dato di ragione dicendo che, pur avendo avuto questa possibilità, Dio di fatto non ha voluto creare un mondo “eterno”, in quanto ha preferito porre in essere un mondo dotato di un inizio temporale. Appurato ciò, la filosofia non può fare altri passi innanzi; non può cioè riuscire a ricostruire il motivo preciso per cui Dio ha fatto questa scelta: la volontà divina rimane infatti per Tommaso un mistero imperscrutabile, alle cui profondità l’uomo non può avere accesso, a meno che Dio non glielo conceda.

Gianluca Venturini

 

BIBLIOGRAFIA
Tommaso d’Aquino, L’unità dell’intelletto – L’eternità del mondo, a cura di D. Didero, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2012
Tommaso d’Aquino, La Somma Teologica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2012

[L’immagine di apertura è tratta da “Google immagini”]

 

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Plotino e l’immortalità dell’anima

Quando parlava di sé, Plotino, un grande filosofo del III secolo d.C., era molto modesto: si definiva un semplice discepolo di Platone. Si presentava quindi agli altri come un pensatore non originale, che si limitava a riproporre teorie già formulate in passato. «Le nostre teorie» – egli scrive – «non sono nuove né di oggi, ma sono state pensate da molto tempo anche se non in maniera esplicita e i nostri ragionamenti sono l’inter­pre­ta­zio­ne di quelli antichi, la cui antichità ci è testimoniata dagli scritti di Platone». Sant’Agostino stesso affermerà che Plotino è un «Platone tornato nuovamente in vita» (Contra Academicos, III, § 18). Tuttavia, come scrive Francesco Chiossone, gli studiosi di Plotino sanno bene che egli «fu molto più che un emulatore»; il filosofo greco, infatti, «seppe concepire un sistema speculativo mirabile per coerenza e profondità, ristabilendo il primato della metafisica e contribuendo così in maniera decisiva alla rinascita del Platonismo».

Per avere un piccolo assaggio della capacità di Plotino di trasmettere e rielaborare la grande tradizione filosofica che lo precede, è possibile leggere il suo trattato su L’immortalità dell’anima, recentemente pubblicato dall’editore Il melangolo. Il testo è un breve estratto delle Enneadi e lo scopo delle sue pagine, come si evince chiaramente dal titolo, è quello di «dimostrare l’immortalità dell’anima deducendola dalla sua incorporeità». La potenza concettuale che Plotino esibisce è indubbia; si tenga tra l’altro presente che «il repertorio di argomenti di cui si serve qui Plotino continuerà a essere utilizzato da filosofi e teologi dei secoli futuri».

Ma quali sono esattamente le prove che Plotino adduce in favore della tesi dell’immortalità del­l’anima? Innanzitutto egli esclude che l’anima sia un corpo o un aggregato di corpi. «La vita appartiene necessariamente all’anima», nota infatti Plotino; «ora, quale potrebbe essere un corpo di per sé dotato di vita? Il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra sono di per sé inanimati», e «non esistono altri corpi oltre a questi. […] Ma se nessuno di essi possiede la vita, è assurdo dire che la loro unione crea la vita», così come è assurdo identificare l’anima a uno di essi. Se è impossibile che «un ammasso di corpi generi la vita», «ancora più impossibile», per Plotino, è che «cose senza intelligenza diano origine all’intelligenza». In sintesi: «il corpo non genererà mai l’anima».

Non essendo un elemento, un corpo o un aggregato di elementi o di corpi, l’anima è necessariamente semplice, incorporea, immateriale: «quest’essere», scrive Plotino, «non ha a che fare né con la quantità né con la massa, e la sua essenza è di tutt’altra natura». Ma questo implica che l’anima non possa essere annientata in alcun modo. Spiega infatti Plotino: «tutto ciò che, venendo all’esistenza, implica una composizione, si dissolve poi naturalmente negli elementi di cui è composto; ma l’a­ni­ma non finirà così, perché è una, semplice, e la sua natura consiste nel vivere in atto. Forse potrebbe morire se fosse divisa e frantumata, ma, come si è già dimostrato, l’anima non è una massa né una quantità. Potrebbe allora andare distrutta se subisse una qualche alterazione; l’alterazione, però, quando è causa di distruzione, sopprime la forma ma lascia intatta la materia e questo accade solo a un essere composto. Se dunque l’a­ni­ma non può essere intaccata in nessuno di questi modi, sarà necessariamente incorruttibile».

Plotino fornisce anche altre prove dell’immortalità dell’anima. Una di esse è basata sul principio per cui “il simile conosce il simile”. L’anima – argomenta Plotino – non conosce solo cose finite, materiali e divenienti: essa, col proprio pensiero, può concepire e contemplare anche gli «esseri celesti e […] quelli ultracelesti, cercando di ogni cosa l’essenza e risalendo fino al primo principio». L’anima, cioè, è in grado di oltrepassare col pensiero le cose temporali e di affacciarsi sulle realtà eterne. Questa sua capacità «fa sì che l’anima, partecipando di conoscenze eterne, sia anch’essa eterna». Infatti, – si chiede Plotino – come potrebbe ciò che è corporeo pensare l’incorporeo? Come potrebbe ciò che è mortale avere notizia di ciò che è eterno? Solo il simile può conoscere il simile; sicché, se l’anima conosce non solo cose caduche, ma anche cose atemporali, divine ed eterne, ciò accade perché evidentemente lei stessa è un che di divino e di eterno. «L’a­ni­ma coglie l’eterno con ciò che essa ha di eterno», scrive infatti Plotino.

Un’altra prova si sviluppa a partire dalla considerazione che l’anima è principio di vita, e dunque vita per essenza. Che l’anima sia principio (cioè causa e sorgente) di vita, e in particolare principio della vita dei corpi, è innegabile. Infatti, poiché gli elementi che compongono i corpi sono inanimati, lo saranno anche i corpi che tali elementi vanno a formare. L’animazione, la vita, il movimento e in generale ogni forma di “attività” provengono quindi da qualcosa che, pur “abitando” elementi e corpi, non è un elemento o un corpo. «L’anima», scrive Plotino, «è il principio del movimento, e fornisce il movimento alle altre cose, mentre lei si muove da sé; e inoltre dona la vita al corpo […], mentre lei la possiede da sé, e non la perde proprio perché la possiede da sé». L’anima non può morire appunto perché, essendo principio di vita, «non può certo ricevere il contrario di ciò che apporta», ovverosia la morte.

Se l’anima morisse, infatti, essa accoglierebbe in sé la morte, ne verrebbe invasa, e quindi la vita sarebbe morte, nel senso che la vita, che l’anima è, si identificherebbe alla morte, e quindi al proprio altro. Ma che qualcosa (in questo caso la vita, la non-morte) sia identico al proprio altro (la morte, la non-vita) è, anche per Plotino, un assurdo; anzi, la definizione stessa dell’impossibile, di ciò che non può aver luogo. Ne segue che l’anima, in quanto è principio di vita, è vita inestinguibile e immortale.

Gianluca Venturini

 

BIBLIOGRAFIA

Plotino, L’immortalità dell’anima, trad. di F. Chiossone, Il melangolo, Genova 2017

[L’immagine è una rielaborazione digitale del quadro di W.A. Bouguereau, Psyche et l’Amour (1889) – immagini tratte da Google immagini]

 

 

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La parola “io”: patologia del nostro tempo

«La parola Io è uno strano grido che nasconde invano la paura di non essere nessuno…»

Giorgio Gaber

Il culto dell’Io pervade il nostro tempo e le nostre esistenze. Se il XX è stato il secolo della psicoanalisi, il XXI è senza dubbio l’epoca che sta conducendo alle estreme conseguenze la psicologia dell’Io. Riportando l’attenzione sul singolo e sull’esplorazione del proprio inconscio, Freud e seguaci hanno senz’altro aperto un varco all’interno della conoscenza dell’uomo, della sua storia personale e dei propri meandri più remoti e celati, realizzando una vera e propria rivoluzione nel panorama culturale e sociale del Novecento. Il nostro tempo, tuttavia, sembra aver operato una vera e propria stortura rispetto alle iniziali scoperte della psicoanalisi. Se quest’ultima aveva ridestato l’attenzione dell’uomo verso il proprio interno affinché si rivolgesse poi rinnovato verso l’esterno, la società contemporanea, con le sue spinte culturali, economiche e politiche sembra celebrare quotidianamente l’Io e l’affermazione del suo potere come condizione esistenziale par excellence.

«La parola Io / questo dolce monosillabo innocente / è fatale che diventi dilagante / nella logica del mondo occidentale / forse è l’ultimo peccato originale»1. Con queste parole Giorgio Gaber canta la crisi dell’uomo contemporaneo, la quale si fonda propriamente sull’esaltazione del narcisismo. L’atteggiamento che tende ad esaurire la personalità nell’esclusiva considerazione di se stessa, è proprio quanto la psicoanalisi aveva individuato come il denominatore comune delle malattie mentali. I messaggi sociali, culturali ed economici veicolati dai social media fanno apparire l’Io come la sola e vera realtà. L’unica, sulla quale le nostre vite si debbano fondare. Tuttavia, sono tragicamente sotto gli occhi di ciascuno le conseguenze di questa finzione chiamata Io. Suicidi, omicidi, femminicidi, infanticidi, criminalità organizzata, attacchi terroristici. In tutti questi casi a dominare è la parola Io. Essa invita ad agire seguendo il proprio interesse egoistico, il proprio godimento personale, senza tenere in alcuna considerazione la presenza e il rispetto per l’altro. A ragione, facendo parlare il narcisista, Gaber scrive: «son disposto a qualsiasi bassezza per sentirmi importante». Questo è lo specchio di una società seriamente malata, che ha abdicato la dimensione originaria della relazione in favore del narcisismo, che sfocia in egoismo.

Secondo l’epistemologia genetica di Piaget, l’egoismo è una fase dello sviluppo che dovrebbe terminare intorno al terzo, quarto anno d’età. In questo periodo il bambino riconosce di non essere solo al mondo e di dover partecipare alla Vita, condividendola con altri simili, confrontandosi con loro e riconoscendo che la propria libertà è limitata ma proprio per questo preziosa. Il tempo ipermoderno sembra aver disconosciuto questo centrale passaggio dello sviluppo socio-individuale. L’egoismo, che oggi non viene superato nella prima infanzia, si trascina fino all’età adulta e permea tragicamente i nostri comportamenti. Riferendosi a questo Gaber scriveva: «negli adulti, diventa più allarmante e cresce la parola Io». L’esaltazione, che il nostro tempo fa della parola Io, suggerisce un potere esibito dal singolo come espressione di forza. È proprio così che si afferma il dominio dell’uomo sull’altro uomo. È in questo modo che il potere diviene violenza, sopruso, abuso, annientamento. Possibilità senza vincoli. Libertà senza legge. Solo così, infatti, il narcisista può affermare se stesso e il proprio essere. Solo così può provare l’ebbrezza di essere il centro del mondo. Solo così può nutrire la falsa illusione di bastare a se stesso e di non avere bisogno dell’altro. Salvo poi cadere in un profondo e sterile isolamento, prodromo della depressione, malattia dilagante nella nostra epoca.

È tempo di riconsiderare l’uomo come essere-in-relazione. La storia del pensiero, da Platone ad Aristotele, da Agostino a Tommaso D’Aquino, da Montainge ad Hegel, ci ricorda come l’uomo è un essere che può vivere solo in relazione con l’altro da sé, in un legame intersoggettivo autentico, in cui si perde parte della propria libertà per ritrovarla, più ampia e completa, nel legame con l’altro, con gli altri. È dunque necessario prendere le distanze dalla pervasività della parola Io in favore del Noi. Far dominare il Noi al posto dell’Io, significa riaffermare l’Umanesimo del quale siamo figli2. Significa stabilire relazioni di qualità, basate su rispetto, attesa, ascolto e comprensione dell’altro. Significa abbandono di parte delle proprie pretese egoistiche, per unirsi all’altro. Affinché questa unione avvenga, come suggerisce lo psichiatra Andreoli, è necessario riconoscere la propria fragilità. A partire da questa presa di coscienza è possibile cercare l’altro, fragile anch’egli ed unirsi a lui, che al contempo ci cerca poiché a sua volta si è riconosciuto fragile.

Nel panorama contemporaneo sembra sempre più difficile abbandonare l’egoismo, accettare le ferite narcisistiche. La società nella quale viviamo prospetta infatti la felicità nell’Io, proprio laddove, come abbiamo mostrato, non può realizzarsi. Essa infatti può compiersi solo quando l’uomo trascende se stesso, in favore di qualcosa che non è se stesso, che sta fuori di sé, che sta oltre. Ecco perché il filosofo danese Kierkegaard ebbe a dire: «la porta della felicità si apre verso l’esterno, cosicché può essere rinchiusa solo andando fuori da se stessi».

Alessandro Tonon

NOTE:
1. La presente e le seguenti citazioni son tratte da G. Gaber, La parola Io, nell’album Io non mi sento italiano, 2003.
2. Su questi temi rimando alla mia intervista al professor Vittorino Andreoli.

 

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Delle scuse che ci diciamo per non cercarci mai

Eccomi, volevi vedermi?

Sì: ho un problema.

Che problema? Mi sembri in forma; cioè non hai l’aria di un fiore appena sbocciato ma mi stupirebbe il contrario. A guardar bene, hai preso qualche chilo ma non t’abbattere: un po’ di palestra e va via tutto.

Non ti ci mettere, non ho voglia di scherzare. Se t’ho detto che ho un problema, ho un problema.

Lapalissiano. Che hai?

Mi vedi veramente ingrassato? Non la dovevo comprare ‘sta camicia: ha un taglio troppo particolare e cade male, sembra che io abbia la pancia. O forse sono ingrassato veramente? Perché fai quella faccia?

Scherzavo: non sei ingrassato, idiota. Questo problema tanto urgente, allora? Me lo dici cos’hai o aspetto la notifica?

Ah sì: è che ho questo problema che mi assilla. Non riesco più a comporre.

Ah sì?

Sì non so cosa fare, le ho provate tutte: ho provato a comporre di notte, di giorno; a digiuno, a stomaco pieno; l’altra settimana son stato via, sono andato in un posto bellissimo, lontano da tutto e da tutti per allontanarmi dai rumori: a proposito, t’ho postato le foto dell’albergo sul diario ma non hai commentato.

Lontano da tutti proprio, eh?

Come dici?

Niente, fa’ nulla. Allora: hai pensato alla causa di questo blocco?

Ma sì, ti dico che ho provato di tutto: è l’ispirazione che mi manca.

Ti ricordi?

Cosa?

Non ti ricordi: questo è il punto.

Ma di cosa non mi ricordo?

Eh no, non ti ricordi, se hai bisogno di chiedere; un tempo ti sarebbe venuto in mente senza chiedere.

È che sono incasinato ultimamente, son sempre di fretta, in una mano l’agenda e nell’altra il telefono. E poi le prove, le lezioni, i concerti. Praticamente penso nei ritagli di tempo, mi sorprendo a pensare mentre sono sul treno, mentre sono in fila per comprare il pane. A proposito: devo comprare il pane.

Stronzate.

Che dici?

Che sono stronzate, sono tutte scuse: la verità è che sei distratto. Tu e la maggior parte delle persone che ti scivolano attorno e ti fanno la cortesia di non travolgerti mentre “ti soprendi a pensare”. Non vai fino in fondo.

La fai facile tu: ho mille cose da fare. E poi non capisci: tu hai sempre il naso in quella cavolo di biblioteca, con un libro ti svegli e con un altro ti addormenti. A che ti serve, poi, un giorno me lo dovrai spiegare. Io devo lavorare, non posso perder tempo a lambiccarmi il cervello come voi.

E infatti stai lavorando bene, eh? E guarda che quei libri qualcosa da dire ce l’hanno, altrimenti nessuno li leggerebbe più.

Ah sì: infatti è pieno così di lettori di Agostino!

Infatti è pieno così di gente serena, che sa almeno di dover cercare, verso dove andare, in che direzione affannarsi per procedere.

Senti non ho bisogno della paternale da filosofo proprio adesso. Non so se l’hai dimenticato, ma ho un problema, io.

No, non l’ho dimenticato. Infatti t’ho portato una cosa.

Cos’è? Un pezzo di carta?

Sì, tutto Agostino in un biglietto non ci stava.

«Grande è questa potenza della memoria, troppo grande, Dio mio, un santuario vasto, infinito. Chi giunse mai al suo fondo? E tuttavia è una facoltà del mio spirito, connessa alla mia natura. In realtà io non riesco a comprendere tutto ciò che sono. Dunque lo spirito sarebbe troppo angusto per comprendere se stesso? E dove sarebbe quanto di se stesso non comprende? Fuori di se stesso anziché in se stesso? No. Come mai allora non lo comprende? Ciò mi riempie di gran meraviglia, lo sbigottimento mi afferra. Eppure gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell’Oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi».1

E che significa?

Scoprilo tu, se non ti sei già dimenticato anche di te.

Emanuele Lepore

NOTE
Agostino, Confessioni, X, 8.15

Alla deriva – Recensione di “Agostino” di Alberto Moravia

C’è una spiaggia nel Viareggio, in Versilia, che è senza spiegazioni, senza certezze, che con il suo moto ondoso sa perpetuare le inquietudini di un tredicenne, Agostino, che per la prima volta si scontra con le durezze della vita. Egli è in vacanza con la madre, “una grande e bella donna ancora nel fiore degli anni” e con lei gioca, si tuffa, nuota, ristagna felicemente in quella loro perfetta sintonia.

Quando però la madre comincia a frequentare Renzo, un giovane alto, bruno e abbronzato, Agostino si sente tradito nella sua sicurezza e il cambiamento diventava inevitabile, la sua crescita personale una scelta. Fu in quell’occasione che avvertì la prima grande lacerazione tra se stesso e colei che lo aveva messo al mondo, sarà da quell’occasione in poi che Agostino continuerà ad urlare in silenzio il nome della madre fino a quando non tenterà di ricucire la ferita con un altro tipo di amore, di certo più sintetico, senza però riuscirci.

Umiliato ed amareggiato, Agostino fa la conoscenza di Berto, un coetaneo lentigginoso dalle “pupille celeste torvo”, dalla canottiera “con un largo buco in mezzo alla schiena” e dalla voce che tradiva “un rozzo accento dialettale” e di un paio di altri ragazzini, tutti facenti parte della stessa banda. Con loro, unico adulto, un bagnino di quasi cinquant’anni, il Saro, due mani tozze da sei dita ciascuna.

La seconda metà del libro si snoda perciò tra scherzi grossolani e triviali, pesanti allusioni e seduzioni in un mondo in cui la giovane età non conta, perché nel frequentarli, al di là del ribrezzo, in Agostino restava un inspiegabile piacere. I nuovi amici, rozzi, ottusi e violenti, certo ben lontani dal suo essere un raffinato borghese di città, lo conquistavano, gli rendevano scoloriti i giochi sorvegliati dagli adulti, la collezione dei francobolli e i modi dabbene dei suoi ex compagni di vita, lo allontanavano da una realtà che non sentiva più sua.

Spintosi oltre i confini della prosa, con questo romanzo breve Alberto Moravia indaga le pieghe psicologiche di quell’uomo che, anche se deve ancora crescere, non sa guarire da ciò che gli manca, si adatta, si racconta altre verità. Perché si può nascere vecchi, convivere di già con la nostalgia di qualcosa.

Considerato da molti il suo capolavoro insieme a Gli Indifferenti, Agostino è un libro che con finezza e obiettività ti mostra il passaggio dalla giovinezza all’età adulta senza l’uso di intermediari ma basandosi esclusivamente sul punto di vista di un ragazzino che precipita inconsapevolmente in quella metà di mondo accasciante, dove si sopravvive come si può. E da tutto ciò, Agostino non chiede alcun risarcimento, né dalla scoperta angosciosa e traumatica del sesso né dal tentativo di superare un attaccamento edipico eccessivo. Perché, come dice Moravia, le esperienze che contano sono spesso quelle che non avremmo mai voluto fare, non quelle che decidiamo di fare noi.

Luzia Ribeiro da Costa