Piccole donne di Greta Gerwig. Rivisitazione cinematografica di un capolavoro

Esco dal cinema, gli occhi lucidi, perché? Jo March ha dichiarato il proprio amore a Friedrich Bhaer, Jo March interpretata da Saoirse Ronan – ovvero l’odiosa e cattiva Briony di Atonement (2008) per dimenticare l’impacciata e “frigida” Florence del ripugnante On Chesil Beach (2017) – tra le braccia di Friedrich Bhaer interpretato da Louis Garrel. E potrebbe bastare così, potrebbe bastare cioè che il proprio attore preferito in assoluto stringa a sé l’attrice che meglio di ogni altra riesce a calarsi – fino a essere identificata con esse – nelle parti più scomode e create appositamente per dare fastidio. Ma non basta: sono il décor e l’atmosfera ‒ la giornata in spiaggia con gli aquiloni, le corse sui pattini e sui prati, i riccioli d’oro e le trecce, gli abiti dell’epoca, corsetti e nastrini, i giochi in soffitta tra sorelle, la luce calda delle candele, le note del piano, la colonna sonora composta da Alexandre Desplat, il pennino e la carta, la guerra di secessione americana sullo sfondo, le case tra gli alberi, i balli – ricreati dalla protagonista di Frances Ha (2008) e regista di Lady Bird (2017), Greta Gerwig, che mi lasciano quel senso di bellezza e di grazia.  Non ricordo ahimè molto del libro, tra le mie scarse e svogliate letture da diciassettenne: di certo avevo odiato Amy, trovato relativamente simpatica Meg e provato un rapporto contraddittorio di amore e antipatia per Jo e vedendo Les filles du Docteur March – in inglese sottotitolato in francese esattamente dieci anni dopo aver letto apaticamente il capolavoro di Louisa May Alcott, Little Women (1868-1869), le mie sensazioni sono rimaste invariate.

Greta Gerwig sceglie di non rispettare la cronologia del romanzo, in due volumi, rispettivamente dedicati all’infanzia e all’età adulta delle sorelle, e di creare degli andirivieni tra i due periodi attraverso continui flashback il cui fil rouge è Jo, ideata come alter ego della Alcott. Film quindi che vuole farsi atemporale, una riflessione sull’identità femminile e sull’essere artista: da un lato Meg, interpretata da Emma Watson, signorina dolce e matura, si sposa per amore con John Broke e ha due gemelli, dall’altro lato Jo, un vero maschiaccio, determinata, ribelle e impulsiva, appassionata di letteratura, sogna di diventare una scrittrice, respinge il matrimonio con Laurie, interpretato da Timothée Chalamet – il triste e solitario vicino di casa che grazie alla loro amicizia diventerà socievole e frequenterà il college – e va a New York in cerca di se stessa, libera e indipendente, avverte però la solitudine e vorrebbe amare o forse le basterebbe essere amata, forse vorrebbe ancora Laurie ma alla fine sposerà Friedrich Bahr, insegnante tedesco a Plumfield, la casa ereditata dalla zia March, interpretata da Meryl Streep, e trasformata in una scuola sperimentale. C’è poi Beth – che rappresenta il côté più strappalacrime della storia – morta a diciannove anni di scarlattina, contratta per aver aiutato una famiglia vicina povera e malata, appassionata di pianoforte, timidissima e altruista.  Infine, il “piccolo Raffaello” ovvero Amy, appassionata di arte, goffa, spocchiosa e con il naso schiacciato, sempre la numero due: sarà lei ad andare in Europa con la zia March, che inizialmente aveva proposto il viaggio a Jo, e sarà lei che sposerà Laurie, che si era dichiarato a Jo, vivendo così nell’alta società.

Protagonista indiscussa del film Josephine che corre nella scena iniziale per far pubblicare un suo racconto e che nella scena finale tiene in mano una copia stampata di Little Women dopo aver sparpagliato insonne sul pavimento della soffitta centinaia di fogli riempiti di getto e dopo aver abilmente contrattato le royalties. E Jo così apparentemente forte, iperattiva e tenace, è in realtà una ragazzina fragile che non vuole crescere e che gioca a teatro, affronta la vita ma non con la stessa scioltezza di Meg, dovrà rinunciare a Laurie fedele al suo spirito libero ma piangerà il vuoto d’amore che lei stessa si è creata, si dichiarerà a Fritz sollecitata dalle sorelle e ormai in età matura. È attraverso lo sguardo di Jo che lo spettatore vede il film: la vita passa, restano i ricordi, gli eventi ciclici che inevitabilmente impongono i confronti con gli anni precedenti, la morte dei propri cari e la memoria dei momenti trascorsi insieme che si fissa come una bolla di sapone, gli oggetti (ad esempio la cassetta delle lettere in giardino) che trattengono attimi di vita svanita o che impolverati (i mobili di zia March) sono cullati dal silenzio.

«Vorrei che portassimo ferri da stiro sulla testa per impedirci di crescere. Ma disgraziatamente i boccioli diventano rose e i gattini gatti».

 

Rossella Farnese

 

[Nell’immagine di copertina: una scena del film]

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“Anima Mundi” di Susanna Tamaro: una vita in fiamme alla ricerca del sé

Walter vive border line, sulla soglia di un confine, come il Nord-est da cui proviene. Il suo procedere – quello del mercurio, per natura instabile e in costante (disordinato) movimento – è animato fin dalla nascita da continue domande.

Fuoco, terra e vento sono gli elementi che Walter attraversa nel suo cammino interiore. Fuoco è la voce dell’amico Andrea, Virgilio che gli infonde l’energia necessaria a cercare risposta ai grandi “perché” che combattono nella sua mente.
Terra è il suolo di Roma dove Walter si trasferisce. Illusione di un paradiso che in verità è campo minato su cui lui diventa giullare al servizio di maschere ambulanti.
Vento è l’incontro con una suora che, prima di morire, insinua nella sua coscienza una nuova ispirazione e lo spinge a far luce nell’oscurità che si contorce dentro di lui.

Queste sono le tre fasi che, secondo la tradizione cinese, si alternano in quel percorso che si chiama vita. «Un tempo per crescere, un tempo per sperimentare la precaria seduttività del mondo e un tempo per approdare all’essenza profonda delle cose» (S. Tamaro, Anima Mundi, 1997).

Poi, l’acqua. Brodo primordiale in cui le molecole di amminoacidi hanno continuato a modificarsi finché la vita è comparsa. Quando, cioè, un batterio ha permesso a questi esseri unicellulari di respirare. Ed è proprio da questa immensa pozza che le intuizioni silenti di Walter, con un movimento progressivo di emersione, prendono voce. E lo portano a capire che «la vita non è fatta per costruire, ma per seminare» (ivi). E seminare significa porre attenzione.

Fuggito dal silenzio di una famiglia che gli aveva lasciato in eredità un insostenibile senso di vuoto, Walter è stato privato di un’infanzia di attenzioni.
Una madre sorda all’affetto e un padre rinchiuso nel silenzio violento dell’alcolismo gli hanno negato un dialogo in grado di accompagnarlo alla comprensione di sé e del mondo che lo circondava. Senza nessun filtro preposto a proteggerlo, Walter non ha potuto volare sulle ali dell’idealismo e dell’entusiasmo, validi compagni in quel viaggio complesso che è l’adolescenza.

L’incendio giovanile del protagonista di Anima Mundi, tra passi incerti, illusioni d’amore e parole mai dette tocca l’apice nella prematura scoperta della precarietà delle cose. La sua fuga dalla realtà e da sé stesso prosegue fino a quando capisce che per fuggire bisogna essere inseguiti. Ma alle spalle di Walter, diventato un orfano trentenne, ci sono solo fantasmi. «E chi sfugge ai fantasmi corre incontro alla follia» (ivi).

«C’erano quattro croci dietro di me, la croce di mia madre, quella di mio padre, la croce di Andrea e quella della mia ambizione. Stavano tutte sepolte sotto uno spesso strato di terra […]. Ormai sapevo che tutte le mie azioni erano state soltanto reazioni, tutti i movimenti che avevo compiuto li avevo compiuti in contrasto alla volontà di altri» (ivi).

Il percorso di Walter nell’Anima Mundi, cioè nel respiro del mondo che muove e fa vivere le cose, è un processo che cerca di scardinare due grandi tabù della contemporaneità: quello dell’aggressività e quello dei sentimenti.

«Nessuno vuole ammettere di covare all’interno di sé una parte violenta. E invece noi tutti siamo aggressivi, c’è in noi una zona nera che non conosciamo ancora e che è molta pericolosa» (S. Tamaro, Il respiro quieto, 1996).

Negare l’esistenza dell’aggressività, suggerisce la Tamaro, può portarci alle catastrofi.

«Questo è il grande problema, perché l’aggressività fa parte di noi, una forza vitale che ci appartiene come mammiferi, come parte del regno animale. Bisogna dunque trovare il modo di incanalare questa aggressività, di trasformarla, invece di negarla o reprimerla» (ivi).

L’aggressività celata e disconosciuta nasce da un processo a catena che trova origine nell’assenza della parola. Da questa deriva una mancanza di comunicazione, che a sua volta dipende dall’incapacità di guardarsi dentro. Ma se non ci si guarda dentro, e quindi non si può comunicare, allora la tensione naturale è quella alla sopraffazione.
Allo stesso modo, i sentimenti spaventano e vengono tenuti silenti, probabilmente per il carico di energia che richiedono (e che possono liberare). D’altra parte affrontarli, viverli, richiede forza. Impegno. Vulnerabilità. Nudità. Coraggio.
Privarsene, invece, significa vivere “in tono minore”. Significa vivere per la fuga. Una fuga di sé stessi da sé stessi.

 

Riccardo Liguori

 

[Photo credit Tegan Mierle via Unsplash]

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Libri selezionati per voi: giugno 2018!

Si avvicina la stagione della lettura per eccellenza, soprattutto per i ragazzi, liberi finalmente dagli impegni scolastici. Se state cercando spunti per intrattenervi, ecco a voi i nostri consigli. Variate genere e siate aperti anche ai titoli meno interessanti o alle copertine meno accattivanti… La lettura è e deve essere una piacevole sorpresa!

Buon mese di giugno e buon inizio d’estate!

 

ROMANZI CONTEMPORANEI

chiave-di-sophia-lo-strano-caso-del-cane-ucciso-a-mezzanotteLo strano caso del cane ucciso a mezzanotte – Mark Haddon

La voce narrante è quella del protagonista, Christopher John Francis Boone, un giovane ragazzo di quindici anni affetto dalla sindrome di Asperger, una forma di autismo a causa della quale soffre di problemi comportamentali quali il non sopportare di venir toccato e l’odio per alcuni colori, il giallo e il marrone. La difficoltà di comprendere e relazionarsi con gli altri esseri umani è compensata da straordinarie abilità logico-matematiche: conosce a memoria tutti i numeri primi fino a 7507. Una sera trova il cane Wellington della vicina, la signora Shears, morto e decide di vestire i panni del suo eroe, Sherlock Holmes.

chiave-di-sophia-la-sottile-linea-scuraLa sottile linea scura – Joe R. Lansdale

Texas, estate 1958. Stanley Mitchell, tredicenne, vive in una piccola cittadina che al lettore pare di aver visto tante volte nei film: case di legno, prati verdi, ragazzini che corrono in bicicletta, giovani con il ciuffo mosso dal vento e il risvolto sui pantaloni, tavole calde. Per Stanley quell’estate segna la fine dell’innocenza (à la Stand by Me) e delle illusioni: il mondo dei morti non è così distante da quello dei vivi, le persone sono capaci di uccidere e di compiere violenze inenarrabili, gli esseri umani non sono tutti uguali fra di loro ed i pregiudizi avvelenano le relazioni sociali. La sottile linea scura, dunque, “separa i misteri delle tenebre dalla realtà”.

 

UN CLASSICO 

chiave-di-sophia-il-giovane-holdenIl giovane Holden – Jerome D. Salinger (1951)

Un romanzo di formazione che non stupisce con effetti speciali e vicende sensazionali. Nessun colpo di scena, nessuna grande particolarità, se non Holden Caufield. È questo adolescente demotivato e anarchico, in conflitto con autorità, imposizioni e con se stesso, lui è la particolarità del romanzo. Uno specchio su di noi, sull’essere o esser stati adolescenti con tutte le varie implicazioni quali difficoltà, emozioni, ricerca del proprio senso. Holden si presenta a noi così, diventa un nostro amico, quell’amico in crisi che ognuno ha avuto o è stato, simbolo di un’età complessa quanto stupefacente per ogni essere umano.

 

JUNIOR

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Un gorilla. Un libro per contare – Anthony Browne

Un grande libro illustrato per imparare a contare assieme a tantissimi animali pelosi: gorilla, scimpanzé, macachi.. Divertimento assicurato per i bambini più piccoli. E divertendosi, lo si sa, si impara di più!

 

chiave-di-sophia-cosa-ce-dietro-le-stelleCosa c’è dietro le stelle? – Jostein Gaarder

Se a suo tempo siete stati rapiti da Il mondo di Sofia, vi farà piacere sapere che lo stesso autore si è dedicato anche alla letteratura per ragazzi. In questo libro Gaarder ha messo nero su bianco alcune delle domande con la D maiuscola che noi umani, grandi o piccoli non fa differenza, ci poniamo sul mondo. Da dove viene e chi  ha creato l’universo? Si può fermare il tempo? Ovviamente in queste pagine i vostri ragazzi non troveranno risposte preconfezionate, ma impareranno l’importanza di accettare il fatto che a queste domande si possa rispondere in maniere molto diverse tra loro. Protagonisti del racconto sono Lik e Lak, due bambini che non hanno madre (e quindi nemmeno ombelico) perché esistono da sempre. I due hanno una missione: sbarcare sulla Terra e raccontare a tutti che il mondo in realtà non esiste: esso è soltanto la materializzazione della loro favola preferita. La lettura è adatta ai piccoli filosofi in età della scuola media.

 

Sonia Cominassi, Alvise Gasparini, Federica Bonisiol

 

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“Call me by your name”: sulla bellezza malinconica dell’amore rimasto possibile

Prima di diventare un successo mondiale come film attraverso la raffinata regia di Luca Guadagnino, Call me by your name è un romanzo, scritto dallo statunitense André Aciman. Uno di quei romanzi che più che raccontare una storia dipinge un sentimento, che abbiamo provato tutti anche se forse ce lo siamo dimenticati. L’amore adolescenziale, con la sua violenza totalizzante e quel misto tra pulsante desiderio fisico e idealizzazione della persona amata. Quasi una divinizzazione che ci fa proiettare sull’altro la risposta a tutti i nostri dubbi e l’esaudirsi di ogni nostro desiderio.

È questo che prova il diciassettenne Elio per Oliver, giovane e affascinante dottorando americano, ospite per l’estate della famiglia di Elio. Quando infatti Oliver chiede al ragazzo “Ti piaccio così tanto?” Elio risponde candidamente “Se mi piaci, Oliver? Io ti adoro”.

E in questa adorazione anche avere ed essere si mescolano, il desiderio di possedere la persona amata si trasforma in quello di essere come lui. In quest’età confusa, in cui la nostra identità è più fragile e iniziamo a chiederci chi siamo e chi vorremo diventare, la persona amata diventa anche un modello:

«Volevo essere come lui? Volevo essere lui? O forse volevo solo averlo? Oppure essere e avere sono verbi del tutto inadeguati nell’intricata matassa del desiderio, per cui avere il corpo di qualcuno da toccare ed essere quel qualcuno che desideriamo toccare è la stessa cosa?».

Per questo Elio e Oliver si scambiano il proprio nome, come il titolo suggerisce. È un gioco erotico ma anche qualcosa di molto più profondo: uno scambio di identità, un annullamento della propria personalità per fondersi con l’altro, per superare i confini ontologici che ci dividono e diventare come lui, diventare lui, essere insieme una cosa sola.

Spesso con amore adolescenziale si intende un sentimento immaturo, una cotta estiva destinata a essere dimenticata. Aciman mostra invece tutto il potere di questo primo amore, inesperto ma forse per questo ancora più autentico, fondante perché è il primo della nostra vita. Crescendo Elio e Oliver prenderanno inevitabilmente strade diverse, ma non potranno mai dimenticarsi di quel momento in cui hanno annullato la propria identità per fondersi l’uno con l’altro. Quell’estate insieme rimarrà un momento di felicità totale, incastonato nel tempo e non diluito dalla quotidianità. Il simbolo di una felicità perfetta e struggentemente malinconica, perché rimasta nel regno del possibile che non si può tradurre in realtà:

«Questa cosa che quasi non fu mai ancora ci tenta, avrei voluto dirgli. Quei due non possono disfarla, né riscriverla, né far finta di non averla vissuta, nemmeno riviverla; è lì, bloccata, come un’apparizione di lucciole in un campo d’estate verso sera, e continua a ripetere a ognuno di loro: Avresti potuto avere questo, invece. Ma tornare indietro è falso. Andare avanti è falso. Far finta di niente è falso. Cercare di rimediare a tutte queste falsità è a sua volta falso».

 

Lorenzo Gineprini

 

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Convinzioni adolescenziali. Storia di un moto rettilineo uniforme

Egon Schiele fu solo uno fra i tanti che cercava, lui a colpi di pennello, di fissare nella tela un attore sociale ancora libero da qualsiasi compagnia teatrale: il giovane, colui che non è un infante ma nemmeno un adulto. Per farlo, il pittore austriaco si servì di contorni sfumati, colori contrastanti e volti androgini segnati da turbamenti esistenziali tanto estremi quanto ingenui. Una volta intrappolato in dei confini, si passò alla catalogazione: un metodo utile per riordinare gli scaffali dell’ordine mondiale. Sezione? Psicologia genetica. Autore? Stanley Hall, uno psicologo americano che nel 1898 coniava il termine “adolescens” per descrivere i giovani tra i 14 e i 24 anni.1 Improvvisamente un nemico interno, sconosciuto e formato da sessuomani psicotici si vide trasformato in una massa pronta da sfruttare o mandare al macello per mano di padri frustrati per la propria inettitudine. Tutt’altro che un’invenzione quella degli adolescenti, ma un piano accurato di sicurezza interna e riorganizzazione del corpo della nazione che proveniva da lontano.2  

Una delle possibili radici di questo, quanto mai forzato, piano inclinato venne scoperta nel 1835 da sprezzanti giuristi e famelici psichiatri nel comune di Aunay, in Normandia. Qui un giovane contadino (doppio grado di subalternità), Pierre Rivière, era stato condannato alla pena di morte per aver sgozzato sua madre, sua sorella e suo fratello. In questo micro-contesto dove l’alto (gli studiosi) venne morbosamente ad invadere il basso (il villaggio) in cerca dell’indicibile, Pierre Rivière venne assunto come caso studio.

Ancora una volta la scienza si appropria indebitamente di una personalità fluttuante, fissandola scrupolosamente in una nota a piè di pagina.

Inoltre, poiché considerato un contadino bifolco, Pierre Rivieré verrà riposto ai margini velocemente dopo un’insperata popolarità che molte volte la cronaca nera trascina con sé. Ad interessare non è tanto la persona, quanto sono le sue azioni, le sue pulsioni e il suo aspetto, tutti elementi plasmati a piacimento secondo le diverse logiche che caratterizzano narrazioni pronunciate da svariati attori. Vi è il giurista che descrive Pierre Rivière come una persona malvagia e capace di commettere qualsiasi crimine a causa di una educazione ricevuta ritenuta non adeguata. Vi è il medico con la sua onnipotenza professionale che bolla il giovane come un alienato mentale in base a principi ereditari e comportamentali, i quali a loro volta si basano su aneddoti raccontati dalle persone del villaggio; ma questo non ditelo agli studiosi, ne va della loro presunta imparzialità. Vi sono infine, per l’appunto, i testimoni incalzati da domande che portano in serbo risposte già previste. Ecco allora fuoriuscire dal ventre della Normandia racconti di episodi che certificano come il giovane fosse destinato fin dall’infanzia a commettere un tale esecrabile delitto.

Pierre Rivière e l’adolescente di Stanley Hall sono segni rivelatori di una tendenza di stampo paternalistico volta ad assicurarsi ripetutamente il controllo delle loro creazioni, i figli. Entrambi i tentativi si basano su discorsi, quello medico-sociale e quello giuridico, volti a prevenire e a bloccare pulsioni capaci di scardinare gerarchie solitamente basate su quante rughe segnino il volto. In ogni caso per quanto queste due storie possano offrire diversi parallelismi o addirittura una delle tendenze di fondo che portarono alla periodizzazione “adolescente”, state in guardia a non fare come lo psicologo, il medico o il giurista. Ciò che ricerchiamo paradossalmente potrebbe non esistere. Ciò che crediamo è plausibile che non sia mai avvenuto. Teniamoci le nostre convinzioni a patto di essere consapevoli che sono solo un frammento della Verità. Non livelliamo sempre per togliere le increspature, uniche tracce di vitalità intellettuale.

Marco Donadon

NOTE:
1. Se il termine venne coniato nel 1998, “Adolescens” sarà utilizzato da Stanley Hall come titolo del volume che verrà pubblicato nel 1904.
2. Riprendendo le tesi del volume L’invenzione dei giovani del giornalista Jon Savage. Per arrivare al termine “adolescente” ci son voluti fior fiore di articoli e dibattiti scientifici.

BIBLIOGRAFIA:
Io, Pierre Rivière avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello … . Un caso di parricidio nel XIX secolo, a cura di Michel Foucault, Einaudi, Torino 2007.
– Savage Jon, L’invenzione dei giovani, Feltrinelli, Milano 2012.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Cavalli bianchi e zucchero filato

Quando sei piccola ti raccontano le favole e tu ascolteresti per ore quelle storie di amicizia, amore e allegria dove il bene vince sempre sul male. La vita sembra fatta di giostre e zucchero filato e tu giri a 1000 all’ora su quel cavallo bianco, sorridendo alla mamma che ti guarda compiaciuta e abbozzante un sorriso di orgoglio.

 
Ad un tratto esplori per la prima volta il sentimento dell’amicizia, quella pura e ingenua, che ti rende una cosa sola con l’altra persona: condividi i tuoi giochi preferiti, mangi il gelato insieme, vai su quel famoso cavallo bianco con quella persona dietro di te che ride felice di ciò che siete insieme.
 
– Io e te saremo migliori amiche per sempre!
– Sicuramente! Niente ci potrà mai dividere!
– Ok facciamo un patto: io ti regalo il mio cavallo bianco di peluche preferito e tu lo dovrai conservare fino a quando saremo amiche.
– Ma quindi per sempre!
– E certo per sempre! Tanto essendo amiche ci potrò giocare ancora lo stesso no?!
– Va bene!
 
Il mondo corre veloce e il tempo ruota attorno a quell’ansia positiva di potersi vedere, per giocare o per stare insieme a fare i compiti.
 
Il tempo da piccoli è amico: scorre veloce quando vuoi che il momento passi in fretta e si dilunga non appena è Natale.
 

Eppure esso scorre inesorabile, senza soste, senza limitazioni e soprattutto indifferente.

 
E la cosa, forse, peggiore è che ti fa crescere.
 
Un giorno, infatti, ti ritrovi cresciuta e scopri che vivere non è quella giostra,  non è il cavallo bianco e non sa di zucchero filato.
Cammini avanti e indietro per la stanza e per caso, buttato in angolo, tutto grigio, trovi il cavallo bianco di peluche.
Sì, proprio quello del patto, quello del ‘saremo amiche per sempre’.
Non ha più lo sguardo fiero, il pelo è arruffato e non ha più l’odore di nuovo di tanti anni fa.
 
– Chissà che fine avrà fatto…
 
Quell’amica con cui hai condiviso la tua infanzia, i tuoi allegri pomeriggi di merenda e compiti ad un tratto sparisce quasi senza che tu te ne accorga.
Basta cambiare scuola, mutare i propri ritmi, i propri interessi per intraprendere strade diverse che inevitabilmente allontanano.
 
E ti ritrovi amica di altre ed hai una nuova amica del cuore a cui confidi le prime delusioni d’amore e di nuovo il tempo scorre e ti sembra di avere trovato colei con cui condividere le prime esperienze adolescenziali.
La purezza del cavallo bianco però non c’è più.
L’invidia pacata, la maggiore consapevolezza ti rendono incapace di abbandonarti del tutto al sentimento semplice del bene, inteso come empatia, comprensione e ascolto.
 
Passano gli anni e ti ritrovi adulta.
Ti guardi attorno e vedi sul letto di tua figlia un cavallo bianco di peluche.
Lo afferri e lo annusi: sa di pomata per bambini.
 
– Quanto adora questo cavallo Margherita!…
Ma chissà dove sarà finita quella mia amica…
 
Ad un tratto quel vecchio cavallo ormai grigio ti lancia un indizio domandandoti: ‘Perché mi hai ancora qua, dopo che abbiamo cambiato una decina di case e di città?’
 
E tu non sai rispondergli perché hai perso la purezza di quando l’avevo ricevuto in regalo come pegno ‘d’amore’.
Pensi solo a quei giorni indelebili nella mente, a quella giostra che girava inesorabile sempre uguale e inizi a sorridere di quanto bastasse poco per essere felici.
 
Ti rendi conto di quanto quei ricordi siano importanti per sentirti sempre a casa anche quando non sei mai più a casa tua da anni perché tuo padre viaggiava e tu dovevi seguirlo; capisci che quel cavallo bianco è una delle tue radici, forte e che non ha bisogno di essere nutrita perché resistente a traslochi, lavaggi e stropicciamenti da parte di bambini.
 
Tutta la consapevolezza di non essere mai sola deriva da quel cavallo che se odori meglio sa ancora di zucchero filato e se chiudi gli occhi senti ancora quelle voci gaudenti di due bambine che sono cresciute insieme e che poi la vita ha inevitabilmente diviso arricchendosi di esperienza, sorrisi, sacrifici e ricordi.
 
In un momento tutto ti è più chiaro: l’amicizia si rinnova, di giorno in giorno, di anno in anno, e si alimenta anche col solo pensiero o, meglio, col solo ricordo.
Tu sei ancora amica di quella bambina, ovunque essa sia.
Il cavallo ce l’hai solo tu e in qualche pomeriggio nostalgico anche lei penserà a te.
 
Essere amici significa sentirsi col pensiero, ricordarsi, incontrarsi empaticamente, esserci ieri oggi domani, anche solo per pochi istanti. Il legame interno rimarrà, ieri oggi e domani; si arrugginirà, si opacizzerà, si allenterà, ma il tuo bisogno interiore di salire ancora su quella giostra con lei sarà più forte, più struggente e nemmeno la lontananza geografica potrà spezzarlo.
 
L’amicizia dei bambini è innocente, disinteressata, coinvolgente e spronante: non bisogna guidarla e men che meno pilotarla.
Il bambino sa, intuisce e percepisce l’empatia e il suo cavallo bianco lo donerà di sicuro alla persona giusta.
 
Valeria Genova
[Immagine tratta da Google Immagini]

Io e Te – Niccolò Ammaniti

Qualcuno sostiene che non si possa scegliere il modo in cui dovremmo essere e che la Natura che risiede in noi sia indipendente dalla nostra forza di volontà e dalla nostra capacità di cambiare. Ci vengono dati gli elementi del nostro carattere alla nascita, in un calderone di ingredienti che non siamo mai perfettamente pronti a mescolare. Perché non siamo capaci. Perché non siamo abbastanza coraggiosi. Perché non siamo obiettivi. Perché non ci sentiamo mai abbastanza pronti.

Perché – forse – senza essere in DUE, non si è mai abbastanza pronti ad affrontare la vita.

 Lorenzo è un adolescente come tanti; uno di quelli che non si piace, uno di quelli che non si sente accettato, uno di quelli a cui – per dirla tutta – di essere accettato non interessa proprio niente.

Questo il primo tra i motivi per i quali decide di fingere di partire per una settimana bianca a Cortina con dei suoi compagni di scuola, questo il motivo per cui inscena questa vacanza, mentre decide di rimanere chiuso nella cantina di casa sua per una settimana intera.

Genitori entusiasti del fatto che lui abbia finalmente degli amici, desiderio di risultare invisibile soddisfatto, il videogioco che preferisce, qualche lattina di Coca-Cola; tutto sembra organizzato nel migliore dei modi.

Eppure, a quel disegno così preciso, va aggiunto un tassello in più: in quella cantina si rifugerà anche la sua sorellastra Olivia, che Lorenzo non vede da qualche anno.

Olivia ha circa dieci anni in più di lui ed odia il loro padre; è la figlia “abbandonata”, la figlia accontentata soltanto tramite il denaro, la figlia che si sente sbagliata perché ha sempre avuto un motivo per sentirsi tale.

Olivia e Lorenzo non potrebbero essere più diversi e, al tempo stesso, non potrebbero avere di più da condividere. Sentirsi inadeguati in un mondo che non sembra accettarli, sentirsi insoddisfatti pur apparentemente avendo tutto. Beni materiali, giovinezza, una vita davanti, una dose di leggerezza che pesa troppo sulle spalle dell’una e troppo poco sulle spalle dell’altro. Spesso si ha solo bisogno di trovare un compagno di avventure, di trovare un qualcuno che pur non somigliandoci ci proietti nel suo universo mostrandoci che non è poi tanto diverso dal nostro. Abbiamo bisogno di notare che qualcuno possa prendersi cura di noi; una cura poco materiale, una cura costruita su basi più solide di quelle di tutti i giorni.

Olivia non è una sorellastra come le altre: non è amorevole, non è capace di badare nemmeno a se stessa. Lorenzo non è un fratellastro da controllare, perché nella sua solitudine interiore sembra aver già capito come funziona la vita. Entrambi hanno qualcosa da insegnare all’altro, entrambi hanno opinioni da raccontare, entrambi hanno una prospettiva diversa da scoprire.

L’adolescenza non è così lontana dalla prima età adulta; c’è sempre tempo per iniziare ad uscire dalla propria inadeguatezza, c’è sempre tempo per combattere, oppure non ce n’è più.

C’è sempre tempo per farsi delle promesse, non c’è sempre la forza di mantenerle. C’è sempre la possibilità di incontrare qualcuno che ci guidi, nonostante non ci sia sempre la bravura di farsi tenere per mano.

Niccolò Ammaniti ci regala un romanzo breve ed intenso, un romanzo che sa dirci così tanto oltre a quello che possiamo leggere e che tenderà a stupirci dalla prima all’ultima pagina.

Perché non sono soltanto coloro che non possiedono nulla a sentirsi inadeguati, perché non sono soltanto gli incompresi quelli che hanno bisogno di una strada, perché c’è sempre tempo per ricominciare daccapo, ma non è detto che ci si riesca.

Non tutti siamo capaci di diventare grandi con l’approvazione del resto del mondo, non tutti siamo capaci di essere chi dovremmo essere.

Siamo semplicemente “come ci viene”, come ci riesce. Siamo semplicemente.

E una strada in salita non è detto che non ci venga più facile percorrerla camminando all’indietro. E un muro come quello della crescita non è detto che saremo in grado di abbatterlo, perché potrebbe venirci semplicemente più semplice scavalcarlo.

Bevo un sorso di caffè e rileggo il biglietto.

– Caro Lorenzo, mi sono ricordata che un’altra cosa che odio sono gli addii e quindi preferisco filare prima che ti svegli. Grazie per avermi aiutata. Sono felice di aver scoperto un fratello nascosto in una cantina. Ricordati di mantenere la promessa,

Tua, Oli –

 Oggi, dopo dieci anni, la rivedo per la prima volta dopo quella notte.

(Io e te – Niccolò Ammaniti)

Cecilia Coletta