2020: i mente-piattisti

Al contrario dei terrapiattismo, il fenomeno dei mentepiattisti spopola nella società mondiale ottenendo un grande successo mediatico. La caratteristica fondamentale di questa categoria di soggetti è la sostanziale carenza di consapevolezza delle proprie azioni e degli effetti che possono avere sugli altri, unita a una generale difficoltà di analisi e lettura dei contesti in cui si vengono a trovare. Contesti, per allacciarsi alla ormai celebre boutade di Umberto Eco1, muniti di minor controllo e con un pubblico sempre più ampio.

Il problema di fondo riguarda le Credenze e Conoscenze di cui questi individui presumono di farsi portatori: queste rappresentano gli elementi che ci spingono avanti nel nostro processo di valutazione del mondo2, nell’evoluzione del nostro pensiero epistemologico. A partire dagli studi di Wellman (1990) fino a quelli di Alexander, Dochy, Murphy, Guan (1995 e 1998) si è giunti all’evidenza che queste due entità linguistiche e concettuali siano di fatto differenziate ma parzialmente sovrapponibili: basti pensare alla sottile linea che divide la non-certezza (Credenza) dalla certezza (Conoscenza) di una data notizia. Qualora venisse meno il dinamico processo di confronto tra questi due termini, rischieremmo di spingerci fuori strada nella valutazione delle cose: uno dei rischi maggiori è quello di sovrapporre e di far coincidere indiscriminatamente questi due termini.

L’impegno ad approfondire le nostre ricerche secondo logica e buonsenso è quanto mai necessario a gestire il rapporto tra credenze e conoscenze: proviamo infatti a considerare la nostra esperienza di tutti i giorni con tutto quello che può mostrarci di vero e falso, attendibile e non attendibile.

La domanda di profondo gusto etico è: “Quanto penso di conoscere?”.
Se ognuno di noi portasse avanti questo interrogativo ammettendo socraticamente di sapere di non-sapere avremmo maggiori possibilità di contrastare il cosiddetto effetto Dunning-Kruger – presente in misura diversa in ognuno di noi – per il quale all’erronea comprensione delle cose è collegata l’incapacità di riconoscere la propria ignoranza e connettersi dialogicamente agli altri mettendoci in discussione. Quando ci si rifiuta di ampliare i propri criteri di giudizio il nostro pensiero e lo stesso linguaggio diventano un circolo vizioso nel quale ogni significato tende a diventare assoluto e autoreferenziale e quindi non adattivo verso il mondo: l’esatto contrario di un linguaggio generativo ed evolutivo che riconosce i propri limiti ed è capace di elevarsi e ampliarsi oltre di essi. Purtroppo, l’ignoranza è, e sempre sarà, più “grande” della conoscenza: la Scienza ad esempio, per il suo carattere dinamico e incompiuto, non potrà mai mettere a tacere definitivamente le credenze intorno ai fatti e alle origini del mondo; al massimo potrà farlo solo ad un certo punto del processo. Ogni branca del sapere finisce per smentire sé stessa: a noi non resta che partecipare in modo adeguato a questo dibattito.

La mancanza di una percezione critica del mondo impedisce di prenderne realmente consapevolezza, impedendo di potervi avere realmente a che fare: è paradossale come la comunicazione di tali individui – tanto ridondante e piena di echi – non abbia realmente nessun vero potere di generare “nuovi mondi” nel corso della storia. A riprova di questo è possibile notare come le fake news si ripresentino ciclicamente configurandosi come semplicistici nessi causali senza nessun adeguamento ai giusti aspetti del sapere, ai modi complessi in cui progredisce e al linguaggio complesso necessario per descriverlo. Sempre Wittgenstein: «È più giusto e interessante non dire: questo è nato da quello, ma: questo potrebbe esser nato così», poiché ogni spiegazione è un’ipotesi che dev’essere trattata adeguatamente3.

Ciò che il filosofo austriaco aveva temuto agli inizi del 1900, il complicarsi fuorviante e ridondante della civiltà contemporanea, assume oggi un carattere ancora più grottesco: masse di persone che si accalcano per elargire un giudizio, sentenziare, urlare un commento privo di armatura e sostegno.
Il nostro linguaggio è pieno di mitologia e per questo è necessario affinare la nostra percezione perspicua4, dissodare il nostro linguaggio onde meglio delineare, scoprire e comprendere il significato. Il monito di Socrate torna inevitabile dopo 2470 anni: una vita non indagata non è degna di essere vissuta.

 

Matteo Astolfi

 

NOTE
1. “Il Web dà diritto di parola a legioni di imbecilli, i quali prima parlavano solamente al bar dopo due-tre bicchieri di rosso e quindi non danneggiavano la società”.
2. Mason-Boldrin, Conoscenze e credenze sono percepite come costrutti differenti?, in “Giornale italiano di psicologia”, 2007, p 629.
3. L. Wittgenstein, Note sul ramo d’oro di Frazer, p. 50.
4. Chiara, trasparente.

[Photo credits Timo Voltz su Unsplash.com]

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Che piaga questo 2020!

“Aronne alzò il bastone e percosse le acque che erano nel Nilo sotto gli occhi del faraone e dei suoi servi. Tutte le acque che erano nel Nilo si mutarono in sangue. I pesci che erano nel Nilo morirono e il Nilo ne divenne fetido, così che gli Egiziani non poterono più berne le acque.”

Questo brano del libro dell’Esodo, il secondo della Bibbia ebraica, poteva richiamare alla memoria qualche film horror, o al massimo un solenne Charlton Heston con barba posticcia e tunica rossa, ma negli ultimi giorni il pensiero va inevitabilmente a quelle 20.000 e passa tonnellate di gasolio che, fuoriuscite da una centrale termoelettrica in Siberia, hanno inondato i fiumi dell’Artico, tingendoli di rosso e uccidendo migliaia di pesci.

Non che questo 2020 ci abbia fatto mancare eventi sconvolgenti, riconducibili alle piaghe d’Egitto di cui parla la tradizione ebraica. Invasione di locuste? Ecco che nell’Africa Sub-Sahariana si forma uno sciame esteso quanto l’intera area metropolitana di Milano, ingigantito dalle inusuali perturbazioni provocate dai cambiamenti climatici. Invasione di zanzare e tafani? Non proprio, ma in Europa arrivano le altrettanto piacevoli “vespe killer”. Pioggia di ghiaccio e fuoco? Per la prima, nel momento in cui sto scrivendo quest’articolo, a inizio giugno nella calda Firenze, sta grandinando furiosamente; per la seconda, non resta che l’imbarazzo della scelta tra i tragici incendi in Australia e il risveglio del vulcano Krakatoa. Pestilenza? Di Covid-19 ne abbiamo parlato fin troppo, e intanto in Africa spuntano nuovi focolai di Ebola. Morte del bestiame? Oltre alla strage di animali selvatici causata dai summenzionati disastri naturali, è bene ricordare i milioni di capi di bestiame abbattuti negli Stati Uniti a fronte di una produzione alimentare interrotta dalle norme anti-epidemiche. Tenebre? Non c’è molto da aspettare, con l’eclissi solare dello scorso 21 giugno. A conti fatti, mancano solo le ranocchie e la morte dei primogeniti per completare l’elenco.

La tradizione biblica legge nelle piaghe un profondo significato teologico, l’affermarsi del Dio unico sulle molte divinità (declassate a “idoli”) dell’Egitto e delle popolazioni vicine a Israele in genere, un ristabilirsi delle forze del Vero su quelle del Falso. In questo senso, una sorta di “esegesi del reale” potrebbe portare a una lettura in positivo anche di queste nuove piaghe d’Egitto formato globale. La contemporaneità postmoderna, d’altronde, ha diversi idoli di cui liberarsi, uno più dannoso dell’altro: l’idolo dello sviluppo illimitato, che distrugge l’ambiente e deruba le generazioni future di risorse che vengono esaurite nel presente; l’idolo di un mercato finanziario ormai slegato dalla ricchezza reale, che macina miliardi inesistenti e porta al fallimento interi paesi semplicemente spostando una virgola su una quotazione; l’idolo dello Stato-Nazione, un’entità che non ha più motivo di sopravvivere alla propria morte storica, e che pure continua a resistere, incancrenendo divisioni, creando conflitto, suscitando sentimenti revanscisti e xenofobi in un mondo sempre più piccolo e interconnesso.

Nel 2020 ne abbiamo ancora fin troppi, di idoli, sugli altari di tecnologie male utilizzate, annunciati dai sacerdoti della meritocrazia che ignorano il crescente gap sociale, difesi da profeti che si ostinano a negare l’evidenza di un danno portato al pianeta e all’umanità stessa da un modello di sviluppo insostenibile, protetti nei templi dei palazzi del potere economico, politico, culturale che rifiuta modelli alternativi di governance sulla base di un profitto immediato che va inevitabilmente a scapito di un maggiore e più generalizzato benessere sul lungo termine.

Se ai tempi di Mosè era sufficiente fuggire dall’Egitto per lasciarsi alle spalle i suoi idoli, queste “piaghe globali” del 2020 sembrano invece sottolineare come non ci siano più confini da superare, un Mar Rosso da attraversare o una Terra Promessa da raggiungere: l’unica Terra che abbiamo a disposizione è questa, e va sanata, curata e protetta perché sia finalmente quella “Promessa”.

Nel racconto dell’Esodo, il cuore indurito del Faraone si rifiuta di cogliere i segni, e l’Egitto soffre sotto i prodigiosi eventi che si abbattono sulla sua popolazione. Per quanto mi riguarda, da bravo primogenito, visti questi primi sei mesi del 2020 corro a procurarmi del sangue d’agnello con cui segnare l’architrave e gli stipiti della porta. Così, per ogni evenienza.

 

Giacomo Mininni

 

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Il virus dell’abitudine. Lettera a mia figlia

Impara a disabituarti.
Oggi compi diciott’anni e il solo consiglio che mi viene in mente di darti è questo, di perdere l’abitudine. Disabituati, a stare bene, ad avere la macchina, ad un tetto sulla testa, ad un letto dove dormire, a mangiare tutti i giorni, ad avere un amico, ad avere una famiglia, ad essere sempre in compagnia di qualcuno. Disabituati all’amore, alla felicità, alla speranza. Abbraccia il disinganno, fidati – questo sì – del prossimo e il prossimo si fiderà di te, ma il più delle volte, le decisioni più importanti della tua vita dovrai prenderle da sola, nel segreto di una stanza, nel buio più profondo di una giornata senza sole.
Leggendo queste parole penserai che tuo padre è un pessimista più che cosmico, galattico, uno di cui Leopardi non è che un rudimentale copiatore. Diciott’anni, tu pensi a organizzare la festa mentre io ti faccio la paternale! Quasi mi sembra di sentirti mentre discutiamo lanciandoci frasi fatte, scritte in un copione senza tempo letto e riletto da generazioni di padri e figli. Tu che sbuffi, che sbatti la porta a una conversazione che non avrà mai un inizio o una fine.

Ma questa non è una paternale, un giudizio alla tua età e alla tua voglia di sbagliare. Ti ho incoraggiato a camminare, ad andare in bicicletta, ad allacciarti le scarpe, a leggere l’ora, a scrivere bene il tuo nome, a disegnare, già mi chiedi di portarti in giro a guidare… ma per quanto il mio ruolo lo richieda non posso insegnarti a vivere.
Vivere è una cosa strettamente personale, intima. Chiunque dica il contrario è solo un pallone gonfiato, incapace di vivere egli stesso e per dare un senso ai suoi fallimenti pensa di poter gestire quelli degli altri. Posso solo darti consigli, ma il libero arbitrio è soltanto tuo, così come la coscienza, la responsabilità, la capacità di scegliere cosa è giusto e cosa invece è sbagliato.
Il mio consiglio spassionato è questo dunque, disabituati.

Quando l’ho imparato? Nel ‘20, quando eravamo tutti chiusi in casa, prigionieri di un virus venuto da lontano. Ti ho già parlato dell’autoisolamento, della quarantena, delle strade deserte e di quelli che cantavano alla finestra, quando eri piccola te ne ho parlato sottoforma di favola, poi sottoforma di ricordo; ora ti parlo di cosa c’era dietro quelle finestre, nelle case, nella mente della gente.

La maggior parte delle persone era abituata a tutto, alla routine insomma, quella a cui sei abituata anche tu; l’abitudine era un punto fermo. Già due giorni dopo l’inizio di tutto, le prime striscianti lamentele si sono insinuate nell’umore generale, poi sono seguiti gli sfoghi e l’esasperante ricerca di una possibile verità tenuta nascosta da qualcuno o da qualcosa. Sono arrivati i complottisti, i tragici, i melodrammatici, gli apocalittici. Ogni volta la colpa era di qualcuno, di uno stile di vita, oppure c’era lo zampino del divino punitore, della natura vendicativa.
L’insofferenza – sorriderai – della gente si manifestava negli appelli a rimanere a casa, nelle delazioni di improvvisati detective dei poveri, pronti a fotografare il trasgressore uscito a gettare l’immondizia. L’egoismo poi, quello di chi comprava lievito in quantità atomica “perché non si sa mai…”, che poi forse avrebbe congelato e poi sicuramente buttato pur di lasciare ad altri il pane azzimo della sconfitta.

La paura del prossimo nata dall’abitudine di essere individuali in una società fin troppo egocentrica.
Non ascoltare quelli che te la raccontano come una guerra. Sì, è stata dura, sì, ci sono state molte vittime, e c’era la paura di ammalarsi. Già, ma vedi, quella c’era anche prima, la paura di ammalarsi intendo, così come la paura di restare soli, la paura degli altri, la paura dei diversi, la paura di non riuscire a vivere una vita perfetta, di non avere più alcuna soddisfazione, la paura di perdere qualcuno e di dirgli addio.
Volevamo vivere fino a 120 anni per paura di non avere il tempo di fare tutto, volevamo trattenere il mondo perché così eravamo abituati ad agire.

Tu non lo fare, non dare mai nulla per scontato, non lasciare che l’ovvio si faccia largo nelle tue giornate, lascia andare qualche tua abitudine. Sorridi alla sorpresa, all’imprevisto, non cadere di proposito ma quando cadrai – perché cadrai – rialzati, arrabbiati se vuoi, ma poi ritrova il sereno dentro di te e armati di tanta, tanta pazienza.

Un bacio,
papà

 

Alessandro Basso

 

[Photo credit via Pixabay]

la chiave di sophia 2022