L’arte ridotta in polvere: rifare oppure no?

È da ormai molto tempo che vorrei portare all’attenzione comune una tematica particolarmente delicata e discutibile, sulla quale cercherò, per quanto le mie conoscenze storiche me lo possano permettere, di avanzare una riflessione personale. La tematica in questione è quella delle ricostruzioni e dei rifacimenti di edifici e di manufatti artistici distrutti da guerre, terremoti, incendi o qualsiasi altra calamità di cui possano essere stati vittime. Un argomento su cui certo si è già dibattuto molto in passato e ancor oggi si continua a discutere, ma sul quale non c’è una linea d’azione valida per tutti, e pertanto non vi è una verità assoluta, con la conseguenza che non c’è nemmeno chi agisce giustamente e chi sbaglia.

Sì, perché qualsiasi tema delicato che si rispetti fa convergere su di sé una moltitudine di punti di vista che variano soprattutto a seconda della cultura, e dunque spesso della nazionalità, di chi avanza le tesi. In Italia la scuola di pensiero più condivisa e ormai universalmente accettata è quella secondo la quale l’opera architettonica, in caso di danno alla struttura o di distruzione con crolli diffusi, va reintegrata o ricostruita come appariva prima del danno, seguendo quindi scrupolosamente i progetti originari con le eventuali modifiche che vi erano state apportate in fase di realizzazione. Differentemente, la distruzione irrimediabile di un dipinto o di una scultura di grande valore, in quanto opere create dall’abilità manuale di uno specifico maestro del passato più o meno recente, non vanno assolutamente ricreati, a meno di non riuscire a recuperare frammenti originali e ricomporli. Quest’ultima considerazione, ovviamente, vale per qualsiasi manufatto di alta qualità, ivi compresi affreschi ed elaborati pezzi di arredo.

Tuttavia c’è da sottolineare come questo approccio al problema, per altri Paesi, è sensibilmente diverso dal nostro. Emblematico è il caso della Germania, che dopo la Seconda Guerra Mondiale si è ritrovata con una quantità enorme di macerie di edifici storici da ricostruire. Quello che si è fatto, però, va oltre la ricostruzione architettonica, perché in molti casi, come quello della chiesa di Sant’Anna im Lehel presso Monaco o del Castello di Bruchsal, sono stati totalmente ridipinti gli affreschi che decoravano gli interni delle costruzioni (creando di fatto dei falsi), basandosi sui documenti fotografici che li testimoniavano. Questo, ovviamente, in Italia non accade se non in rarissime, e spesso criticatissime, occasioni, come quella del Teatro La Fenice di Venezia, ricostruito dopo il devastante incendio del 1996 esattamente come appariva in precedenza. Quest’ultimo esempio, tuttavia, fa riferimento a un evento accidentale, quale potrebbe essere anche un terremoto. Quello che si è fatto in Germania (e in molti casi anche in Russia) è invece riproporre gli edifici nella loro interezza architettonica e decorativa dopo la loro distruzione causata dalla guerra.

Quello che sembra dunque emergere da quest’ultimo atteggiamento è una sorta di rifiuto di una parentesi storica difficilmente accettabile per recuperare la magnificenza del passato senza scontare il prezzo che la memoria dovrebbe imporre (anche se vi sono le rare e dovute eccezioni). Al contrario, in Italia non solo si paga il giusto tributo alla storia e alle guerre che hanno martoriato il territorio, ma si giunge persino a rifiutare un qualsiasi rifacimento delle grandi decorazioni pittoriche anche nel caso di eventi di tipo accidentale. È possibile, per esempio, che con le attuali tecnologie digitali non si possa riprodurre in modo esatto l’affresco di Cimabue crollato dalla volta della Basilica di San Francesco ad Assisi con il terremoto del 1997? Ma poi sarebbe giusto creare un affresco che, de facto, sarebbe falso? E, dall’altra parte, è giusto rifare per intero complessi decorativi che erano finiti completamente sbriciolati per mano dell’uomo?

Non credo ci sia una risposta esatta o una sbagliata a queste domande, e di conseguenza da parte mia eviterò di prendere una posizione, lasciando aperta la discussione (e la riflessione). Quello che posso limitarmi ad affermare è che da un lato, da buon italiano, l’essere a conoscenza che un affresco o un complesso decorativo è “falso” mi influenzerebbe parecchio nella sua valutazione (in senso negativo ovviamente); dall’altro lato, però, trovo antiestetico e quasi sgradevole vedere interni di chiese o palazzi storici “rattoppati” qua e là con il bianco del recente intonaco che va a coprire le ferite di opere d’arte che credo sarebbe meglio curare piuttosto che amputare.

Cosa fare dunque? La risposta dipende più dalla mentalità di una popolazione che da regole preconfezionate, e una data scelta, in opposizione a un’altra completamente diversa, può essere più o meno condivisibile, ma rispecchierà comunque un preciso modo di affrontare la dura verità della distruzione, che, nel caso tedesco, risulta tanto “vincente” quanto la mentalità stessa che ha permesso all’intera nazione di tornare ai vertici economici in Europa appena qualche decennio dopo la dura sconfitta subita nel 1945.

Luca Sperandio

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

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L’artista: esecutore o creatore? Il caso di Canova

Nell’arte contemporanea la sempre più diffusa pratica, da parte degli artisti, di creare grandi installazioni che talvolta modificano persino la percezione di un paesaggio (si pensi, per esempio, ai Floating Piers di Christo) implica automaticamente che l’artista sia via via diventato, in tempi recenti, il progettista di un’opera d’arte, il suo creatore concettuale, che dà il compito ad esecutori specializzati (a seconda dei materiali e del funzionamento) di realizzare ciò che lui ha pensato e disegnato.

Per molte persone questo fatto ha portato alla perdita, da parte dell’artista, del suo ruolo storico di esecutore e di vero e proprio creatore dell’opera, plasmata non solo dal suo ingegno ma anche dalle sue eccezionali abilità manuali. Tuttavia vi sono numerosi casi storici di grandi artisti, oggi ritenuti fautori di una bellezza ormai perduta nell’arte, che nella realizzazione dell’opera finita, sia un grande affresco o un gruppo scultoreo, non hanno nemmeno dato il loro contributo concreto, oppure sono intervenuti in prima persona in quantità ridottissime. D’altronde non si può pensare che un immenso affresco, come quelli che occupano soffitti di saloni o di chiese per decine di metri quadrati, venga completato da un solo artista: egli è il maestro, ha un ruolo guida nel cantiere e decide, sulla base dei suoi disegni preparatori, eventuali correzioni e modifiche, lavorando alle aree più delicate (le figure umane) e lasciando ad aiutanti e collaboratori l’esecuzione di elementi di minore impegno. Nel caso della scultura si ripete il medesimo discorso, specie se si parla di opere dalle dimensioni grandiose, come, ad esempio, la Fontana dei Fiumi in Piazza Navona a Roma, di Gian Lorenzo Bernini.

Ma proprio nella scultura c’è un caso eclatante che si distingue da tutti gli altri, vale a dire quello dell’artista veneto Antonio Canova, considerato il maggiore esponente del Neoclassicismo in Europa (insieme ai pittori David e Ingres) e il più grande interprete dell’estetica di età napoleonica. L’attività di Canova, infatti, si configura essenzialmente come quella di un imprenditore, il cui lavoro è vendere ai facoltosi clienti creazioni scultoree dal gusto anticheggiante, che richiamino i fasti dell’antica Roma (erano state da poco rinvenute Pompei ed Ercolano) e che diano lustro al loro committente. Il grandissimo successo dei suoi lavori (soprattutto dalla fine del Settecento) gli procurò una clientela vastissima ed esigente, che egli certo non avrebbe potuto soddisfare da solo. Il suo fare arte divenne perciò una specie di impresa, in cui l’opera era solo il risultato finale di un processo in cui egli si occupava quasi esclusivamente dell’ideazione: egli sviluppava uno o più modelli in terracotta che descrivessero l’opera nelle sue linee fondamentali; veniva poi costruito, sotto la sua direzione, un modello in gesso, che fungeva da prototipo dal quale ricavare poi l’opera finita; questa, infine, veniva scolpita su marmo (o bronzo, a seconda dei casi) da una serie di allievi e apprendisti, che avrebbero seguito scrupolosamente le proporzioni del gesso, non obbligando l’artista a intervenire se non nella definizione degli ultimi dettagli. Quando oggi vediamo un’opera di Canova, quindi, vediamo essenzialmente un prodotto delle mani dei suoi collaboratori. Tuttavia, ciò non cambia il valore dell’opera in sé e la sua autenticità: si tratta comunque del frutto della mente e dell’immaginazione creativa dell’artista, cui senza dubbio mancava più il tempo che l’abilità (ben evidente negli eccezionali modelli preparatori in terracotta). L’opera finita, fedelmente tradotta dal gesso (nella cui lavorazione Canova svolgeva una parte attiva ma non solitaria), mantiene tutte le caratteristiche e la qualità da lui desiderate, cosa che ne fa un suo prodotto a tutti gli effetti, non molto differentemente da quanto i Floating Piers sono in tutti i sensi un’opera di Christo, che ne ha sviluppato i progetti e seguito la produzione in prima persona.

 

Luca Sperandio

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

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