Perché le intelligenze artificiali spaventano l’uomo?

«Non è in alcun modo un sentimento di sovrabbondanza, quello che noi proviamo quando osserviamo un qualsiasi processo tecnologico. La sovrabbondanza, la pienezza, dove le percepiamo vanno d’accordo con la felicità, esse sono segni della fecondità […] Ma la tecnica non dona nulla, […] il paesaggio industriale ha perduto questa fecondità ed è divenuto luogo della produzione meccanica. È innanzitutto un sentimento di fame, che ci avvicina ad esso […] La macchina fa l’impressione di qualcosa di affamato; da tutto il nostro arsenale tecnico proviene l’impressione di una mordente, crescente e insopportabile fame»1.

È a partire da questa considerazione di Friedrich Georg Jünger che possiamo avviare una riflessione riguardo al sentimento che l’uomo prova di fronte alle potenze tecnologiche, di qualsiasi tipologia esse siano. Attualmente, viviamo in un’era che immerge ogni essere umano nello scenario digitale, senza lasciargli molte possibilità di scampo – non per nulla, per i nascituri contemporanei, Marc Prensky ha coniato l’espressione nativi digitali.

Ma perché l’avanzare delle nuove forme intelligenti, le cosiddette intelligenze artificiali, spaventa assiduamente l’uomo?

Una chiave di lettura ben collaudata, la stessa dalla quale la storiografia non può prescindere, ci porta a confrontarci con la storia per cercare l’origine di tale paura.

In particolare, lasciamoci trascinare alla fine dell’epoca dei lumi, quando a dare una svolta alla storia fu la prima, grande, rivoluzione industriale.

All’invenzione della macchina a vapore e del carbone, portata da questa, seguirono il motore a scoppio, l’elettricità e il petrolio, nel 1870, che caratterizzarono la seconda rivoluzione industriale. Infine, la terza: energia atomica, astronautica ed informatica, discipline che ebbero un exploit al termine della Seconda guerra mondiale fino ad arrivare ai giorni nostri.

Date e fatti appena indicati non sono semplicemente parte della Storia, bensì contengono anche il seme della risposta al sentimento di paura che ogni individuo nutre nei confronti della tecnologia. Questo timore, apparentemente irrazionale, ha la sua matrice in ciò che le grandi Rivoluzioni Industriali hanno modificato nell’uomo: lo scopo della sua esistenza.

A partire da esse l’uomo è diventato uomo-per-il-lavoro, nuovo ambizioso scopo della vita di ognuno. La dimensione lavorativa è divenuta centro e soprattutto perno dello scorrere del tempo, l’obiettivo del quotidiano vivere si è spostato dalla ricerca di una vita piena in senso etico ed ontologico al “semplice” successo nella carriera.

Ecco quindi che trapela il senso di tanto astio nei confronti delle nuove Intelligenze Artificiali: la paura di essere sostituiti, la paura di perdere il proprio fondamentale ruolo di controllo nel mondo tecnico-industriale.

«Nel confronto con la macchina l’uomo dunque si vergogna, si sente obsoleto e inadeguato. Il suo corpo appare deteriorabile e caduco. La sua persistenza in vita finisce con l’apparire qualcosa di inferiore rispetto alla “immortalità” che egli stesso può conferire ai suoi prodotti […] A fronte di questa sorprendente longevità degli oggetti, gli umani iniziano a raffrontare la propria caducità in un mondo fatto di cose eterne»2.

L’uomo grida di fronte al confronto con la tecnica. E per mettere a tacere questo grido, non gli resta che cambiare prospettiva.

All’uomo, per sopravvivere, non resta che modificare il suo approccio alla realtà, forse recuperandolo anche dal passato. La società iper-dinamica strettamente legata al lavoro esige un cambio di direzione, una svolta che possa portare l’umanità a rivalutare le mansioni volte al benessere collettivo, ai servizi, alla socialità, al vivere, al vivere bene.

Perché il lavoro non rappresenta davvero ciò che l’uomo è. L’uomo esiste per amore.

Quando teniamo in braccio un neonato, l’amore a prima vista, quando aiutiamo chi ne ha bisogno; l’uomo è capace di dare e ricevere amore in modo unico, e questo è ciò che lo differenzia dalle intelligenze artificiali.

Diversamente da ciò che la fantascienza mostra, le intelligenze artificiali non hanno la capacità di dare o ricevere amore; quindi, in quanto umani, abbiamo una possibilità di differenziarci e sopravvivere nell’era digitale. Così, mentre l’IA porterà via i lavori ripetitivi, noi potremmo e dovremmo creare lavori di compassione: lavoratori sociali che dovranno essere le fondamenta di questo passaggio. Avremmo bisogno di badanti pieni di compassione per dare cure mediche a più persone e avremmo bisogno di decuplicare gli insegnanti per aiutare i bambini a trovare il modo per sopravvivere e prosperare in questo nuovo mondo.

E con tutta questa nuova ricchezza, si dovrebbero trasformare le mansioni d’amore in vere e proprie carriere.

 

Anna Sacchetto

 

NOTE:
1. F. G. Junger, Die Perfektion der Technik, Klostermann, Frankfurt a. M., 2010 (traduzione a cura del prof. Fabio Grigenti), p. 27
2. F. Grigenti, Filosofia e tecnologia, CLEUP, Padova, 2012, pp. 79-80

 

Anna, 22 anni
A lungo presa per mano dalla musica, Liceo Musicale Giorgione, poi accolta tra le calorose braccia della filosofia, Università degli Studi di Padova; ora in cammino verso il lato concreto del mondo dei libri: editoria e giornalismo, Università di Verona.
Gioco spesso con le parole 
o forse loro giocano con me
A Lei, La Filosofia
che mi ha svuotata e riempita infinite volte.
D’accordo con Platone: sempre meglio in disaccordo con la maggior parte della gente piuttosto che io stessa, anche se sono una sola, in disaccordo con me stessa.
 
[Photo credits Franck V. su unsplash.com]
 

La fisica quantistica e il difetto deterministico del Tao

Nel 1979 Giovanni Paolo II istituì una commissione pontificia che, in estrema sintesi, ammise il proprio errore nell’aver condannato Galileo all’abiura del 1633. 

Le religioni sono dinosauri grossi e lenti nei cambiamenti, i loro precetti – dicono – sono divini, non possono essere in errore. Un’ammissione di errore diviene pertanto un processo lungo da ammettere, lungo anche 346 anni.

Potete ora osservare lo stesso processo, di sgretolamento di un precetto religioso, in atto presso le religioni taoiste. Qui vi è una legge dello spirito chiamata wu-wei per la quale: «quello che è è ciò che doveva essere, non opponetevi al fluire delle cose e vivete in armonia, vano è perseguire un fine diverso, ogni cosa segue il suo sviluppo»1

Pensate ora al pessimismo greco, alle sue predestinate tragedie (dell’antica Grecia), a Edipo impossibilitato a sottrarsi al suo destino, a quel senso di rassegnazione che si staglia sulla società quando si accetta l’idea che tutte le cose, se sono così, è perché dovevano essere così, determinate a essere così dall’inizio dei tempi. Ne nasce la rassegnazione, la deresponsabilizzazione, il pessimismo, il non-agire, il lasciar accadere, la liberazione dalle colpe e l’accettazione di tutto ciò che è. Ma non è di questo orrore psicologico che volevo parlare, ma di come il suddetto principio spirituale (wu-wei) si danneggi sotto le prove dei fatti, similmente a come crollò quel precetto cristiano per mano di Galileo. 

Siamo nel 1913, Planck introduce per la prima volta il concetto di “quanto”. Nasce una nuova scienza, la fisica quantistica, cioè la misurazione di ciò che succede, in particolare, sotto la grandezza dell’atomo. È sorprendente, alcune nostre misurazioni trovano accordo con la natura quantistica solo se si appoggiano a principi casuali (es. principio di indeterminatezza) o alla matematica del caos. No, non è un problema di misurazione, è proprio un principio che è stato osservato in natura, similmente a come Galileo osservò i movimenti dei corpi celesti: «misurando i fatti».  

Il fatto che si tratti di un principio e non di una mancanza di misurazione, significa che anche conoscendo tutto, onniscienti come Dio, ci sono eventi che non si può sapere in anticipo come accadranno, se non all’infinito ma noi qui non viviamo l’infinito, pertanto qui decade il detto precetto taoista: 

Ciò che è, in alcuni casi, poteva essere diverso2.

Insorgono così i mondi paralleli, insorge il bisogno non solo di fluire nell’armonia dell’universo (wu-wei) ma di essere noi stessi artisti di un’armonia:  

Dio non sempre dice come le cose devono andare (dovere), a volte dice come possono andare (potere)3.

Ed è in questo “potere” divino che si dà la casualità e il libero arbitrio, mentre per il “dovere” divino si pone la determinazione, la necessità, il destino: sicché ognuno sia attore (potere) e spettatore (dovere) a un tempo dell’esistenza4

Chiaramente non sto ponendo la casualità come origine, ben lungi da Bohr e compari fisici, bensì una causa che in date circostanze lascia margini di casualità e libertà riconciliabili all’infinito nel principio unico.  

La cosa curiosa di questo resoconto, è che nello stesso secolo in cui la Chiesa Cristiana ammette la misurazione di Galileo (1979) apostrofandolo successivamente come «il divin uomo» (2009), in quello stesso secolo una nuova misura, la misura del caso, mette in crisi uno dei precetti spirituali di un’altra religione fra le più potenti al mondo, il Tao. 

Anche qui ci vorranno 346 anni prima di una loro ammissione ufficiale di errore?  

Nel frattempo abbiate cura di riconoscere sempre ciò che è in vostro potere da ciò che sta oltre il vostro potere e con cui non potete altro che l’armonia. Riconoscete quando non-agire come l’acqua che si adatta al corso (wu-wei), da quando dipende dal vostro agire come l’acqua che sgretola la roccia. Considerate, l’idea di scorrere nel flusso universale e di poter deviare/opporvi ad alcuni flussi individuali. Lasciate, che la natura delle cose accada ma no la brama di sopraffazione di alcuni. Cogliete la Santità dell’Unità e la Sacralità dell’Io

Si dice: a volte non possiamo farci nulla, qualunque cosa facciamo, ed è bene fluire nella natura universale, ma ci sono volte in cui siamo noi a poter definire un futuro fra i diversi possibili, senza che questo sia l’unico a disposizione, senza poter dire sempre «doveva essere cosi» bensì a volte «poteva essere anche diverso ed era in mio potere che fosse diverso o che lo sarà»5.

 

Vito J. Ceravolo

 

NOTE:
1. Cfr. Dao Dejing, sintesi cap. 37.
2-3-4. Cfr. V.J. Ceravolo, Libertà. Mondo. Interferenze, 2018.
5. N. Bohr, Teoria dell’atomo e conoscenza umana, 1961: «Per trovare qualcosa che corrisponda alla lezione offertaci dalla teoria atomica [dobbiamo rivolgerci ] a quel tipo di problemi epistemologici che già pensatori come Buddha e Laotzu hanno affrontato nel tentativo di armonizzare la nostra posizione di spettatori e attori a un tempo del grande dramma dell’esistenza».

 

Vito J. Ceravolo, classe 1978, è ricercatore indipendente nell’ambito dell’accessibilità intellegibile all’in sé e percettiva al fenomeno. Fra le sue pubblicazioni: Mondo. Strutture portanti. Dio, conoscenza ed essere, ed. Il Prato, collana I Cento Talleri, Saonara 2016 (secondo al Premio Nazionale di Filosofia 2017, Certaldo); Libertà, ed. If Press, collana TheoreticalPhilosophy, Roma 2018. Diversi anche gli articoli pubblicati presso riviste.

 

[Immagine tratta da pixabay.com]

“Atmospheres” e l’esperienza dell’atemporalità tra musica e filosofia

Accade di frequente che la musica classica contemporanea venga dai più (“profani” e non) poco apprezzata, forse perché tendenzialmente considerata sgradevole all’udito o incomprensibile. Tuttavia, non si può non negare che essa abbia un impatto notevole nel determinare nuove concezioni dello spazio e soprattutto del tempo, essendo la musica arte che ne modella qualitativamente e quantitativamente l’aspetto.

A tal proposito, è stata certamente rilevante la riflessione proposta dall’ungherese György Ligeti (1923-2006) tanto nei suoi saggi teorici quanto nelle sue composizioni.

Intorno agli anni ‘60 del Novecento, dopo un intenso periodo di ricerca e di sperimentazione, di studio e di analisi delle principali correnti di pensiero nell’ambito dell’estetica musicale, giunge a formulare l’ipotesi di poter attuare una spazializzazione del tempo sfruttando come mezzo le proprietà interne alla struttura stessa della musica. Già nelle produzioni di Stockhausen o Boulez (siano da esempio per il lettore il Gruppen für drei Orchester del primo e Dialogue de l’ombre double del secondo) troviamo l’intento di mettere in luce le relazioni di interdipendenza tra lo spazio ed il tempo attraverso la musica. Ma mentre questi, dislocando le fonti di generazione del suono, riproducono il dialogo tra il tempo musicale e lo spazio reale, Ligeti mira ad evocare nell’ascoltatore uno spazio immaginario che sveli la fusione spaziale e temporale che esiste, in verità, in interiore homine. Essendo a inizio secolo decaduto l’impianto narrativo che fino alla modernità aveva caratterizzato ogni fare artistico, il brano musicale non può più essere inteso come una successione “cronologica” e direzionata di suoni, ma al contrario come un insieme di eventi sonori che, sciolti dall’originario flusso discorsivo, vengono localizzati in uno spazio virtuale.

È evidente, ora, che la predominanza della componente spaziale ha la meglio sul dinamismo temporale, che sino allora veniva considerato proprietà imprescindibile dell’opera musicale. Proprio questa prospettiva permette così di visualizzare figure e “oggetti” dai profili cangianti: il complesso articolato dei suoni evoca, al variare dei timbri, un corrispettivo mutamento nell’aspetto delle forme immaginate, e genera, nell’alternarsi graduale dei pianissimi e dei fortissimi, una sensazione di allontanamento e di avvicinamento delle stesse.

Tutto ciò è, per l’appunto, Atmosphères, vera e propria “musica dello spazio”1, per dirla con Ligeti, tentativo di sospensione della percezione dello scorrere del tempo e illusione dell’esperienza dell’atemporalità.

«Che il tempo subisca un arresto, venga portato alla stasi – precisamente questa è la mia esigenza interiore più profonda»2: così dichiara apertamente il compositore ungherese. Si tratta di interrompere, in quei pochi minuti di musica, il processo «indicibilmente triste»3 e per molti angosciante del divenire temporale, di rifiutare la convinzione di un presente che ogni istante si traduce in un nulla passato e di un futuro che, in un altrettanto breve frangente, appare per poi subito scomparire. Atmosphères si rivela così essere un chiaro invito alla contemplazione (non diversa da quella rivolta ad un’opera d’arte figurativa) di una dimensione immaginaria e suggestiva che momentaneamente ci discosti dalla frenesia quotidiana.

Oltre a ciò, osservazione non poco curiosa è che questa percezione della staticità temporale si fonda in realtà su di un particolarmente articolato dinamismo. Ogni sezione dell’orchestra, se non, in alcune occasioni, ogni singolo strumentista, riproduce motivi di per sé autonomi che, in quel groviglio di note, non sono affatto riconoscibili. Il tessuto melodico di queste micropolifonie, per usare il termine specifico adoperato da Ligeti, risulta così essere talmente fitto e non precisamente delineato da generare una complessiva staticità. Si produce quindi la sensazione dell’assenza della direzionalità melodica del tempo intrecciando tra loro molteplici voci apparentemente indipendenti o comunque non inserite in una qualche “gerarchia armonica” che porterebbe alcuni incisi a prevaricare sugli altri. L’equilibrio tra le istanze temporali, presente in ciò che sembra non avere tempo, si risolve in una sostanziale omogeneità.

Da abile artista, ovvero “illusionista” capace di mascherare i trucchi dei propri artifici, Ligeti ha ricreato una dimensione comunemente ritenuta impossibile nella realtà. Certamente, permettendo di farne esperienza, è riuscito a soddisfare quella che egli stesso definisce «l’esigenza fondamentale di ogni arte» e cioè essere in grado di «simulare l’inesistente come se esistesse»4.

Per concludere, allora, non resta che consigliare di ascoltare Atmosphères con l’attenzione che gli si deve, tenendo conto della riflessione intellettuale che l’ha generato, e di provare, poi, a guardarsi intorno per apprezzare il tempo reale in una nuova e intrigante prospettiva.

 

Beatrice Magoga

 

1. I. Pustijanac, György Ligeti. Il maestro dello spazio immaginario, p. 147
2. Ivi, p. 267
3. J-P. Criqui, Tempo! Riflessioni, Castelvecchi Editore, Roma 2000, p. 49
4. I. Pustijanac, György Ligeti. Il maestro dello spazio immaginario, p. 263

 

Beatrice Magoga, opitergina della classe 1999, è iscritta alla facoltà di lettere e al conservatorio di Bologna. Ha partecipato come membro a rotazione della giuria della III edizione del concorso di poesia “Mario Bernardi” di Oderzo e ha collaborato come articolista con L’Azione e Gazzetta filosofica.

 

[immagine tratta da unsplash.com]

Il pedagogista cristiano: tra pedagogia, etica e spiritualità

«L’essere umano non è chiamato a vivere,
ma a vivere bene».
– Giuseppe Mari

Nel seguente articolo tratterò il concetto di pedagogista cristiano prendendo spunto dalla prospettiva del Professor Giuseppe Mari. In sede introduttiva è doveroso esplicitare che ha avuto una formazione filosofica ed è stato professore ordinario di Pedagogia presso l’Università Cattolica di Milano e presso IUSVE (Istituto Universitario Salesiano Venezia). Ha preso parte a numerosi gruppi di ricerca nazionali ed internazionali, tra cui Scholè (Centro Studi tra Docenti Universitari Cristiani), SoFPhiEd (Société Francophone de Philosophie de l’Education, Paris) e SEP (Sociedad Española de Pedagogia, Madrid). Per la stesura dell’articolo ho preso spunto dal suo testo Pedagogia cristiana come pedagogia dell’Essere.

Nella prospettiva che ha portato avanti il pedagogista, l’apporto del Cristianesimo costituisce uno snodo centrale nella ricerca di Senso. Il filone culturale preso in considerazione si fonda su «una fede che intimamente anima la persona»1. Questa affermazione mette in luce la possibilità di un percorso di ricerca accurato e profondo, verso la scoperta e costante alimentazione del proprio credo. Inoltre è necessario non tralasciare l’aspetto della relazionalità, che anima l’essere umano.
In secondo luogo lo studioso ha posto magistralmente in questione il fatto che il Cristianesimo viva un’«intima tensione […] tra umano e divino»2. Essa è riscontrabile sia nella dottrina della creazione dell’essere umano a immagine di Dio, sia in quella dell’incarnazione di Gesù. La dottrina cristiana è quindi fondata su un delicato equilibrio che si crea tra la polarità della secolarizzazione e quella della sacralizzazione, entrambi concezioni errate del Cristianesimo. In questo senso, lo sbilanciamento verso una parte piuttosto che l’altra porta ad uno «snaturamento dell’ispirazione religiosa cristiana la quale crede che il Verbo si fece carne»3.
Giuseppe Mari, durante la sua vita, si è interrogato sulle potenziali ricadute etiche e pedagogiche derivanti da questa prospettiva; ciò lo ha portato ad identificare la figura del pedagogista cristiano. L’idea è fondata sulla possibilità di un dialogo costruttivo e non confessionale del Cristianesimo con i vari apporti disciplinari specifici, i quali costituiscono la nostra società tecnica. Questa apertura è possibile tramite un passaggio cardine, ovvero la fondazione scientifica di una riflessione educativa «condotta da credenti ma non fondata sul postitum confessionale [comunque assolutamente decisivo per un’identificazione cristiana cattolica] bensì in analogia con le altre scienze»4. Nel caso del pedagogista cristiano la riflessione è fondata sulla Pedagogia in quanto scienza.

Il ricercatore, in maniera accorta ed equilibrata, ha prevenuto la relativizzazione dell’apporto di riferimento. Essa ne causerebbe un intimo snaturamento. In questo senso, citando Berti, scrive: «Ma che cosa si vorrebbe? […] Non solo che la Chiesa si aprisse, come effettivamente si apre, ad un pluralismo filosofico, ammettendo come compatibili con la fede una pluralità di filosofie (cosa che essa fa) ma che le ammettesse tutte, diventando in tal modo essa stessa relativista?»5.

Dall’affermazione si comprende l’intento chiarificatore ed a favore dell’idea che all’interno della società contemporanea debba essere mantenuta viva la prospettiva cristiana, poiché è eticamente e spiritualmente forte. La Rivelazione di Gesù ne costituisce un aspetto centrale e l’originalità pedagogica che quest’ultima porta è accostabile tramite il messaggio evangelico. Per Mari il Vangelo veicola contenuti educativi la cui mediazione
richiede attenzione e intenzionalità, poiché l’inculturazione cristiana portata da Gesù non deve essere intesa come «esemplarietà esclusiva [ma] deve tenere conto delle molteplici (e nuove) variabili culturali»6.

In conclusione desidero esplicitare il motivo per cui ho trattato questo argomento. In primo luogo ho scelto questo tema perché credo che il fatto di esplicitare una tensione tra due polarità che snaturano il Cristianesimo (secolarizzazione e sacralizzazione), consenta al lettore di identificarle nella sua vita personale e comunitaria. In secondo luogo credo che l’articolo fornisca una possibilità di riflessione sulla “collocazione” personale e comunitaria rispetto ai poli della alla tensione identificati sopra; la collocazione può essere bilanciata oppure sbilanciata verso uno dei due, e necessitare di un ricentramento. Infine la prospettiva del pedagogista cristiano è fattibile quotidianamente attraverso azioni solidali semplici e concrete.

 

Matteo Milanese

Mi chiamo Matteo Mianese, ho 22 anni e vivo a Mirano in provincia di Venezia. Nel 2016 ho conseguito il Diploma di Tecnico dei Servizi socio-sanitari presso l’istituto Vendramin Corner a Venezia. Quest’anno mi sono laureato in Scienze dell’Educazione-Educatore della Prima Infanzia presso IUSVE a Mestre ed al momento sto proseguendo con la Magistrale in Scienze Pedagogiche nella stessa università.

 

NOTE
1 G. Mari, Pedagogia cristiana come pedagogia dell’essere, Editrice La Scuola, Brescia, 2001, p. 260.
2 Ibidem
3 Ivi p. 261
4 Ivi p. 262
5 Ivi p. 268
6 Ivi p. 265

Il conflitto artistico presidia la democrazia: la tesi di Chantal Mouffe

Affermare l’inscindibilità tra arte e politica equivale a ristabilire il ruolo dell’artista o quello della critica, non come svenevoli strumenti per fare esperienze estetizzanti, ma per restituire il senso più alto dell’attivazione di una cittadinanza sveglia e qualificata. Una cittadinanza che invita a interpretare gli uomini, a stabilire legami e a far sorgere dubbi. In questo modo diventa indubbio che sia un “atto politico”, tutto ciò che crea un’immagine alternativa del sé o del collettivo.  

Nel tentativo di inchiodare il potere alla verità, una questione urgente anche se trascurata nel dibattito sull’arte contemporanea è quella che cerca di capire i modi tramite i quali il capitalismo cattura e poi fagocita la produzione culturale. I critici d’arte difficilmente affrontano la questione in questi termini. Tuttavia è vero che c’è chi cerca di coniugare libertà espressiva e industria creativa ideando strumenti teorici e pratici atti alla trasformazione radicale del presente. Le loro teorie, derivate da specifici approcci politici, sono interessanti perché leggono la produzione artistica come metafora dei rapporti sociali. Dalle loro riflessioni emerge chiaramente una premessa necessaria: l’immagine è una questione molto complessa. Vero e proprio terreno minato, il visivo è materia difficile da trattare, perché ci impedisce di usare il termine cultura in un unico modo, dal significato valido universalmente. C’è chi ad esempio, s’impegna nello studio sul contemporaneo puntando il dito contro il suo aspetto materialistico e il suo essere risorsa positiva del paradigma di produzione postfordista.

Tra i politologi, alcuni vedono l’arte contemporanea come prodotto di una serie di pratiche che stabiliscono norme e si appoggiano a quel capitalismo cognitivo la cui ricchezza si basa su elementi difficili da misurare. È qui che si colloca la politologa Chantal Mouffe quando afferma la necessità di accettare l’aspetto agonistico e conflittuale della democrazia, invitandoci a respingere l’assunto secondo il quale non ci sono alternative. Le alternative in realtà ci sono, ma implicano una riattivazione del conflitto come condizione reale di una democrazia vibrante. Insomma, nell’ambito di un capitalismo che ha fame di simboli e d’immagini, l’autrice dell’interessante saggio Il conflitto democratico pensa che le pratiche artistiche possano assumere una funzione critica, creando e promuovendo spazi pubblici agonistici in grado di attuare alternative all’ordine egemonico. Dimostrando che se non può essere estirpata, questa egemonia può comunque essere messa in dubbio producendo mondi che quell’ordine non ha previsto. L’arte insomma può destabilizzare il conflitto quando favorisce forme di identificazione alternative da intendere come forma di resistenza. Quando cioè l’arte svolge tale operazione proprio nella dimensione più politica che è quella pubblica e si colloca in una dimensione diffusa, compie il suo atto critico più perfetto che è quello di coinvolgere invece di preoccuparsi del mercato. Una dimensione nella quale diventa obsoleta la classica figura dell’artista perché è significativo solo ciò che allarga il campo dell’intervento artistico. Uno spazio non interessato al consenso proprio perché crea sempre nuove soggettività con proposte artistiche da vivere e non da consumare. Proposte contro identità date per scontate, contrapposte alle reazioni prevedibili e ai sentimenti standardizzati. Vere e proprie forme critiche nel contesto di lotte contro egemoniche più ampie.

È così che il progetto di artisti come Alfredo Jaar per la città svedese di Skoghall nel 2000 o quello per New York dell’artista belga Olafur Eliasson nel 2008, diventano espressione del come si risvegli la consapevolezza e si raggiunga la dimensione affettiva con pratiche che inducono le persone ad agire. Nella città svedese, famosa per la produzione di carta ma disinteressata all’arte, l’artista cileno progetta una Konsthall dove organizza una mostra che il giorno dopo non sarà più visibile. L’edificio ridotto in cenere, aveva solo il compito di sensibilizzare e stimolarne il desiderio. La presenza e subito dopo la mancanza di un museo puntava cioè ad incitare il bisogno culturale che poi effettivamente si realizza.  Anche le quattro cascate che scrosciavano in pieno East River a New York (Waterfalls) di Olafur Eliasson avevano il compito di inserire i corpi in un’esperienza inedita. Le cascate non servivano per portare la natura in città quanto per dire che esserci fa sempre la differenza.

Se ci accorgiamo di avere un corpo e sentiamo di far parte di uno spazio allora il corpo attiverà la percezione di sé e svilupperà un senso nuovo: quello delle conseguenze del suo essere lì. L’obiettivo in entrambi i casi è quello di suscitare l’ascolto della propria creatività e rendere visibile ciò che il consenso tende ad oscurare. Dando voce a ciò che è tenuto in silenzio, l’arte ha liberato nuove soggettività e assecondato l’auspicabile approccio agonistico contro identità già delineate e desideri già previsti. La dimensione critica più importante si è manifestata proprio in questo loro mappare le emozioni e turbare il senso comune con pratiche che hanno smosso affetti e indotto democraticamente, le persone ad agire.

 

Matilde Puleo

Matilde Puleo è storica e critica d’arte, curatrice, organizzatrice di eventi culturali e docente. Ha collaborato con riviste di settore e scrive regolarmente di arti visive e cultura. Collaboratrice di alcune gallerie private e istituzioni museali, nel 2006 ha istituito un’associazione culturale per la quale ha curato la direzione artistica promuovendo progetti d’arte in spazi pubblici. Dal 2008 al 2014 è Indipendent Curator per www.megamega.it nel quale ha promosso l’attività formativo-espositiva dei giovani artisti del territorio. Ha scritto numerosi testi per libri e cataloghi ed ha collaborato con l’Università degli studi di Siena, per l’insegnamento di storia dell’arte contemporanea. Dal 2002 è giornalista per la rivista cartacea Espoarte e collaboratrice free-lance per alcune riviste on-line.

[L’immagine di copertina ritrae l’opera di Olafur Eliasson Waterfall a Londra, fonte Evening Standard standard.co.uk]

Francesco Guccini: il cantante dell’esistenza

«Non ho fatto politica ma brani esistenzialisti»1, così esordisce Francesco Guccini in un’intervista rilasciata a Il Giornale nell’ottobre del 2017. È lui infatti il cantante del disamore, dell’incertezza, della caduta dei valori tradizionali, il cantante delle rivoluzioni, della malinconia e del disequilibrio. Guccini è un vecchio che rimpiange o ammette con sconsolata pazienza che nulla esiste, tranne il dubbio. Ma allo stesso tempo non c’è in lui ansia di risolvere e di capire; perché non ce n’è da risolvere, n’è da capire. C’è da osservare e prendere atto2.

Tempo, morte e dubbio così non sono solo i punti cardini che riecheggiano tra i manifesti dell’esistenzialismo come Essere e tempo o l’Essere il nulla, ma sono anche i temi più trattati nelle canzoni del Maestrone di Pàvana. Il “rovaio d’un dubbio eterno” è una costante tra i testi del “Guccio”, il non accontentarsi di risposte preconfezionate, dell’apparenza, della superficie delle cose, la verità è infatti qualcosa che va ricercata con cura, che va svelata, o come meglio direbbe Nietzsche “ruminata”. Nella Canzone della bambina portoghese, per esempio, ci s’imbatte in “verità fatte di formule vuote”, in gente che è già sicura di “conoscere ogni legge delle cose”, ma che proprio per questo motivo è sottoposta più di altri al margine d’errore in quanto esclude la contemplazione di una seconda possibile strada.

Il contesto in cui meglio la pratica del dubbio prende vita è la consapevolezza dello scorrere del tempo, un tempo incessante, troppo veloce, o meglio come canta in Lettera: un tempo che “stringe la borsa”. In “questo ingorgo di vita e morte” infatti dobbiamo essere consapevoli che il tempo a nostra disposizione è un tempo limitato, e proprio per questo va vissuto a pieno; l’oggi è per Guccini qualcosa di veloce, “un formicaio di cose andate”, inafferrabile e impossibile da rivivere una seconda volta. Facilmente, per questo motivo, traspare nelle canzoni del cantautore emiliano, una sorta di bilancio esistenziale, che viene proiettato in personaggi come la signora Bovary, una donna che sembra schiacciare il tasto rewind e chiedersi se si può ritenere soddisfatta o meno della propria vita. È proprio questo che rende Guccini anche un grande scrittore: «Il tentativo di mettere a fuoco le grandi questioni della vita attraverso la narrazione precisa e accurata di situazioni tratte dall’ordinario che si sviluppano drammaticamente fino al punto estremo di domanda, punto che riguarda la vita dei suoi personaggi e di chi legge i suoi versi»3.

Sulla scia di questo pensiero si può riconoscere una grande affinità con la filosofia di Heidegger e Bergson, e consapevole di ciò Guccini commenta: «Esistono due tempi: quello quotidiano, scandito dagli orari, vissuto non sempre bene da chi, come me, guarda sempre l’orologio; e quello lato, che passa e non ritorna e ci macina tutti, senza troppo rispetto. Si va avanti, si cammina, s’invecchia e ci si guarda alle spalle per vedere che cosa è stato e che cosa sarebbe potuto essere; più difficile guardare avanti e interrogarsi su cosa sarà»4.

La consapevolezza dello scorrere del tempo si mescola così con il sentimento di malinconia, la malinconia della giovinezza, della spensieratezza, delle cose andate. E così come Leopardi vede nella morte di Silvia la fine della propria giovinezza, in Un altro giorno è andato, Guccini fa trasparire il suo addio alle mille speranze giovanili, vedendo trasformare il “riso dei minuti in pianto”. Quelle di Guccini non sono così da considerarsi semplici canzonette, ma testi impregnati di valenza filosofica, storica e culturale, come ha infatti commentato Umberto Eco: «La sua è poesia dotta, intarsio di riferimenti»5, la sensazione che si prova nell’ascoltare le canzoni di Guccini è infatti quella di dover letteralmente “rincorrere il significato”, inciampando però in mille tranelli. Guccini stesso non si considera né un filosofo né un poeta. Comunque lo si voglia etichettare, il cantautore emiliano ha la capacità di trascinare l’ascoltatore dentro il suo mondo, spingendolo a riascoltare le sue pene d’amore o dubbi ideologici con uguale partecipazione e, spesso, completa identificazione. In questo si racchiude, forse, il vero aspetto filosofico – esistenziale di un grande cantautore come Francesco Guccini.

 

Alice Pastorino

 

NOTE
1. Leggi l’articolo qui.
2. P. Jacia, Francesco Guccini 40 anni di storie romanzi e canzoni, Editori Riuniti, Roma 2002, p. 11.
3. B. Salvarani – O. Semellini, Di questa cosa che chiami vita, Il Margine, Trento 2008 p. 123.
4. B. Salvarani – O. Semellini, Guccini in classe, Emi, Bologna 2013, p. 171.
5. P. Jacia, Francesco Guccini 40 anni di storie romanzi e canzoni, Editori Riuniti, Roma 2002, p. 15.

Alice Pastorino classe 1995, vive a Masone, un piccolo paese ligure in provincia di Genova. Dopo il liceo si iscrive e si laurea in Filosofia con una tesi sull’esistenzialismo nelle canzoni di Francesco Guccini. Grazie a questo progetto ha avuto la possibilità di visitare le location bolognesi teatro di tante canzoni di Guccini, fino ad essere accolta in casa del maestro stesso il 19 Aprile 2019. Ad oggi è iscritta al corso di laurea magistrale in Metodologie filosofiche presso l’università di Genova, con la prospettiva di potersi specializzare nell’insegnamento della filosofia nella scuola secondaria di secondo grado.

Quale compromesso con la scelta del “meno peggio”?

Il compromesso si dà come la scelta tra ciò che idealmente l’individuo vorrebbe fare e ciò che invece realizza in quanto “gettato” nel mondo. Una mediazione. Il fondamento logico alla base di ciò mostra avere tre contraddizioni. La prima è cosa scaturisce dalla logica del compromesso: i rapporti di forza. Se le qualità dell’essere di uno specifico individuo nell’hic et nunc sociale e valoriale si mostrano più “potenti” rispetto a un altro, allora la volontà di quell’individuo sarà maggiormente avvalorata dal mondo e riuscirà a spingere il compromesso un “po’ più in là”, cioè verso quello che idealmente vuole fare. Tuttavia anche chi ha maggior potere è soggetto a dei limiti: ad esempio le ossa e i muscoli del corpo non sono strutturati per prendere il volo come un colibrì. Non è quindi possibile fare una mediazione con la gravità e volare in quanto esseri umani. Questa è la prima contraddizione dell’esistenza nell’ottica della logica che propone il compromesso: o la violenza o la frustrazione dell’impotenza nel non riuscire mai pienamente ad esercitare la propria volontà.

La seconda contraddizione a cui è soggetta ogni persona è rappresentata dal tentativo di ritagliarsi un tempo sufficiente per le proprie passioni. Si dice, ad esempio, che per comprare un bene si deve lavorare, ovvero che per ritagliarsi uno spazio piacevole nel mondo è indispensabile “accettare” di dare al mondo un qualcosa che può non essere piacevole, in questo caso potrebbe essere una prestazione lavorativa magari mal pagata o stressante. Tuttavia, se è vero che ogni persona è ontologicamente gettata nel mondo, allora ogni cosa che produce quella persona sarà nel mondo. Comprese le sue passioni, il tempo che ritaglia e cosa farà in questo tempo. Tornando all’esempio quel bene che l’individuo ottiene verrà dal mondo e sarà “consumato” nel mondo. È quindi impossibile creare un sistema parallelo, o al di fuori, dal mondo stesso in cui godersi appieno il frutto di una volontà che non è individuale.

Come uscire quindi dalle antinomie proprie del pensiero che prevede il compromesso come una mediazione io-mondo? Storicamente Antonio Gramsci si espresse riguardo al compromesso con una affermazione che fugge dalla logica della mediazione, o del “meno peggio”, in Quaderni dal carcere:

«La formula del male minore, del meno peggio, non è altro dunque che la forma che assume il processo di adattamento a un movimento storicamente regressivo».

Come sempre Gramsci esprime un pensiero lucido e ordinato: accettare delle scelte che scaturiscono “in parte” un danno, non potrà mai portare ad un godimento o un miglioramento nel lungo periodo, anzi porta ad un esito che ha gusto di regressione, insoddisfazione e infelicità. La scelta del compromesso come mediazione è in una parola: inautentica.

Ciò da luogo a una terza contraddizione: se si può ammettere solo ciò che si pensa (il lettore può sfidare questa tesi provando ad ammettere qualcosa che non pensa) come può il mondo, il quale è oggetto prodotto del pensiero, chiedere qualcosa non nell’interesse di un soggetto che lo pensa? Il pensiero in questo discorso è diverso dal pensato che è il suo predicato. Il pensiero è invece quel movimento nella mente dell’individuo che permette l’esistenza di un mondo, esso infatti non esisterebbe se non ci fosse tale movimento. Quindi il mondo, tutto ciò che è altro da sé, come potrebbe chiedere, esigere, qualcosa di diverso dalla volontà dell’individuo che è il suo creatore? Sarebbe assurdo!

Allora qual è il motivo di tanti individui fragili, sofferenti e infelici? Il fatto che le scelte, se mediate nella logica del compromesso o del “meno peggio”, non sono mai autentiche. “Alla lunga” portano a un peggioramento dell’intero sistema.

Ci sono altre soluzioni percorribili? Una potrebbe essere quella di risolvere la dicotomia “io-mondo” uscendone: lasciare coincidere materialmente l’io con il mondo in un unico grande e concreto assoluto. Ecco che il compromesso non lo fa solo l’Io che sceglie “questo e non quello”, ma lo fanno tutti quanti, tutti quelli che in un dato momento si possono pensare. Ogni decisione deve essere una scelta presa — pensata, sofferta, discussa, lottata — da tutti gli attori pensabili. Se la società costringesse un individuo a dedicarsi per un lavoro che non gli lascia né tempo né energie per sviluppare la sue passioni al di fuori d’esso, oppure quel lavoro non rispecchia la sua indole e qualità intellettuali, allora si sarebbe di fronte alla follia! L’azione che ne risulta viene pensata come bene per qualcuno, ma non per tutti. Si è quindi di fronte a una “regressione storica”, cioè alla tendenza universale verso il male. Tale scelta è avvenuta perché non c’è stato abbastanza confronto, abbastanza dialettica con il sé e l’altro da sé che concretamente è tutto ciò che in un determinato momento, quello della scelta, si può pensare.

Cosa fare? Se ci sono le capacità residue — psicologiche si intende —, quindi umorali e toniche per farlo, bisogna lottare non per ritagliarsi un tempo al di fuori delle logiche del mondo, né scegliere il “meno peggio” — che come si è visto è contraddittorio —, ma mobilitarsi attraverso l’insegnamento e l’educazione del mondo e di se stessi all’autenticità collettiva come principio di non indifferenza, ovvero avere uno sguardo complesso e completo dell’assoluto. Non è facile. Infatti Benedetto Croce, in parte maestro intellettuale di Gramsci, nel suo Logica come scienza del concetto puro afferma:

«Pensare è combattere, senza tregua alcuna, sebbene nella battaglia stessa si abbia sempre, a ogni attimo, pace e sicurezza; e il definire è indistinguibile dal dimostrare, perché si trova in ogni attimo del dimostrare e coincide con esso».

Lo scopo ultimo del rifiutare il compromesso è una vita molto più complicata, prevede una “lotta costante” scriverebbe Croce, ma assai più soddisfacente: è risolvere contraddizioni, pensare nella totalità e fare scelte autentiche. È difficile, stressante, nei casi più sfortunati si sviluppano nevrosi e psicosi o forme di delinquenza, perché da una parte c’è chi sarà troppo fragile per lottare per le sue idee e dall’altra ci sarà chi è troppo violento per ascoltare quelle degli altri, ma è l’unico modo per costruire una direzione di felicità comune.

 

Matteo Gazzitano

 

Matteo Gazzitano, classe 1990. Da sempre affamato di conoscenza per soddisfare il suo bisogno di bellezza, calma e comprensione. Specializzato in studi clinici sulle cure palliative e umanistici sulle scienze dell’educazione con più corone d’alloro. La sua attività professionale è rivolta alla cura, all’aiuto e alla vicinanza nella sofferenza delle persone con dipendenza patologica. La sua ricerca verte sui modi, politici e psico-pedagogici, per implementare i contesti che generano possibilità esistenziali non disagiate.

[Photo credits Jeremy Bishop]

Socrate e la filosofia come esercizio di morte

Che cosa accadrà al momento della nostra morte quando i nostri occhi si chiuderanno per sempre e i nostri polmoni esaleranno l’ultimo respiro? Precipiteremo in un sonno senza sogni oppure ci sarà qualcos’altro ad attenderci magari dopo esserci liberati del nostro corpo?

Queste sono solo alcune delle domande sulle quali sin dall’antichità l’essere umano si interroga. Da allora il mondo è cambiato e benché si siano fatti grandi passi avanti in campi come la medicina, la morte è ancora qualcosa che non ci piace, qualcosa con cui ancora non abbiamo imparato a convivere. Ciò avviene molto probabilmente perché l’essere umano tende per sua intima esigenza a volersi spiegare ogni fenomeno, in quanto la conoscenza produce in lui un forte senso di sicurezza; al contrario, l’ignoranza di fronte alla morte e a quello che ci potrà accadere una volta sopraggiunta, provoca disagio e spaesamento. Questo stato apre il campo alle supposizioni, ai timori che in alcuni casi possono condizionare la nostra vita e quella di chi ci sta intorno.

Per ovviarli, per impedire che essi non ci consentano di vivere appieno, in nostro aiuto ci viene un pensatore vissuto nell’Atene del V secolo a.C: Socrate. All’interno del Fedone, Socrate viene descritto da Platone nei suoi ultimi istanti di vita a dialogare in mezzo ai suoi discepoli. Li conforta, ricordando loro di stare sereni e li esorta a continuare la propria vita nella ricerca filosofica perché solo il vero filosofo è colui che è pronto e disposto a morire in ogni momento: «Tutti coloro che praticano la filosofia in modo retto rischiano che passi inosservato agli altri che la loro autentica occupazione non è altra se non quella di morire e di essere morti. E se questo è vero, sarebbe veramente assurdo per tutta la vita non curarsi d’altro che della morte».

Quello che a Socrate preme far capire, e che risulta ancora oggi per noi una lezione importante, è che la fede e la speranza con cui il filosofo affronta la morte non sono altro che la logica conseguenza e la suprema affermazione dei princìpi in base ai quali egli ha regolato tutta la sua vita. Abbandonare la fede sarebbe contraddire l’intero carattere della vita passata; poiché, anche se il mondo lo ignora, la vita del filosofo è un lungo tirocinio in vista di essa. Solo egli sarà in grado di accettarla in modo sereno senza angosce e rimpianti: «Il mondo magari potrà dire di conoscere assai bene tutto ciò, sa che i filosofi sono creature vive a metà, e che è un modo per favorirli quello di eliminarli tutti. Soltanto su un punto sbaglia: non comprendere il senso in cui il filosofo, usa la parola morte».

Tale pratica filosofica si sviluppò nel contesto della più celebre scuola ateniese, l’Accademia platonica. Essa consisteva nell’usare la riflessione (logos) e le sue procedure, la dialettica, per operare sottilmente nell’individuo il distacco dell’anima dal corpo ancor prima dell’evento-morte. Il filosofo si rende ben presto consapevole che se vorrà intraprendere la vera ricerca della conoscenza dovrà tentare di sfuggire dalla fallibilità dei sensi e cercare di arrivare così a una verità più esatta e sicura.

Finché rimarremo legati al corpo, prosegue Socrate, è possibile avvicinarsi al bene supremo soltanto nella misura in cui l’anima concentrandosi su sé stessa e lasciando da parte ogni attenzione su di esso, aspetti pazientemente il giorno destinato per portare a compimento la liberazione. Quando ciò avverrà, potremo sperare, essendo divenuti intelligenza pura, di apprendere la realtà nella sua sostanza. È per questo che solo il filosofo, potrà considerare la sua vita come un vero e proprio tirocinio in vista di essa.

La concezione che sta alla base del dialogo è che vi è per l’uomo un bene supremo il quale, per sua stessa natura, non può essere ottenuto in questa vita. La migliore è pertanto quella diretta a prepararci alla piena fruizione di questo bene, al di là dei limiti imposti dall’esperienza temporale. Ciò significa che la vita più alta per l’uomo mentre è sulla terra è un vivere-morendo, un processo di liberazione dal vecchio per divenire nuovo. Questo perché il supremo fine del filosofo non è quello di fare cose, ma piuttosto quello di gioire di fronte alla visione di una realtà a cui egli diviene simile man mano che la contempla.

Ciò non ci deve condurre a pensare che Socrate ci stia invitando a una vita di astinenza puramente negativa in attesa che sopraggiunga la morte; lo scopo di queste rinunce è quello di rendere la vita dell’individuo migliore, purificandola da tutto ciò che le potrebbe impedire di raggiungere il suo obiettivo. La vita filosofica dunque non è una vita condotta nell’ozio e nella più tragica indolenza, ma una vera e propria missione alla quale bisogna scegliere di aderire oppure no.

Quindi, ascoltate Socrate, siate filosofi, vivete la vostra vita con coraggio e temperanza, curate la vostra anima e ricercate la saggezza, nella speranza, una volta morti di raggiungere quel bene supremo e conquistare così l’eternità.

 

Edoardo Ciarpaglini

 

copabb2019_set

Felicità: un pacifico conflitto

L’uomo desidera instancabilmente vivere in uno stato di pace, di quieta felicità: una necessità che trova le più sublimi forme di espressione nel periodo del Romanticismo. Afferma infatti Schlegel nel Corso di letteratura drammatica: «la poesia degli Antichi era quella del godimento, la nostra è quella del desiderio». Tuttavia, ricercando la felicità, l’uomo sperimenta l’amarezza del contrasto tra la tensione verso l’infinito e la limitatezza delle facoltà umane, qualità che rispecchiano il dualismo della sua complessa natura: «I Moderni hanno il profondo sentimento d’una interna disunione, d’una doppia natura nell’uomo […] I Moderni, il cui pensiero si lancia verso l’infinito, non possono mai compiutamente soddisfare se stessi, e rimane alle loro opere più sublimi un non so che d’imperfetto». Dunque il raggiungimento della felicità, intesa come pace e pienezza, si rivela impossibile, poiché richiederebbe l’annullamento o la trascendenza della natura umana: condizione di cui possiamo trovare una buona rappresentazione, inoltre, nelle funzioni matematiche, delle quali vengono studiati i “limiti” mentre tendono, continue, all’infinito.

Un grande esempio di animo inquieto, che si sforzò con la sua arte di superare i limiti umani fu Michelangelo: l’ansioso desiderio di rendere concreta la perfezione ideale esistente nella sua mente, la struggente insoddisfazione dei risultati ottenuti, il rifiuto dei propri limiti espresso con il “non finito” delle opere tarde rivelano la sete di assoluto dell’uomo, condannato, per la sua “doppia natura” appunto, ad avvicinarvisi senza poterlo tastare. Egli ne resta separato, come da un muro di vetro attraverso il quale traspare quella luminosa bellezza, e ciò nonostante non cessa di desiderarlo, poiché riconosce in esso il riflesso di una parte di sé.

Forse allora la felicità non può essere raggiunta con l’impotente rassegnazione di fronte ai limiti umani (“chi si accontenta, gode”), come nemmeno con la titanica impresa del loro superamento, che porterebbe unicamente ad amare delusioni. Al contrario, la convivenza della sfera spirituale con quella corporea, elementi essenziali di un uomo che possiede “celesti doti” (Foscolo, Dei Sepolcri) e si trova costretto in una realtà materiale, genera un’inquietudine che è la forza creatrice dell’essere umano, è il suo libero arbitrio nel bene e nel male; ed egli, assecondando la spontaneità, la genuinità e l’intrepidezza di questo stato d’animo, tocca le vette più alte della propria realizzazione. Dunque, nel rendere concrete queste inclinazioni naturali consiste la felicità: non nell’“atarassìa”, una condizione di pace e di soddisfazione duratura, ma nella via, lieta e tormentata, che vi conduce senza mai definitivamente approdarvi, poiché questo è lo stato più affine alla natura dell’animo umano. Infatti, anziché identificare l’obiettivo raggiunto con un desiderabile locus amœnus e tollerare con sofferenza il percorso ancora immaturo, è molto più fruttuoso compiacersi in quell’equilibrio dinamico, vitale ed inquieto, che caratterizza uno spirito intraprendente e nel contempo disponibile ad essere dominato da irrisolvibili contrasti.

La grande impresa dell’uomo consiste quindi nel conciliare queste due nature e nel trasformare il conflitto esistente tra esse nell’umana energia creatrice. In questo si cimentano agli artisti, poiché essi danno espressione alla spiritualità umana attraverso le forme concrete dell’arte: «la loro poesia aspira di continuo a conciliare, ad unire intimamente i due mondi, fra’ quali ci sentiamo divisi, quello de’ sensi e quello dell’anima […]. In una parola, essa dà anima alle sensazioni, corpo al pensiero» scrive ancora Schlegel. Ma in modo ancor più intimo e particolare, questo contrasto tocca i musicisti: la musica è una realtà di molto superiore a quella dell’uomo, perché è così viva, penetrante e allo stesso tempo sfuggente e trascendente, come una Musa che degni della sua ispirazione solo gli uomini che nel modo più sublime la invocano; e il tentativo di gestirla non può che generare paura, senso di vulnerabilità: la mobilità che mette in contatto la debolezza umana con l’immensità dell’arte. Infatti, se l’uomo fosse della stessa natura della musica, questa non susciterebbe emozioni, non eleverebbe gli animi ad uno stato superiore, perché diventerebbe parte del gran numero di fenomeni che l’uomo ha creato e ha imparato a controllare con le proprie facoltà; e gli artisti non sarebbero più i «custodi della bellezza del mondo» (Paolo VI). Così, si risvegliano le creature infernali al suono della cetra di Orfeo, e rivive Euridice grazie all’amore espresso con quell’arte purissima.

La musica allora assicura il contatto con la felicità: un susseguirsi di istanti, rarefatti ma profondamente eterni, in cui l’anima viene immersa in una dimensione dolcemente celeste. L’artista si nutre di questi momenti preziosi, in cui l’intensità dell’emozione ferisce i limiti umani e dona loro straordinaria sensibilità, in modo che attraverso queste ferite fluisca, pura, la musica. Ricercare come incatenati respiro in una simile esperienza; lasciarsi trasportare dalla forza libera della musica: un incessante contrasto di stati d’animo, che soddisfa proprio perché carica di tensione irrisolvibile le necessità di questa creatura mortale, che ha vita in un’anima eterna.

 

Sofia Marchetto

 

Sofia frequenterà a settembre il quinto anno al Liceo Scientifico Leonardo Da Vinci di Treviso. Questo è l’articolo con cui ha partecipato al nostro concorso di scrittura creativa Alla ricerca della felicità conquistando la pubblicazione sul nostro sito. Ecco la sua breve presentazione.

Mi chiamo Sofia Marchetto, sono una studentessa del Liceo scientifico “Leonardo Da Vinci”. 
Provo interesse per ogni ambito di studio, in particolare sono appassionata alla letteratura, alla filosofia, alla storia dell’arte, ma anche alle scienze della natura. Suono il violino e amo molto la musica classica di tutti i periodi, poiché la varietà di stili artistici è espressione della molteplicità di stati d’animo e di punti di vista che appartengono all’uomo: dunque, ricercando la mia identità, cerco di aprirmi a ciascuno di essi per arricchire le mie conoscenze e sensibilizzare la mia percezione della realtà.

La felicità non è uguale per tutti

La compiuta esperienza di ogni appagamento, stato di chi ritiene soddisfatto ogni suo desiderio. Sono queste le parole con cui viene generalmente definita la felicità. Un concetto evidente e vicino all’uomo in quanto rappresenta uno dei principali obiettivi a cui ambisce nella vita ma allo stesso tempo molto sfuggente. Alla domanda “cos’è la felicità?” non esiste infatti una risposta oggettiva. Tutti attribuirebbero a questa parola definizioni diverse, se non opposte, dettate principalmente dalle esperienze che hanno avuto modo di sperimentare durante la propria vita. Alcuni avrebbero un’idea apparentemente chiara, altri un po’ meno, altri ancora non saprebbero esattamente come definirla e dunque nemmeno come cercarla e trovarla. Che ognuno desideri una vita felice, è un dato di fatto. Ma per sapere che davvero è felicità bisogna prima di tutto possederla. Non esiste ragionamento né previsione, non esiste un metodo universale per trovarla essendo essa uno stato d’animo soggettivo.

Dall’antichità fino all’età moderna questa indagine fu una tematica che ha occupato il pensiero di molti scrittori, artisti, pensatori, filosofi, i quali volsero lo sguardo allo studio della condizione umana coinvolgendo, tra i vari aspetti, anche la ricerca della felicità. Nel mondo odierno questa emozione  viene associata a diversi elementi: c’è chi crede che essa dipenda dalla ricchezza e dai beni materiali e altri che invece la fanno coincidere con i legami affettivi o con le proprie passioni. La verità è che  tutte le persone hanno punti di vista diversi e perciò non esiste un concetto giusto o sbagliato per definirla né un percorso  che possa  soddisfare la ricerca di ognuno. Tutti devono infatti indagare in modo diverso per riuscire a trovare ciò che sarà certamente parte integrante della loro felicità, e distinguerlo dalle componenti variabili che devono invece essere adattate in base alle continue evoluzioni delle loro vite. Non è dunque abbastanza limitarsi a cercare: dato che ognuno è in continuo cambiamento c’è bisogno di perseveranza nella ricerca del senso della nostra esistenza e nel coltivare questo tesoro.

Esistono in diverse culture alcune parole coniate appositamente per descrivere concetti astratti che non trovano però termini corrispondenti nelle altre lingue, e possono quindi essere spiegate solo attraverso una definizione. Questi termini acquistano  tuttavia una particolare importanza perché, sebbene intraducibili, sono carichi di significato. Un esempio è la parola giapponese ikigai, letteralmente “ragione di vita”. La traduzione è però riduttiva e toglie alla parola molte sfumature del significato originale. Nella molteplicità dei suoi significati l’ikigai è traducibile anche con la stessa parola “felicità”, poiché essendo ciò che illumina la nostra quotidianità, il motore che ogni giorno ci dà energia e la ragione per cui vale la pena esistere, diviene l’elemento che sta alla base di una vita lunga e felice. Esso rispecchia alla perfezione il processo personale di ricerca della felicità perché secondo la cultura giapponese è qualcosa di immanente a ogni persona, nessuno escluso. Ognuno ha diversi interessi, e ciò che appassiona uno, può non piacere all’altro. Non tutti si sentono motivati facendo una determinata attività perché non tutti sono mossi dalle stesse curiosità, ed è questo il motivo per cui l’ikigai varia da individuo a individuo. Nel metodo giapponese per trovare la felicità quindi, l’essenziale sta nel riconoscere lo scopo della propria esistenza, ovvero qualcosa che fa provare la sensazione di essere felici quando lo si fa.  Di conseguenza ognuno ha bisogno di approcciarsi in modo diverso alla ricerca per trovare la propria fonte di gioia. Una persona deve tenere conto di diversi fattori, ovvero ciò che ama fare, ma anche prendere in considerazione le proprie capacità e punti di forza. Inoltre bisogna basarsi sulla propria vocazione, quella per la quale si può essere pagati e su ciò di cui il mondo ha bisogno. Dato che queste caratteristiche variano in ogni singolo, non è possibile trovare il proprio ikigai in un solo modo, ma bisogna adattare il proprio metodo di ricerca in base alla propria persona.

Poiché lo scopo principale delle attività che si compiono nelle vite di tutte le persone è il raggiungimento della felicità è opportuno capire cosa le rende cariche di valore. Ciò che le rende significative è variabile, profondamente individuale e diverso in ognuno di noi. Il senso della nostra esistenza non è quindi ricercabile attraverso un metodo collettivo ma dipende dall’attitudine di ognuno nei confronti della vita.

 

Tatiana Magoga

 

Tatiana frequenterà a settembre il quinto anno al Liceo Linguistico Duca degli Abruzzi di Treviso. Questo è l’articolo con cui ha partecipato al nostro concorso di scrittura creativa Alla ricerca della felicità con il quale ha ottenuto il primo premio e la pubblicazione sul nostro sito. Ecco la sua breve presentazione.

Mi chiamo Tatiana e studio in un liceo linguistico. Anni fa ho iniziato ad interessarmi di culture orientali, in particolare di quella giapponese, e ho iniziato a coltivare questa passione cercando di capire meglio la loro particolarità. Attraverso i miei studi ho accumulato un gran numero di nozioni che sono entrate a far parte del mio bagaglio culturale. Tra tutto ciò che ho imparato, ho sempre avuto il desiderio di far conoscere gli aspetti della cultura giapponese che più mi hanno affascinato, poiché vivendo in un contesto completamente diverso, pochi sono a conoscenza della sua bellezza. Scrivendo questo articolo ho visto l’occasione per fondere il mio amore per le lingue e il mio interesse per l’Oriente, e grazie a La Chiave di Sophia ho la chance di condividerli con altre persone.

 

[Photo credits Unsplah.com]

banner 2019