La comprensione della storia e la ricerca del consulente filosofico

<p>Immagine di una protesta per l'aborto a Washington</p>

La consulenza filosofica nasce nel ‘9001 per avvicinare la filosofia alla quotidianità di ogni uomo, nasce per essere al servizio del reale e anche nell’analisi della storia non può sottrarsi da questa sua natura.
Studiare la storia dell’uomo vuol dire studiarlo antropologicamente nei suoi mutamenti sociali e culturali, studiare un evento storico vuol dire studiarne la politica che ha segnato quella data popolazione e come questa abbia influito sulle ideologie di quel dato popolo: se si pensa, ad esempio alla seconda guerra mondiale, risulta impossibile non tenere conto della diffusione delle teorie sulla razza ed oggi, se si pensa alla Russia,  risulta impossibile non tenere conto della forte presa della religione e del ruolo politico che gioca nella visione di concetti fondamentali come Patria, Nazione e di popolo straniero.

Se si guarda alla storia con occhio critico si possono rintracciare degli avvenimenti simili nelle epoche, ma dettati da contingenze diverse e in questo senso la consulenza filosofica può essere utile nell’analisi: si possono tracciare delle somiglianze e delle dissomiglianze nelle epoche attraverso un metodo di studio trasversale. Per essere più chiari: i movimenti di protesta delle suffragette verso fine ‘800 ed inizi ‘900 possono essere in qualche modo collegati ai movimenti di protesta delle donne negli anni ’60-70 per il diritto all’aborto. È inevitabile pensare ad un passo indietro nella storia quando la corte suprema degli Stati Uniti a inizio luglio 2022 ha nuovamente negato il diritto costituzionale all’aborto; ciò ha dato vita a nuovi movimenti di protesta per prendere posizione contro questa decisione che in un sol momento ha cancellato anni di lotte e proteste.

La somiglianza tra i due eventi che si può cogliere è la lotta per dei diritti, i quali dovrebbero essere tutelati giorno dopo giorno, perché nessun diritto può essere dato per scontato, come ci è stato dimostrato; la dissomiglianza è nei mezzi e nella comunicazione, nell’espansione del movimento fomentato dalla globalizzazione e da Internet che connette milioni di persone.
Un’altra dissomiglianza potrebbe essere trovata nella velocità con cui questi movimenti si formano e si rigenerano: sicuramente in passato è stata molto più graduale la loro formazione e azione. Ad oggi, grazie all’iper connessione che ci permette di connetterci in qualunque momento ed in qualsiasi luogo, tutto è più istantaneo e veloce (a volte meno pianificato e meno efficace, altre più efficace per il grande numero di persone che vi partecipano e apportano il loro contributo alla protesta).

In pratica, la domanda da porsi è come la consulenza filosofica possa aiutarci nella vita di tutti giorni. Potrebbe sembrare solo un esercizio teorico ma non lo è: avere uno sguardo critico nella vita di tutti i giorni significa comprendere il passato e correggere il futuro; vuol dire domandarci se i valori che la società propina sono equi per tutti e se qualcosa è davvero cambiato rispetto al passato. Il metodo filosofico insegna consapevolezza, apertura e ci spinge ad avere uno sguardo nuovo sul mondo pensandosi moltitudine e non singolarità. Applicando l’analisi fornitaci dalla consulenza filosofica risulta difficile differenziare nettamente la nostra epoca dalle altre. In realtà, infatti – per quanto oggi si parli di accettazione, inclusione e di nuovi diritti per cui combattere – resta un sottofondo culturale difficile da cancellare. Ancora oggi, chi è diverso per etnia o religione o orientamento sessuale spesso è ostacolato in molti ambiti della sua vita, questo anche perché c’è una falla nelle istituzioni democratiche e soprattutto nell’istruzione: se la consulenza filosofica deve guidarci a tracciare analisi trasversali della storia facendo sì che questa si avvicini anche alla nostra vita quotidiana e possa fornici aiuto nella comprensione del presente, l’istruzione dovrebbe a sua volta contribuire fornendo un valido metodo di analisi critica. La scuola dovrebbe essere il luogo del confronto proficuo, il luogo in cui ci si allontana da sé stessi per poter arrivare a comprendere l’altro: l’orizzonte dovrebbe allargarsi e contemplare ogni angolatura del reale, dovremmo imparare a guardarci come parte di una realtà più grande e complessa.

È per questo che la consulenza filosofica potrebbe essere un’utile guida alla comprensione del presente e volgere il nostro sguardo al futuro; senza, però, dimenticare il passato che diventa monito e altrettanto guida.

Francesca Peluso

NOTE
1. Il fondatore della consulenza filosofica come Philosophische Praxis è Gerd. B. Achenbach (1947), il cui intento era servirsi del metodo analitico filosofico per riavvicinare la filosofia ad ogni ambito del reale per farsi ancella della vita dell’uomo e fornirgli un supporto pratico nell’azione.

[Photo credit Gayatri Malhotra via Unsplash]

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Pillola RU486: considerazioni sulle nuove linee guida

Poche settimane fa, una circolare ministeriale ha reso pubbliche le nuove linee guida relative l’aborto farmacologico attraverso l’assunzione della pillola RU486.

La pillola RU486 è il nome commerciale di un preparato chimico utilizzato per dare un’alternativa non chirurgica alle donne che intendono interrompere la gravidanza nelle prime settimane di gestazione. La procedura di somministrazione del farmaco prevede due fasi: l’assunzione del mifepristone, quindi del principio attivo della RU486 che va ad inibire il progesterone, l’ormone che favorisce e assicura il mantenimento della gravidanza, bloccandone l’azione e provocando, di conseguenza, la morte dell’embrione. Per aumentare l’efficacia della molecola, nelle successive 36-48 ore verrà ingerita un’altra pillola, analogo sintetico della prostaglandina, che provoca contrazioni uterine favorendo, entro poche ore, la fine della gravidanza con l’espulsione del embrione.

L’associazione mifepristone/misoprostolo rappresenta la combinazione più diffusa per l’induzione dell’aborto farmacologicoo e, nel 2006, l’Organizzazione Mondiale della Sanità l’ha inserita nell’elenco dei farmaci essenziali per la salute riproduttiva.

Nel 2009, l’agenzia italiana del farmaco (AIFA) pubblica un documento in cui, pur autorizzando la vendita della pillola RU486, stabilisce che deve essere garantito il ricovero della donna dal momento dell’assunzione del farmaco fino alla verifica dell’espulsione del feto. Tutto il percorso abortivo deve avvenire sotto il monitoraggio continuo di un medico del servizio ostetrico-ginecologico.

Oggi, le nuove linee guida ministeriali revocano, invece, l’obbligo di ricovero per l’assunzione della pillola abortiva che potrà essere somministrata nelle strutture pubbliche del sistema sanitario nazionale e quelle private convenzionate autorizzate dalle regioni. A poche decine di minuti dall’assunzione del primo farmaco (mifepristone) la donna viene rimandata a casa con la seconda pillola da assumere nelle successive 48 ore. Inoltre, le linee guida superano la limitazione di utilizzo del farmaco abortivo a sette settimane di gravidanza estendendo il periodo di assunzione fino alla nona settimana di gestazione.

C’è chi esulta dopo la pubblicazione di queste nuove linee guida. C’è chi sostiene che si elimina il dolore, l’anestesia e il ricovero dell’intervento chirurgico; si semplificano le procedure finalmente, si facilita il diritto di aborto della donna. Ma quanto c’è di vero in questa presunta facilità?

Sicuramente il vantaggio economico per il sistema sanitario è cospicuo. È molto meno dispendioso procurare il farmaco alla donna e affidarle l’intero processo abortivo, così facendo si risparmiano posti letto, anestesie e investimento umano di medici, infermieri e operatori sanitari. C’è sicuramente un bel taglio di spesa effettuato, però, sulla pelle delle donne.

Intendo riflettere sulla “domiciliarità dell’aborto” prevista dalle nuove linee guida e sulla conseguente eccessiva responsabilizzazione della donna nel processo abortivo. Nelle nuove linee guida, infatti, l’aborto farmacologico viene definito sicuro e si delibera che, passata mezz’ora dall’assunzione della pillola la donna potrà tornare al proprio domicilio; di conseguenza l’espulsione del feto avverrà sicuramente al di fuori dell’ospedale.

La donna, sul fronte medico-sanitario, viene lasciata da sola, abortirà da sola.  

La donna ha una grossa responsabilità: deve essere consapevole di quello che le accade, è lei che compie il “gesto abortivo” e ne controlla il decorso. A lei il compito di monitorare la situazione e il controllo del flusso di sangue cercando di capire se l’aborto è avvenuto. A lei l’onere di valutare in autonomia se gli effetti collaterali sono da ritenersi ordinari o se c’è la necessità di interpellare un medico che valuterà se ricorrere a una revisione chirurgica dell’utero.

In questo consiste la tanto celebrata “privatizzazione” dell’aborto medico? Nell’assoluta responsabilizzazione femminile?

Sebbene gli estensori dei vari protocolli cerchino di rassicurare le pazienti affermando che il cosiddetto prodotto del concepimento è indistinguibile dal materiale espulso, vogliamo pensare a chi ha riconosciuto e a chi riconoscerà l’embrione? È questo che le donne vogliono? Credo fermamente che se tante donne hanno lottato perché l’aborto uscisse dalla clandestinità è stato proprio perché non fosse più una vergogna privata ma qualcosa che riguarda tutti, che impegni e che coinvolga anche sul piano morale.

 

Silvia Pennisi

 

[Photo credit unsplash.com]

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The Young Pope: Sorrentino sui limiti della Chiesa di papa Francesco

Un papa che fuma in continuazione. Una suora, che lo ha cresciuto, appassionata di basket e che come pigiama indossa una maglia con la scritta “I’m virgin, but this is a very old shirt”. Un cardinale di stato tifoso sfegatato del Napoli, che va su tutte le furie se qualcuno allude alla dipendenza da cocaina di Maradona. Come sempre Sorrentino calca la mano sulle assurdità dei suoi personaggi, per renderli più umani, più vicini. Ma The Young Pope, la sua nuova serie tv, è anche una riflessione, seria e profonda, sulla Chiesa.

Al centro dell’opera vi è Lenny Belardo, eletto a 43 anni al soglio pontificio. Malgrado la giovane età, Lenny ha delle idee conservatrici: è duramente contrario all’aborto, vuole cacciare gli omosessuali dalla Chiesa e ristabilire la messa in latino. Il papa di Sorrentino sembra quasi istaurare un dialogo a distanza con Papa Francesco, per negare tutte le sue modernizzazioni.

Infatti sin dalla scelta del nome, papa Francesco ha inaugurato una Chiesa di amore e misericordia, che ha affrontato temi tabù per aprirsi alla modernità e risultare accogliente per tutti. Una scelta vincente, visto che Francesco ha invaso televisioni e giornali, risultando ad esempio l’uomo più amato dagli italiani nel 2014.

Eppure la Chiesa è davvero cambiata? Prendiamo le ormai famosissime dichiarazioni di Bergoglio sull’omosessualità: «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?». La frase è stata letta come una storica apertura, peccato però che nel recente dibattito riguardo alla legge sulle unioni civili in Italia il cardinal Bagnasco abbia parlato del rischio di «compromettere il futuro dell’umano» e lo stesso Francesco abbia affermato «Non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione».  Ecco allora che la bella e potente frase rimasta nella memoria di tutti assomiglia più a uno slogan vincente che a una nuova linea della cristianità.

Concentriamoci ora sulle alcune dichiarazioni ancora più recenti, tramite cui il pontefice ha permesso a tutti i sacerdoti di assolvere l’aborto. Anche questa è stata letta come un’apertura memorabile, ma basta soffermarsi un secondo sulle parole di Bergoglio per capire che la condanna della Chiesa all’interruzione di gravidanza non è cambiata poi molto. Nel suo discorso Francesco ha infatti precisato «Vorrei ribadire con tutte le mie forze che l’aborto è un grave peccato, perché pone fine a una vita innocente». La condanna della Chiesa quindi non è mutata, semplicemente si è concesso un paternalistico perdono alle donne incappate in questo “grave peccato”.

Il punto insomma è che la Chiesa di Belardo, nel suo rigore fuori moda, appare molto più coerente di quella di Francesco, che cerca di correre verso la modernità senza muoversi davvero. Le dichiarazioni di Bergoglio sembrano spesso un modo per nascondere dietro una vernice colorata una sostanza che permane immutata. Francesco presenta una Chiesa che si sforza di accogliere tutti con contenuti facili. Pensiamo per esempio al discorso in piazza San Pietro in cui parlò della misericordina, una scatola a forma di medicinale contenente un rosario e la presentò come una medicina necessaria allo spirito. Banalizzare in questo modo i contenuti per renderli appetibili a tutti, trasformando il concetto di misericordia in una trovata pubblicitaria, probabilmente attrae più fedeli in piazza, ma rischia di mettere in secondo piano il vero contenuto della Chiesa, il senso del sacro.

Lo stesso Belardo nella serie tv afferma «le pubbliche piazze sono riempite, ma non i cuori». Pio XIII insiste per avere una Chiesa amata da meno persone ma con più intensità, che metta al centro il mistero perché il dubbio e la sofferenza sono necessarie per cercare Dio. Il rischio di una chiesa così pop è che questa sia abbracciata superficialmente da un gran numero di persone, ma sentita da poche. È un pericolo che anche alcuni all’interno della cristianità stanno avvertendo, come il cardinale Burke che, mettendo in dubbio la linea perseguita dal papa, afferma «La fede non può adeguarsi alla cultura, ma deve richiamarla alla conversione. Siamo un movimento ‘contro culturale’, non popolare».

 

Lorenzo Gineprini

 

[Immagine tratta da una scena della serie]

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LA CINA ABOLISCE LA LEGGE SUL FIGLIO UNICO. Le devastanti conseguenze di trentacinque anni di pianificazione familiare forzata

Dopo aver per trentacinque anni forzatamente mantenuto sotto controllo la crescita demografica del Paese, Pechino cambia orientamento: lo Stato Comunista Cinese ha abolito la legge sul figlio unico.
Se torniamo indietro nella storia, il 1 ottobre 1949, l’allora presidente Mao Zedong, annunciando la nascita della Repubblica Popolare Cinese, attuò una serie di misure politiche atte a favorire la natalità; tale politica familiare portò al raddoppio del numero della popolazione cinese.
Alla morte di Mao, nel 1976, la Cina contava quasi un miliardo di persone e dopo qualche anno, nel 1979, il Governo cinese iniziò a promuovere una politica di regolazione delle nascite attuando una serie di provvedimenti di pianificazione familiare. Per l’occasione venne anche istituita una Commissione di Stato per la Pianificazione Familiare composta da migliaia di ufficiali addetti ai controlli in tutto il Paese.
Le famiglie vennero registrate in due differenti liste, quella urbana e quella rurale: alle prime venne assolutamente vietato di avere più di un figlio, mentre alle seconde venne concesso di avere un secondo figlio solo se il primo nato fosse stata una femmina; pena severissimi provvedimenti a livello pecuniario e fisico.
Con gli anni economisti e sociologi cinesi iniziarono a divulgare dati preoccupanti: rallentamento dell’economia, invecchiamento della popolazione e diminuzione della forza lavoro. La politica del figlio unico doveva essere assolutamente ridiscussa.
Già nel 2013 furono apportate alcune modifiche alla legge nel tentativo di ribilanciare il tasso di fecondità nel frattempo sceso sotto il livello di sostituzione. Per cercare di evitare un collasso demografico e il conseguente annientamento di alcune minoranze etniche il numero di figli per ogni famiglia venne portato a due, ma solo nel caso in cui uno dei coniugi fosse stato figlio unico.
Nelle scorse settimane lo Stato cinese, con l’annuncio dell’abolizione della “politica del figlio unico”, chiede alla popolazione di cominciare a produrre nuove braccia pronte a lavorare. L’obiettivo è consentire alla Cina di contare su una forza lavoro in grado di sostenere una popolazione sempre più vecchia.
Trentacinque anni di forzata pianificazione familiare hanno comportato “effetti collaterali” drammatici ed oramai irreparabili.
Dal 1979 ad oggi, secondo dati stimati Ministero della Salute di Pechino, sono stati perpetrati circa quattrocento milioni di aborti, un genocidio silenzioso se si pensa ai quindici-venti milioni di morti della Shoah, il tutto nell’indifferenza e con il benestare delle autorità.
Le ripercussioni negative non finiscono qui; oltre il dramma degli aborti indotti, vi è il grande numero di donne sottoposte alla sterilizzazione forzata. Anche in quest’ultimo caso ci troviamo di fronte ad una palese violazione dei diritti umani e ad un oltraggio alla dignità umana.
Ulteriore elemento da valutare è la sproporzione tra la popolazione maschile e quella femminile, il numero dei maschi risulta, in maniera totalmente innaturale, superiore a quello delle femmine. Si tratta di un dato che riguarda essenzialmente le realtà rurali; in effetti, in campagna, molte famiglie furono costrette a rinunciare non solo al secondo o terzo figlio, ma ad interrompere la gravidanza o a praticare l’infanticidio qualora il feto fosse stato di sesso femminile. Ciò avrebbe permesso ai genitori di tentare altri concepimenti con lo scopo di avere un figlio maschio che nelle zone rurali significa forza lavoro, intesa come forza fisica, fondamentale per il supporto all’economia familiare.
Le famiglie che decidevano di portare comunque a termine la gravidanza, spesso, non denunciavano le nascite all’anagrafe crescendo così “figli senza nome” privi di qualsiasi documento d’identificazione, che non potevano frequentare scuole e che non avevano accesso alle strutture sanitarie.
Nel 2013 all’appello mancavano decine di milioni di donne.
Ad oggi, con le nuove direttive dello Stato cinese, presumibilmente, la percentuale degli aborti si dimezzerà, ce ne saranno meno di prima, ma ce ne saranno ancora; se anche un solo aborto indotto e forzato, personalmente, è sempre troppo, rifletto sul dramma di milioni di aborti che probabilmente saranno la metà dei milioni di prima ma pur sempre milioni. Forse il dato peggiore è la logica che sta sotto queste politiche, ovvero che la popolazione cinese può avere tanti figli quanti decide il Governo in un determinato periodo storico. Quando i cinesi erano troppi, se ne è contenuto il numero con l’aborto statale; quando ci si è resi conto che ne servivano di più si è proceduto ad attenuare la morsa sulla legge del figlio unico consentendone un secondo solo a quelle coppie in cui almeno uno dei genitori è unico per legge, fino ad oggi, tempo in cui si incoraggiano le famiglie ad avere due figli perché è considerato legittimo plasmare l’uomo in base alle necessità economiche di un Paese, un uomo che non è il fine dell’economia ma un semplice mezzo il cui sfruttamento dipende da un beffardo calcolo di interesse.
È evidente che la vita umana e l’unicità delle persone, per il Governo cinese, non sono valori da proteggere e tutelare. Le persone esistono in Cina unicamente in funzione dello Stato, il quale periodicamente e a proprio piacimento decide di arrogarsi il diritto di disporre liberamente della vita umana.
Silvia Pennisi

[immagine tratta dal sito www.progettoitalianews.net]

Il paziente in età prenatale

<p>Pregnant woman showing her belly and holding a paper heart. Isolated on white</p>

Negli ultimi decenni gli studi incentrati sulla biologia della vita prenatale hanno portato ad una approfondita conoscenza dello sviluppo e della fisiologia fetale contribuendo ad una significativa e rapida evoluzione dell’ostetricia sia a livello concettuale che operativo. Le acquisizioni scientifiche, rese possibili dallo sviluppo di strumentazioni per l’osservazione e il prelievo di materiale embrio-fetale, hanno portato alla nascita di una vera e propria medicina prenatale dedicata, appunto, allo studio e all’assistenza del feto.

L’evoluzione di questi processi conoscitivo-tecnologici si è concretizzata nello sviluppo di quella branca della medicina fetale chiamata diagnosi prenatale e che opera attraverso una serie indagini strumentali e di laboratorio per monitorare lo stato di salute del feto e riscontrare patologie per lo più di natura genetica e/o mal formativa.

Le indagini attualmente utilizzate per la diagnosi prenatale in gravidanza si suddividono in test di screening, indicati per accertare l’entità del rischio di patologie cromosomiche fetali e di conseguenza per valutare la necessità di ulteriori analisi e test diagnostici, ovvero esami specifici che attraverso apposite strumentazioni mirano al riconoscimento di una determinata patologia e/o malformazione.

Dal punto di vista tecnico-strumentale l’invasività della procedura diagnostica è conseguenza diretta della necessità di entrare fisicamente nel compartimento corporeo materno per esplorare, estrarre e campionare materiale biologico.

Dietro alla non invasività, all’invasività, al carattere più o meno inoffensivo e all’apparente neutralità morale delle tecniche diagnostiche di prassi ostetrica si nasconde una delle più complesse questioni legate alle indagini prenatali; infatti, la medicina fetale che negli ultimi quarant’anni ha amplificato enormemente le sue capacità diagnostiche non è riuscita a far si che ad esse corrispondesse un altrettanto rapido sviluppo di trattamenti terapeutici, soprattutto per i difetti di carattere cromosomico e genetico.

Laddove è possibile intervenire la terapia fetale consente la correzione di alcune patologie feta­li attraverso differenti modalità: l’approccio indiretto, consiste nella somministrazione di farmaci o di sostanze alla madre e il loro passaggio transplacentare al feto, la modalità diretta, invasiva ed ecoguidata, si avvale dell’approccio terapeutico a livello dei quattro compartimenti endouterini (amniotico, vascolare, peritoneale-pleurico e urinario) inoltre, può essere utilizzata la chirurgia fetale aperta o la chirurgia in fetoscopia, la prima interviene chirurgicamente sul difetto strutturale del feto incidendo l’utero senza estrarre il nascituro in maniera completa, la seconda attraverso l’uso di un’ottica rigida nella cavità amniotica opera nella zona anatomica da correggere chirurgicamente.

Le indagini prenatali possono evidenziare l’assenza di patologie, patologie curabili o parzialmente curabili, patologie non curabili o una diagnosi di feto terminale, ovvero una condizione fetale per difetto anatomico-strutturale o relativamente alla regolazione genica o del numero e struttura dei cromosomi è incompatibile con la vita.

Da una diagnosi di patologia incompatibile con la vita può dipendere la decisione di programmare la morte del feto terminale (Legge 194/78 aborto terapeutico) o la prosecuzione della gravidanza per accompagnare il proprio figlio verso la morte naturale passando così dall’ I cure (io ti curo) all’I care (io mi prendo cura di te) mettendo in atto se necessario tutta una serie di interventi di comfort care perché anche se non è possibile curare per guarire, è comunque un dovere salvaguardare la qualità della vita, per breve che sia.

La vera particolarità del rapporto tra medico e feto consiste nel prendersi cura contemporaneamente di due soggetti distinti: la madre e il feto. La raggiungibilità del feto esclusivamente attraverso il corpo materno solleva delicati problemi in ordine alla liceità e praticabilità degli interventi in termini di valutazione congiunta dei rischi e benefici soprattutto in vista di interventi di carattere sperimentale.

Lo iato esistente tra possibilità diagnostiche e possibilità terapeutiche, potrebbe indurre a diversi atteggiamenti relativamente alla medicina fetale, originati da differenti e divergenti impostazioni etiche. Da un lato, infatti, potrebbe essere rifiutata la pratica della diagnosi prenatale quale possibile premessa ad intraprendere l’aborto, dall’altro la ricerca scientifica e la fatica terapeutica potrebbero essere escluse a propri, sottovalutate, affrontate senza entusiasmo, in rapporto alla complessità ed impervietà dei problemi a fronte della relativa semplicità dell’interruzione di gravidanza. Gli aspetti finora illustrati sollevano inevitabilmente una riflessione bioetica di ordine metodologico e operativo in relazione alle possibilità che si dischiudono di fronte ai progressi conoscitivi e applicativi della medicina fetale.

Nonostante esistano opinioni divergenti all’interno della professione medica e psicologica relativamente alla frequenza e alla gravità degli effetti mentali derivanti dall’aborto volontario e sebbene non tutte le interruzioni di gravidanza abbiano delle ripercussioni a livello psicologico ne aumentano sensibilmente i rischi e l’incidenza, sarebbe importante per la donna e/o la coppia un beneficiare di counseling multidisciplinare, un processo di accompagnamento professionale e multidisciplinare finalizzato non solo alla comprensione degli aspetti strettamente clinico-scientifici delle condizioni morbose fetali, ma anche a gestire percorsi decisionali densi di implicazioni etiche, psicologiche ed emotive al fine di ottenere informazioni complete e affidabili necessarie per valutare le diverse opportunità e confrontarsi con le possibili conseguenze che deriverebbero da ciascuna scelta.

 Silvia Pennisi

[immagine tratta da Google Immagini ]

Mamma? No grazie.

Sono stata dal ginecologo oggi. Era una semplice visita di controllo annuale, una sorta di tagliando. Non mi sarei mai aspettata di affrontare con lui una decisione, o meglio una scelta, così importante della mia vita. È vero, potevo aspettarmi una simile domanda da parte sua. Ho trentacinque anni, il mio orologio biologico muove le sue lancette con moto inesorabile. Se volessi dei figli nel mio futuro prossimo forse questo sarebbe il momento di pensarci in modo più concreto. Nonostante questo, la nostra conversazione oggi mi ha spiazzata.

“Allora, Sara? Che tipo di programmi abbiamo per il futuro? Vogliamo avere dei figli?”

Una semplice domanda, in un certo senso “dovuta” visto il suo ruolo professionale. Una semplice risposta quella che avrei dovuto dare: no.

La risposta sarebbe dovuta essere molto semplice, visto che è una scelta su cui ho già riflettuto e preso la mia decisione. Invece mi sono trovata a biascicare qualcosa d’incomprensibile mentre navigavo nell’imbarazzo più totale. Ecco, questo mi ha spiazzata. Perché io avrei voluto rispondere che no, dottore, figli io non ne voglio. Penso di non averne mai voluti e non li voglio nemmeno adesso. Penso che ci siano tante cose nella vita da fare e per me diventare madre non è fondamentale per essere felice o soddisfatta. E non si tratta di realizzarmi professionalmente, perché penso che le due cose non siano in alternativa, ma semplicemente concepisco la maternità come una scelta e non come il destino di tutte le donne.

Mi ha dato molto fastidio non essere riuscita a rispondere in modo così risoluto al mio medico. La verità è che ogni volta che esprimo questi concetti mi sento incompresa. Mi sembra di suscitare sospetto e diffidenza nelle persone che ho davanti, quasi fossi contro natura. Mi sono sentita anormale, sbagliata, un mostro molte volte parlando di questo. Eppure io penso che essere donna non voglia dire solo essere madre. Io penso che donna voglia dire un’infinità di cose, tra cui anche l’essere madre, se lo si vuole. Sono donna anche se non partorisco.

Penso solo che sia giusto poter essere libera di scegliere affidandomi al diritto di contraccezione, compresa quella di emergenza, e all’aborto piuttosto che diventare madre perché mi ci sento costretta e trovarmi con questo disagio enorme da gestire – oltretutto da sola, perché in questa società non è permesso, a una donna che è appena diventata madre, di non esserne felice ed entusiasta. Io penso che ci siano donne che per le più disparate ragioni -culturali, economiche e sociali- non vogliono essere madri e che hanno tutto il diritto di essere ciò che vogliono essere o non-essere senza per questo sentirsi sbagliate.

Ricordando le parole di Oriana Fallaci:

Essere mamma non è un mestiere. Non è nemmeno un dovere. È solo un diritto fra tanti diritti.

Sono sempre più numerose le donne che decidono di non avere figli. Guardando ai dati statistici sono ben dieci volte più numerose rispetto a cinquant’anni fa e l’Italia detiene il primato europeo. Nonostante questo è una scelta che appare ancora oggi strana e incomprensibile, quasi fosse un tabù essere donna scegliendo di non essere madre. Un pregiudizio frutto di una cultura che definisce il ruolo che le donne devono interpretare, di una retorica di maternità e procreazione, di stereotipi sessisti. Non sono a giudicare le motivazioni intime di una scelta così privata, sono a rivendicare nel 2015 il diritto di una donna a non essere madre senza essere giudicata, a rivendicare il diritto alla libertà di poter essere come si vuole.

Le ali spiegate rendono felici.

Giordana De Anna

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[Immagini tratte da Google Immagini]

L’ingresso dei filosofi nel campo della bioetica

[…]Il processo di legalizzazione dell’aborto, realizzatosi in gran parte dei paesi occidentali negli anni ’70, […] ha contribuito in modo decisivo alla trasformazione della bioetica da movimento, inteso come corrente caratterizzata da una tendenza culturale e ideologica unitaria, a un campo di ricerca all’interno del quale si possono confrontare tesi e posizioni del tutto diverse.

[…]La discussione sull’aborto ha rappresentato il settore privilegiato attraverso il quale i filosofi di professione sono entrati nel campo della bioetica, sostituendo progressivamente i teologi.

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