“Idda” di Michela Marzano: un viaggio sull’amore, l’identità e la memoria

A fine febbraio, in occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo Idda, abbiamo avuto il piacere di incontrare per la seconda volta nella nostra Treviso, presso la libreria Lovat di Villorba, la filosofa e scrittrice Michela Marzano. E non c’è dubbio, la sua straordinaria capacità di trattare l’umano da vicino, cogliendone la vulnerabilità estrema e le fragilità, riuscendo a nominarla con una delicatezza e una sensibilità rara, ha nuovamente travolto e attraversato i cuori del pubblico. La sala era gremita e gli applausi si alternavano a istanti di commozione durante i quali il racconto dell’autrice lasciava spazio alle storie di vita delle persone sedute in sala.

Michela Marzano è docente ordinario di filosofia morale all’Université Paris Descartes e si occupa principalmente delle questioni legate alle tematiche di etica medica, al corpo, all’identità, alla violenza di genere e ai diritti civili. Oltre ai numerosi saggi, ricordiamo il best-seller Volevo essere una farfalla, L’Amore è tutto, è tutto ciò che so dell’amore, vincitore del 62^ premio Bancarella nel 2014 e i due primi romanzi L’amore che mi resta (Einaudi, 2017) e Idda (Einaudi, 2019).

 

Idda è il secondo romanzo che hai scritto. In precedenza ti sei dedicata ai saggi. Da che cosa ha avuto origine questo spostamento dalla precisione della struttura argomentativa propria del saggio alla libertà narrativa della fiction di un romanzo?

Credo che lavorando su questioni che riguardano la vulnerabilità dell’esistenza, la finitezza, le fratture, le contraddizioni dell’umano,  il saggio rappresenti, almeno per me, uno strumento troppo stretto, nel senso che non era più sufficientemente capace di parlare di tutti questi temi.

Quando si scrive un saggio si hanno delle ipotesi, ci si poggia su una determinata bibliografia, si argomenta e si spiega. Il problema, però, è che quando si affrontano le questioni legate alla fragilità al plurale, più che spiegare e argomentare, abbiamo bisogno di mostrare e di raccontare. Già Umberto Eco diceva che quando viene meno l’argomentazione si deve narrativizzare, cioè “narrare per mostrare”, al fine di permettere alle persone di identificarsi in determinate situazioni, che sono poi quelle che a me piacciono, di cui mi piace parlare.  Ho quindi avuto la sensazione, pian piano, che la scrittura narrativa mi permettesse di andare molto più lontano rispetto alla scrittura saggistica.

 

Puoi raccontarci da che cosa è emerso il bisogno di scrivere Idda?

Io direi che ci sono due punti di partenza dietro al bisogno di scrivere questo libro. Da un lato, ciò che mi ha spinto è stata  la domanda esistenziale-filosofica riguardante l’identità personale, cioè: chi siamo quando pezzi della nostra esistenza scivolano via? E quindi, siamo sempre le stesse persone di prima quando cominciamo a non riconoscere più le persone care oppure, quando cominciamo a non riconoscerci guardandoci allo specchio? Questi quesiti hanno costituito la guida direzionale per affrontare e dare un tassello supplementare alla questione dell’identità personale.

Dopodiché, c’è stato l’Evento, che per me è sempre importante, e che, nel caso specifico, riguarda la mamma di mio marito, Renée. Renée si è ammalata di Alzheimer e se n’è andata in punta di piedi ad ottobre dell’anno scorso. Idda nasce dall’urgenza e dall’esigenza di raccontare com’è e che cos’è la vita di una persona che comincia effettivamente a mescolare tutto, dimenticando pezzi della propria storia dove tutto dventa confuso.

Ho voluto raccontare quindi anche quello che ho scoperto confrontandomi con la mamma di mio marito, cioè il fatto che in realtà non è vero che, con una malattia come quella dell’Alzheimer, una persona cambia drasticamente. In realtà, ciò che resta è l’essenziale, l’essenziale di una vita, quegli episodi che ci hanno talmente tanto marcato da costituire la nostra identità, quegli istanti che non scivolano via, quell’affettività che noi teniamo sempre accanto, all’interno di noi anche quando razionalmente ci allontaniamo dagli altri. Quell’affettività e quell’amore che nemmeno l’oblio più profondo riesce a cancellare.

 

Nel libro si parla di quello che ciò che gli specialisti definiscono residui di sé. Come secondo te possono essere definiti questi residui del sé?

Io direi che questi residui di sé possono essere rappresentati dall’affettività, dalla familiarità con le cose care. Annie, la protagonista del libro, talvolta, non riesce più a riconosce Pierre, il figlio, come tale; tuttavia, nemmeno per un istante pensa che Pierre sia un estraneo perché egli resta sempre all’interno della sua sfera affettiva. Anche se a volte Pierre diventa il marito, altre volte il padre, dentro di lei resta quel “qualcosa” che fa sì che, di fatto, quello che c’è stato non scomparirà mai,  quell’amore resterà per sempre.

 

La filosofia in Italia solo in tempi recenti sta tentando di ridurre quella distanza esistente tra la ricerca e lo specialismo filosofico, proprio dei contesti accademici, e le esigenze culturali di un pubblico popolare. Se e in che modo secondo te la ricerca filosofica e la sua divulgazione possono dialogare in modo sinergico?

Ritengo che la ricerca filosofica e la divulgazione dovrebbero dialogare in modo sinergico. Basti pensare al pensiero di Socrate, il quale camminava per le strade della città e dialogava con i cittadini, cercando maieuticamente di far maturare la riflessione, lo spirito critico. Se dunque partiamo dal presupposto che la natura della filosofia è di essere dialogica, il pensiero stesso non può essere rinchiuso all’interno della torre d’avorio. Forse, infatti, dovrebbe dimenticare un po’ di quei tecnicismi che lo stanno facendo soffocare.

Dobbiamo tornare a dialogare e a permettere alla filosofia di essere filosofia, un pensiero alla fine incarnato. Credo che però, in questo, ci sia una grande responsabilità da parte di molti accademici che hanno immaginato di poter fare della filosofia una disciplina da laboratorio. Al contrario, fare filosofia significa trattare le questioni sull’umano, ed è per questo che un tale oggetto di ricerca non lo si può trattare se non con e attraverso gli umani.

 

Obiettivo de La Chiave di Sophia è quello di aprire la filosofia ad un pubblico eterogeneo e neofita, proponendo questioni centrali per l’individuo e connesse fortemente con la vita quotidiana. In che modo secondo te la filosofia può sempre più avvicinarsi a chi non ha mai avuto modo di approcciarsi ad essa?

Ritengo che alla base della filosofia ci sia, nonostante tutto, una grande domanda di senso, una richiesta di strumenti per trovare una propria direzione verso cui andare. Per questo, penso che possa essere anche “facile” avvicinarsi alle persone. Queste, infatti, non aspettano necessariamente delle risposte, anche perché non è proprio lo scopo della filosofia sempre e solo dare delle risposte; al contrario, trovare il modo di porre delle buone domande e poter elaborare degli strumenti critici per poi costruire il proprio futuro: questa è la ragione dell’esistenza del pensiero che poi non è altro che ciò che accomuna ciascuno di noi. Proprio per questo, può diventare “semplice” avvicinarsi al pubblico: in questo momento storico, le persone dispongono di domande di senso e esprimono il bisogno di strumenti capaci di permettere loro di dare un senso alla propria esistenza.

 

Greta Esposito e Sara Roggi

 

banner 2019

Libertà di espressione in ambito accademico

Il professor Ezra Ovadia dell’Università di Tel Aviv ha redatto nel 2006 un articolo partendo da un dibattito tenutosi all’università ebraica di Gerusalemme. Il dibattito ruotava intorno ad un controverso corso, dal titolo Feminism Rejected, tenuto nel 2000 da Martin Van Creveld, esperto di Storia militare. Il professore aveva espresso le proprie opinioni riguardo la superiorità dell’uomo sulla donna e aveva spiegato le ragioni per cui il movimento femminista non avesse ottenuto risultati significativi e fosse quindi da ritenersi fallimentare. Ovadia ha evidenziato come il contenuto del corso potesse essere considerato fonte di denigrazione e incitamento all’odio. Il corso violava, inoltre, il principio di dignità umana, un principio che per la sua stessa natura deve essere riconosciuto ad ogni uomo in quanto parte costituente dell’umanità a prescindere da ogni differenza. È doveroso a questo punto analizzare l’eventuale legittimità di un corso di questo genere partendo dalla libertà di espressione in ambito accademico: la libertà deve essere assoluta, arrivando a comprendere la possibilità di tenere corsi discriminatori ed offensivi, oppure è opportuno limitarla con accorgimenti e restrizioni nel rispetto della dignità della persona al fine di salvaguardare e garantire la civile convivenza? Nel suo articolo Ovadia riporta opinioni opposte sul tema della libertà di espressione. Da una parte l’opinione del filosofo britannico John Stuart Mill, favorevole ad una totale libertà di espressione poiché le posizioni dominanti al momento o politicamente corrette potrebbero essere errate e l’esclusione di altre teorie potrebbe portarci a non riconoscere l’opinione corretta. Sempre secondo Mill, inoltre, l’opinione comune e quella divergente potrebbero non essere abbastanza persuasive e potrebbe diventare necessario fare una sintesi tra le due posizioni. Inoltre, il dibattito con coloro che sostengono posizioni palesemente sbagliate serve a rafforzare le nostre opinioni: potremmo esserci dimenticati il perché avevamo originariamente sostenuto quella posizione e lo scontro con un’opinione divergente ci aiuterebbe a confermare la nostra scelta.

All’opposto di tale posizione, riporta Ovadia, si schiera la ricercatrice australiana Katherine Gelber, esperta nel campo della libertà di parola e della regolamentazione del discorso pubblico. Secondo la Gelber è necessario limitare la libertà di espressione in ambito universitario dato che lo status di accademico conferisce un prestigio e un’autorevolezza che non possono essere appannaggio di opinioni troppo controverse.

Tenuto conto del dibattito riportato da Ovadia, l’ipotesi di censurare a priori il corso rischierebbe di ledere la libertà di insegnamento e con essa la libertà di espressione. Nell’intento di eliminare dall’approfondimento scientifico ogni argomento considerato scomodo e urticante si correrebbe il rischio di commettere gli stessi errori perpetrati a suo tempo da sistemi dittatoriali, come ad esempio quello dell’Italia fascista quando ai professori universitari fu chiesto di giurare fedeltà al regime.

Una soluzione immediata potrebbe concretizzarsi nella possibilità – da parte dello studente – di rinunciare a priori alla frequenza del corso rivendicando così la propria libertà di scelta e di ascolto. Sarebbe invece più auspicabile considerare la necessità di organizzare corsi accademici sotto forma di lezioni interattive che da un lato contribuirebbero ad impedire intenzioni o azioni propagandistiche a sostegno di una qualche ideologia, dall’altro permetterebbero punti di vista divergenti utili allo studente e al docente per esprimere il proprio pensiero nella più totale sicurezza e nel più indiscusso rispetto.

A prescindere dall’esito della questione trattata, il dibattito è molto attuale in particolare nella società occidentale che ha fatto della tolleranza, almeno formale, la sua cifra distintiva. Ogni giorno i media offrono idee sempre più controverse e politically incorrect da parte di politici e opinionisti desiderosi di imporsi nel saturo mercato dell’informazione. Solo posizioni particolarmente esagerate e caricaturali riescono ad emergere dal continuo flusso informativo indifferenziato. Questi problemi interessavano già l’epistemologo Karl Popper, che nel 1945 proponeva il cosiddetto paradosso della tolleranza: una società estremamente tollerante a tutte le idee è destinata a collassare poiché le idee intolleranti finiranno per trionfare e porre fine alla tolleranza stessa. Per Popper è quindi necessario un certo margine di intolleranza contro coloro che si proclamano apertamente intolleranti e discriminatori. Facile è segnare come intolleranti posizioni esplicitamente eversive o violente, mentre ben più complesso è definire il raffinato e argomentato maschilismo del professor Van Creveld. Come evidenziato da Ezra Ovadia, al docente è offerto un ben remunerato posto in una università pubblica, la più antica dello Stato di Israele. In tal modo lo Stato stesso finisce per legittimare posizioni contrarie alle più elementari norme del diritto contemporaneo. Il problema, quindi, è anche quello di dare una definizione ontologica del concetto di intolleranza, rapportandola al contesto socio-culturale occidentale e vederne i presupposti e gli effetti.

Costruire un mondo dove le differenze biologiche sono fonte di discriminazione è effettivamente pericoloso poiché potrebbe giustificare ogni sorta di discriminazione di qualsiasi tipo, ad esempio nei confronti dei calvi, bassi, sordi, ovvero dell’intero genere umano. Al fine di impedire un simile accadimento è auspicabile un agire collettivo che prenda forma e acquisti progressivamente forza entro la collettività stessa.

 

Ilaria Billeri, Daniela Lucatelli, Pierluigi Bolioli

 

Ilaria Billeri, 22/05/1972 Pontedera, laureata in Lingue e Letterature Straniere presso l’Università di Pisa, docente di Lingua e Letteratura Inglese e francese, attualmente allieva magistrale del Corso di Laurea in Filosofia e Forme del Sapere, autrice di componimenti poetici editi in riviste e collane di poesia e narrativa.
 
Daniela Lucatelli, Viareggio. Laurea in Lettere presso l’Università di Pisa. Insegnante di Lettere. Attualmente iscritta al corso di laurea in filosofia e forme del sapere a Pisa.
 
Pierluigi Bolioli, dottore magistrale in storia, studente della laurea magistrale in filosofia.
 
[Photo credits: unsplash.com]
 
Sul tema dell’informazione si è confrontato anche un altro gruppo di studenti dell’Università di Pisa in questo articolo.

Se questa è filosofia (seconda parte)

Per riprendere e avviare verso una possibile conclusione un discorso che forse è inconcludibile (e che ho aperto qui), credo che ci si debba ora chiedere come si sia arrivati alla sostituzione della filosofia con la sua filologia e storiografia. Le linee di riflessione attorno alle quali propongo di andare alla ricerca di una possibile risposta, sono essenzialmente due.

Primo. Un costante accrescimento del fenomeno della reificazione, introdotta forse, e forse involontariamente, nel pensiero occidentale dalla logocentrizzazione operata da Platone. Dialettica che è diffusamente descritta da diversi autori, ciascuno nei suoi propri termini ma tutti accomunati dal fil rouge della riduzione dei margini del pensare: dall’heideggeriano oblio dell’Essere all’unidimensionalità marcusiana, dalla francofortese dialettica dell’illuminismo alla benjaminiana riproducibilità tecnica dell’arte, dalla andersiana antiquatezza dell’uomo alla pasoliniana omologazione e mutazione antropologica – sia chiaro, en passant, che nessuno di questi autori è un passatista antimodernista critico di ogni cambiamento e della modernizzazione in sé, la critica è invece verso una certa, questa, modernizzazione.

Secondo. Eppure, il filone di riflessione qui sopra accennato non assume quel certo sviluppo come una necessità, ma come una possibilità – almeno fino ad un eventuale punto di non ritorno. Resta quindi da dar conto del fatto per cui tra quella possibilità ed altre, abbiamo imboccato proprio quella – che stiamo vivendo. E qui si devono fare i conti con un tema troppo trascurato: la brama di potere. Infatti, chi vuole detenere un potere può farlo solo se e quando lo stesso può esercitarsi su cose. Il potere è infatti potere di disporre delle cose, ma per disporne bisogna poterle afferrare e per poterle afferrare devono essere oggetti. Un sovrano come può disporre della popolazione se non riducendola prima ad oggetto, pertanto impersonale, del potere – si noti che la legge designa sempre individualità impersonali? Un medico come può disporre di corpi se non riducendoli prima ad una somma di leggi che lui sa gestire? Un accademico che sia interessato ad amministrare le decisioni dell’accademia come può legittimarsi se non riducendo il sapere ad una somma di nozioni che lui sa amministrare? E possono costoro accettare che una possibile diversa ermeneutica metta in discussione quella certa epistemologia che serve loro per essere legittimati nel possesso del potere? Evidentemente no. Ecco che una certa forma della conoscenza, reificata, nozionistica, si impone come l’unica forma possibile, rappresentando il necessario fondamento epistemologico per il possesso del potere.

Fino a quando non faremo i conti anche con le miserie dei singoli individui, oltre che con la descrizione delle marco-dialettiche in cui viviamo, continueremo a stare nell’equivoco di scambiare per dato di fatto oggettivo quella che invece è una certa modalità di interrogare il mondo – e sia chiaro che il mondo risponde in base a come è interrogato.

E tuttavia questo sembra essere il classico cane che si morde la coda: più si accrescono quelle macro-dialettiche, più diminuisce la capacità di leggere il singolo al di fuori delle stesse, ovvero, la sensibilità di percepire l’epistemologia in cui ci si trova e altre possibili.

Per concludere sgombrando il campo da possibili equivoci, in questi due brevi articoli andati sotto il titolo di Se questa è filosofia, ho cercato di mettere in evidenza la differenza tra il pensare e lo studio del pensato. Differenza particolarmente trascurata in ambito umanistico, arrivando fino alla grottesca indistinzione tra filosofia e sua filologia e storiografia. Con questo però non intendo dire che allora la filosofia sarebbe quella che socraticamente si fa per strada, che necessariamente è al di fuori dell’accademia, oggi prevalentemente nello spettacolo dei mass-media. La differenza che ho cercato di mostrare non ha a che fare primariamente col luogo in cui si fa filosofia, pensiero – da qui poi tutta la retorica della critica alla torre d’avorio, retorica che però si dimentica che anche la strada è una torre d’avorio quando ci si rifugia in essa senza considerare cosa sta avvenendo in essa e tagliando aprioristicamente con tutto ciò che è fuori di essa. Limitandosi alla solo critica della sede, infatti, può benissimo rimanere il peccato originale: il rivolgersi a un’audience, a un pubblico, anziché a un altro se stesso.

La differenza essenziale tra lo studio e/o la divulgazione del già pensato e il pensare, sta nel fatto che la prima cosa ha a che fare con la fruibilità, la spendibilità, mentre il pensare è un discorso per, a se stesso – a cui solo secondariamente accede un altro, potendovi accedere solo perché il modo in cui chi pensa per se stesso si rivolge a se stesso è storicamente simile al modo in cui si rivolge ai propri simili. Nel primo caso quindi il pensato altrui ed il proprio è ridotto a moduli spendibili, presentabili alla comunità scientifica, per la verifica e l’incremento delle citazioni, o al grande pubblico, per l’applauso e la commercializzazione. Nel caso del pensare invece, il pensiero altrui, lungi dall’essere qualcosa di cui bisogna essere in grado di dar conto, è un suono in cui quel che conta sono alcuni frammenti che risuonano in noi, fertilizzandoci, unendosi al nostro suono interiore, e portandoci così a comporre un altro suono, il cui valore e significato risiedono solo in colui in cui quel suono risuona, non essendo quindi sottoponibile ad alcun tipo di misurazione e valutazione. Questa è la via dell’alta cultura e dell’arte.

Quel che regge questo mio discorso quindi è l’intendere la filosofia non come scienza, ma come arte. Va da sé poi che una cosa è fare arte, e un’altra è studiarla o commentarla o divulgarla. Differenza che si potrebbe con semplicità rendere nella distinzione tra cultura e sapere.

Ora, è certamente ingenuo, infantile, assurdo chiedere che la civilizzazione occidentale si riorienti in direzione di quella che ho qui definito come cultura (quindi arte, di cui la filosofia potrebbe essere una manifestazione), anziché, come è ed è sempre più, in direzione di quello che qui ho definito come sapere (quindi scienza, compresa quella umana, di cui filologia e storiografia della filosofia sono esempi).

Tuttavia, chi si occupa di questi temi, dovrebbe perlomeno aver chiara la distinzione tra cultura e sapere. E chiedersi se nei luoghi deputati alla cultura (siano essi le università, i libri, i giornali, i siti, le associazioni culturali…) non si faccia invece nient’altro che sapere.

E se così è, che fine fa la cultura?

Federico Sollazzo

[Immaginer: Google Immagini]

“Un grammo di comportamento vale un chilo di parole”

Tutto quello che vuoi si trova dall’altra parte della paura
Recitazione. Roma. Lezione di prova: repulsione. O qualcosa del genere.
Non capivo perché, ma avevo un fastidio interno ed una gran voglia andarmene.
Esercizio dopo esercizio mi sentivo agitata, giudicata, tesa.
La lezione di prova finì ed io dissi ai professori: “Spero di tornare, ma con il mio lavoro sarà difficile”.
Tornai a casa nervosa, scombussolata, con qualcosa che mi si agitava dentro.
Sembrava adrenalina. Quella che mi veniva quando andavo a nuotare di sera. Quella che poi fino alle tre di notte non la smaltisci neanche con tisane alla passiflora del Gabon e 20 gocce di xanax.
Ma era qualcosa di più forte.
Era paura.
Era aver intuito che qualcosa stava per sradicarmi dalla mia comfort zone, dal mio divano, dal mio Sky, dai miei aperitivi.
Forse era il famoso “Tutto quello che vuoi si trova dall’altra parte della paura”.
O forse mi stavo trasformando in un personaggio di un film di Muccino su sceneggiatura di Fabio Volo.
Fatto sta che le ore di sonno furono poche e le domande troppe.
A tutti i punti di domanda della notte rispose una sensazione di benessere appena aperti gli occhi al mattino. Una sensazione che mise un punto. E mi fece andare a capo. Quella sensazione che provi solo risvegliandoti con la persona che ami accanto. Quel momento in cui si realizza. E quella mattina realizzai che l’unica cosa che avrei fatto sarebbe stata infilarmi un paio di scarpe da ginnastica e chiudermi fino a sera in un’accademia. A fare e rifare senza sosta quegli esercizi che solo qualche ora prima mi avevano fatto diventare rossa, mi avevano fatto tremare la voce, mi avevano fatto pensare “ma che ci faccio io qui in mezzo?”, mi avevano fatto dire “Non credo di poter tornare, non ce la farei con il mio lavoro”.
Il lavoro? La pioggia? La neve? L’invasione di cavallette? Tutte scuse.
Il modo, il tempo, lo trovi. E se non lo trovi lo cerchi. E se non lo cerchi lo rubi.
Tra lavoro ed un minimo di vita sociale dormo sempre meno. O tra lavoro e sonno, ho sempre meno vita sociale. E tutto questo è esaltante ed al tempo stesso rassicurante. Esiste la recitazione e chi o cosa riesce ad inserirsi con grandi sforzi tra me, il mio lavoro e quella che posso chiamare senza mezzi termini un amore viscerale, è un chi o un cosa davvero importante. Anche una telefonata diventa difficile. Ma chi ti vuole bene capirà. Chi non capirà, è perché non ha capito chi sei. Per me studiare recitazione è una bolla. Indistruttibile. E tutte le persone che ci sono dentro lo sono. Di alcuni di loro non so nulla, di altri molto, di altri ancora tutto. Ma una sola cosa la so: quando siamo lì dentro, nella nostra bolla, tutti insieme, in quella stanza nera, spartana, senza fronzoli, senza orologi, coi cellulari che, pur volendo, non prendono, senza anelli, bracciali, tacchi, cravatte, il mondo fuori con le sue regole, le sue riverenze, i suoi clichè non esiste più.
Una lezione di prova  dovrebbero farla tutti. Sopratutto chi pensa che questo non sia un mondo straordinario, ma un sottobosco squallido e umido. E dovrebbero provarci tutti, ma non per vincere l’oscar. Ma per capire. Tante, troppe cose che diamo per scontate.
Quanto un silenzio arriva molto più che un flusso di parole.
Quando un silenzio arriva e perché.
Quanto non ascoltiamo l’altro.
Quando l’altro dobbiamo ascoltarlo, altrimenti salta tutto.
Quando l’altro deve ascoltarci, altrimenti salta tutto.
Quanto siamo centrati su noi stessi.
Quanto impatta uno sguardo.
Quanto sia fondamentale il dettaglio. E quante cose da quel dettaglio si capiscono.
Quante infinite possibilità ci sono di recitare un copione. Quello che recitate ogni giorno fingendovi felici, vincenti, griffati e rampanti su Facebook e nella vita reale.
Quante infinite possibilità di vivere esistono.
Quante regole della recitazione sono regole di vita.
Quanto nell’improvvisazione niente sia lasciato al caso.
E’ dura mettersi alla prova. Ed è ancora più dura ammettere di essere banali, scontati, pieni di sovrastrutture e pregiudizi. Recitando vengono fuori i propri limiti, le proprie insicurezze, le proprie paure e lezione dopo lezione, ora dopo ora, si sciolgono dentro e fuori quella stanza.
Non ti importa più del contorno, della forma, del superfluo. Arrivate le 19 vuoi solo mettere le tue converse, buttare i tacchi e la giacca, ed entrare in uno spazio in cui potresti vivere per ore, senza mangiare o bere.
Se vi sembra esagerato, vi auguro di provarla almeno una volta nella vita una sensazione così.
Quando sei davvero dentro qualcosa, abbi il coraggio di rimanerci.
“State”, ci dicono a lezione.
Stacci.
Prenditi il tuo tempo.
Vivitelo.
E poi, restituisci.
Anche un silenzio.
“Fatevi portare dal vostro centro”, anche questo ci dicono sempre a lezione.
È difficile capire cos’è, dov’è e perché.
Ma è da lì che parte tutto.
Fatevi portare dal vostro centro. Seguitelo.
Chi lo chiama cuore, chi plesso solare, chi istinto, chi energia. Che importa.
Seguite il vostro centro.
E se il vostro centro vi porta dal codice civile ad un palco sgangherato di un teatro Off, è sul palco sgangherato di un teatro Off che dovete salire.
Piangerete di felicità. Non di frustrazione.
Troverete sulla vostra strada chi cercherà di ridimensionare questo vostro amore.
Chi vi dirà banalizzando “eh si, è bello coltivare un hobby”, facendovi sentire ridicolo, fuori dal mondo e fuori tempo. Chi vi farà sentire strano. La noia sulla faccia di chi vi ha appena chiesto “E quindi che si fa a questa recitazione”? dopo la prima parola della vostra risposta.
Non importa.
Andate avanti per la vostra strada.
Se è la vostra strada lo sentirete nelle ossa, nella testa, nel centro.
Avrete sempre un monologo che vi ronza nella testa, e avrete sempre voglia di imparare il prossimo.
Paradossalmente, quello che accade recitando, è autentico.
Di recitazione non si vive, mi dissero tempo fa.
Di insoddisfazione, si muore, non ebbi la prontezza di rispondere.
Per salvarsi, si è sempre in tempo. Sali sul tuo palco. E il sipario non calerà mai.
Anche perche nei teatri Off il sipario manco ci sta.
 

Donatella Di Lieto

[Le opinioni espresse sono a carattere strettamente personale/ Views are my own]

[Immagini tratte da Google Immagini