Pensare l’essenza, abitare l’essenziale

A partire dagli anni Novanta gli scavi archeologici condotti in Trentino a Riparo Dalmeri a 1240 m s.l.m. hanno riportato alla luce le testimonianze di vita di gruppi di cacciatori-raccoglitori nomadi del Paleolitico che alla fine delle grandi glaciazioni, per circa 250 anni, risiedettero stagionalmente in un ricovero sottoroccia. Nel corso degli scavi sono state effettuate numerose scoperte tra cui, oltre a una serie di pietre dipinte, l’individuazione di una capanna circolare costituita probabilmente da pali di legno piegati ad arco e ricoperti da frasche o pelli1. L’ipotetica ricostruzione della struttura abitativa effettuata in situ dagli archeologi, delimitata diametralmente da pietre e reperti litici, permette oggi di cogliere nei suoi tratti principali una delle prime forme dell’abitare umano: la capanna, per i nostri antenati preistorici che attraversavano gli altipiani prealpini, era essenzialmente un riparo che offriva protezione provvisoria dal freddo, dal buio e dalle bestie feroci.

Nel nostro tempo ci è difficile connettere questa dimensione originaria di semplice rifugio delle prime abitazioni alle nostre case ampie, confortevoli e ben arredate, anche perché ormai i pericoli di un ambiente naturale ostile e minaccioso sono stati per lo più allontanati dagli spazi antropizzati e urbani che viviamo. Osservando le case moderne, la natura di riparo tende a scomparire nella complessità costruttiva degli edifici cittadini, nella varietà degli arredamenti e nella decorazione degli interni. Il senso comune ci suggerisce che abitare una casa significa entrarci dentro, mettere dei mobili e affiggere il proprio nome sul campanello, riconoscendo quello spazio come nostro possesso. Vediamo quindi la casa come un edificio tra i tanti, delimitato da muri, composta da una o più stanze arredate e piena di oggetti. Eppure la casa non è solo quello che fisicamente appare, ma è anche un’entità simbolicamente costruita e vissuta come tale da chi la abita, su cui vale la pena riflettere per tentare di risalire a una sua forma originaria e al suo significato essenziale, considerando anche il fatto che essa rappresenta il luogo principale in cui avviene il nostro abitare questo pianeta.

Quando si affronta questo tema da un punto di vista filosofico, viene subito in mente che alcuni pensatori hanno fatto coincidere la ricerca di un luogo e di un’abitazione essenziali in cui soggiornare, lontani dalla civiltà e dall’ambiente cittadino, con lo sviluppo del loro pensiero e con la riflessione sull’essenza delle cose. A questo proposito Leonardo Caffo ha dedicato una parte del saggio Quattro capanne (Nottetempo, 2020) all’analisi delle vicende biografiche di Henry Thoreau e di Ludwig Wittgenstein, che avevano scelto di ritirarsi a vivere in una capanna come esperienza di distacco parziale dal mondo, dagli altri e dalla complessità del presente. Thoreau a metà dell’Ottocento si era stabilito in una baracca nelle foreste di Walden, per “vivere con saggezza e in profondità e per succhiare il midollo della vita”. Wittgenstein, nel secolo successivo, aveva abitato per un certo periodo in un casotto davanti al fiordo norvegese di Skjolden, lontano dal mondo accademico. Si possono aggiungere altri due esempi celebri: quello di Friedrich Nietzsche che, durante le lunghe camminate da eremita nei boschi, immaginava di costruire tra le montagne svizzere dell’Engadina un “canile” (in tedesco “Hundhütte”) in cui rintanarsi per sviluppare a pieno il suo pensiero abissale, e quello di Martin Heidegger che si ritirava periodicamente a meditare nella sua baita a Todtnauberg nella Foresta Nera vicino a Friburgo. 

Le biografie di questi filosofi, che scelsero di vivere la propria abitazione come un rifugio provvisorio, sembrano suggerire che esista un’effettiva corrispondenza tra pensare l’essenza e abitare l’essenziale. Se dunque da un lato le tracce di una capanna del Paleolitico ci riportano alle prime strutture abitative che, nella loro forma originaria, erano principalmente ripari temporanei, dall’altro lato, invece, l’intreccio tra vita e filosofia in alcuni pensatori, come Thoreau, Nietzsche, Wittgenstein e Heidegger, testimonia che talvolta l’indagine filosofica sull’essenza delle cose implichi anche la possibilità di ripensare il concetto di abitazione e di ritornare a una dimora essenziale. La capanna del filosofo, così come quella preistorica, in quanto unità abitativa minima e archetipa, permette quindi di far riemergere il significato originario di casa, che, nella sua forma semplice e basilare, è quello di rifugio e di riparo.

 

Umberto Anesi

 

NOTE:
1. Cfr. Bassetti M., Cusinato A., Dalmeri G., et. al., Riparo Dalmeri, una capanna di 11.000 anni fa, Archeologia Viva, anno XX, N. 90, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze, pp. 68-77.

 

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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Riparare gli spazi: una conversazione con Andrea Staid

<p>Manuele Blardone</p>

Nel coreografico chiostro dell’ex convento di San Francesco a Conegliano (TV), in collaborazione con la libreria Tralerighe del libraio Riccardo Huster abbiamo ospitato lo scrittore e antropologo Andrea Staid che presentava il suo ultimo libro La casa vivente. Riparare gli spazi, imparare a costruire (2021), edito dalla casa editrice Add.

Come spesso accade, oltre ai momenti strutturati e formali, a far emergere maggiormente il personaggio, è stato il suo modo di abitare i margini. È lungo il confine tra il dover stare in un certo luogo e il desiderio di viverlo che uno si scopre, è lì che l’autenticità può manifestarsi. Davanti a una pizza e sorseggiando un verdiso nella centralissima piazza Cima abbiamo potuto confrontarci in modo autentico e cogliere le sfumature di una scrittura che è essa stessa vivente.

 

Fare etnografia significa uscire da quella che Marc Augé ha definito “la propria tana culturale” e immergersi in altri modi di vivere, consapevoli che ogni incontro è destinato a cambiarci. Dopo i mesi trascorsi tra le architetture vernacolari delle popolazioni indigene del Sud Est asiatico, com’è cambiata la tua vita?

Una volta terminata la nostra osservazione etnografica, né io né coloro che hanno condiviso con me questo viaggio siamo stati più gli stessi. Tornando nel mio appartamento di Milano al settimo piano mi sono sentito incarcerato. Non avrei più potuto sopportare questa chiusura perché avevo sperimentato la bellezza di avere uno spazio immenso davanti casa; le case vernacolari si espandono all’esterno e la vita delle popolazioni è intessuta ogni giorno di relazioni, di attività comunitarie indispensabili.

 

Nel tuo libro metti in discussione il concetto occidentale di progresso. Cos’hanno da insegnarci queste popolazioni che spesso vengono ritenute primitive e poco evolute?

Progredire significa andare avanti, migliorarsi. Ma ci sono molti aspetti della vita che devono essere migliorati, non solo quello tecnico o industriale, come ci hanno abituati a pensare. Rallentare l’incessante ritmo di produzione per dare spazio alle relazioni sociali deve essere considerato esso stesso un progresso. Non intendo dire che dobbiamo tutti vivere in palafitte o tende, ma fermarci a considerare gli aspetti del nostro abitare il mondo e valutarne le conseguenze. Le città potrebbero essere un bellissimo luogo dove vivere, ma vanno reinventate, ci deve essere più spazio per le piante, per gli animali, per la natura perché è in essa che l’uomo si può riconoscere e trovarne  beneficio.

 

Che caratteristiche ha allora una «casa vivente»?

Nelle popolazioni indigene dove ho vissuto la casa non è considerata un investimento immobiliare, bensì un bene temporale e collettivo: essa nasce, cresce e muore perché fa parte della vita e del popolo che l’ha costruita. Non esiste neppure il diritto di proprietà individuale sulla terra, ma solo il suo usufrutto. Anche noi possiamo ispirarci a queste usanze se non altro per rimparare a costruire con materiali locali e limitare il nostro impatto sulle risorse del pianeta. Avere consapevolezza dei luoghi che abitiamo significa anche conoscere i materiali che li costituiscono, per la nostra salute e il benessere dell’ambiente. Finora abbiamo vissuto come se le risorse fossero infinite, ma sappiamo bene che non è così e non c’è tempo da perdere.

 

Tu affermi che l’ecologia non può slegarsi dal sociale e se lo fa è solo uno specchio per le allodole, come la green economy. Intendi forse dire che prima di tutto è necessaria una sorta di decolonizzazione etica dell’uomo rispetto alla sua corsa alla distruzione di ecosistemi?

L’espressione decolonizzazione etica rende bene l’idea del ripensamento che l’uomo (inteso come homo) deve necessariamente fare per ritrovare la giusta collocazione nel mondo. L’invito è quello a considerare l’ambiente come un sistema unitario dove l’uomo non è il protagonista, ma una delle sue parti, insieme a piante e animali. Non sarà accumulando macchine elettriche o moltiplicando i pannelli solari che risolveremo il problema dell’inquinamento, ma rovesciando lo sguardo che finora abbiamo rivolto al paesaggio.

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Tu hai fatto una scelta di vita radicale. Ce ne vuoi parlare?

Io e la mia compagna ci siamo trasferiti in un piccolo paese sui monti liguri, in una vecchia casa di pietra che però ha una grandissimo spazio verde davanti, costituito da diversi alberi da frutta e ulivi. Poi c’è l’orto che è la parte della casa che amo di più; è lì che la mia mente può davvero liberarsi da tutti i pensieri che spesso intossicano le nostre giornate.
Una volta trasferiti abbiamo cercato di inserirci nella natura con rispetto, di imparare a fare quelle attività che nella società dei consumi ti abituano a delegare ad altri. Produciamo gran parte del cibo che consumiamo e abbiamo creato una rete di relazioni che, attraverso la pratica del “fare insieme”, ci permettono di essere più creativi e guadagnare tempo, due obiettivi fondamentali per liberarci dalla tossicodipendenza da consumo, tipica della nostra società.

 

Tra le molte attività che possiamo rimparare a fare da soli o con l’aiuto di familiari e amici, tu riservi un posto speciale all’autocostruzione della propria casa. Perché è così importante?

Abitare è uno dei principali comportamenti degli esseri umani. È nell’abitare un luogo, uno spazio che si esprime il nostro essere. Se ci limitiamo a delegare la costruzione della nostra casa, ci troveremo ad abitare un luogo altrui, ci sentiremo ospiti e non protagonisti del nostro stare al mondo. In Italia è molto difficile fare autocostruzione, ma ci sono varie esperienze importanti in questo senso. Mi riferisco in particolare all’associazione A.R.I.A. che da anni si occupa di promuovere cantieri in autocostruzione familiare, soprattutto nelle zone appenniniche colpite dal sisma del 2016. È anche un modo per rinsaldare dinamiche sociali senza le quali ci ritroveremo con molte case belle, confortevoli ma prive di vita e di legami col territorio.

 

Erica Pradal

 

[Photo credit Manuele Blardone]

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